Storia della Repubblica di Firenze v. 1/3 - 15

Todi col proposito di farsi innanzi per la via d’Arezzo, intantochè
altre delle sue genti calavano dalla parte del Mugello, e Castruccio
preparava maggiore guerra e più terribile per le vie note della
pianura. Nè sarebbe stato nulla che l’Imperatore avesse in quel mezzo
abbandonata l’impresa, andato a congiungersi in Maremma con le forze
di Pietro figliuolo del re di Sicilia ch’era sbarcato a Talamone, se
tanto pericolo della città di Firenze non fosse ad un tratto venuto a
cessare per la morte di Castruccio. Il quale, infermo per le fatiche da
lui sostenute nell’assedio di Pistoia, finiva la vita in Lucca il terzo
dì del settembre: ma quella morte rimase occulta per alquanti giorni
poi, siccome aveva egli prescritto, perchè i figliuoli avessero agio di
assicurarsi nello Stato. Era Castruccio duca di Lucca, signore di Pisa
e di Pistoia e della Lunigiana e di gran parte della riviera di Genova
di Levante, con più di trecento castella murate: ma quante fossero le
difficoltà nelle quali si avvolgeva quella sforzata sua grandezza,
parve che avesse egli mostrato allorachè in Roma alla incoronazione
dell’Imperatore, sopra una sua roba di sciamito chermisi portava
scritti questi due motti: dinanzi al petto _Egli è quello che Dio
vuole_, e dietro le spalle _Sarà quello che Dio vorrà_. E poco innanzi
alla sua morte, conoscendosi morire, disse ai suoi più stretti amici:
che dopo lui vedrebbero rivoluzione.[167] Era in età di 47 anni quando
moriva.
Due mesi dopo venne a morte Carlo duca di Calabria, il che fu ruina
di casa d’Angiò rimasta priva di successione maschia; ma Firenze per
tal modo riacquistava la libertà quando era cessata la necessità della
difesa. Laonde attesero i magistrati a riordinare lo Stato; e perchè
tale ordinamento rimase poi stabile e diede forma alla Repubblica, lo
trascriveremo qui distesamente in molte sue particolarità. «Volendo che
lo squittinio de’ loro magistrati procedesse sinceramente, trovarono
questa via, che tutti gli ufficiali che di presente governavano la
città, come Priori, Consiglieri, Gonfalonieri di compagnie, Capitani
di parte guelfa, Cinque della mercatanzia e Consoli delle arti,
ciascun magistrato con due arroti popolani per sesto, che vennero a
fare il numero di novantotto persone, nominassero tutti coloro che
di trenta anni in su erano stimati degni del priorato. Ciascun de’
quali, avendo sessantotto fave nere, avesse a imborsarsi di sesto
in sesto per esser tratto a’ tempi ordinati, di mano in mano che si
facea la creazione de’ nuovi magistrati. Alla qual cosa procedettono
con tanto riguardo, che oltre aver preposto al contar delle fave sei
Religiosi forestieri d’ottima fama, vollono ancora che il forziere
ove dette borse si conservavano fosse portato nella sagrestia de’
frati Minori, e che di tre chiavi che v’erano, una tenessono i frati
conversi di Settimo, l’altra il Capitano del popolo, e la terza il
ministro de’ frati Minori, con ordine che ogni due mesi, tre dì innanzi
che i vecchi Priori deponessero il loro ufficio, facessero venire il
detto forziere, e in presenza di tutto il consiglio aprirlo e trarre
a ventura tante bollette quante bisognavano a fare i nuovi Priori; i
quali s’intendessero esser subitamente fatti, se non erano impediti
dal divieto: il quale a quelli d’una famiglia s’intendeva esser di sei
mesi, e tra padri, figliuoli e fratelli, di due anni. Questo ordine
con molte altre circostanze necessarie fermato per gli opportuni
Consigli, fu approvato in pieno parlamento nella piazza de’ Priori li
11 di dicembre; nel quale annullati tutti i Consigli vecchi, ne furono
formati due soli; uno di trecento uomini, ove non intervenivano altri
che popolani, del quale era capo il Capitano del popolo; e l’altro di
ducentocinquanta, dove entravano popolani e grandi, e di questo era
capo il Potestà; e le deliberazioni prese dalla Signoria doveano, per
esser valide, essere prima approvate in quello del Popolo, e poi in
quello del Potestà.[168]»
Nota qui presiedere il Potestà al Consiglio del Comune, e il Capitano
a quello del Popolo: la distinzione era solenne, nè vuole essere
dimenticata mai: il Popolo aveva il governo del Comune rappresentato
dal Potestà; il Capitano era custode di quel governo, e comandava la
forza armata dei popolani. Ciascun Consiglio aveva pure la sua campana,
l’una appellata campana del Comune e l’altra del Popolo. Spettando
al Popolo la prerogativa, il Consiglio del Comune dove i grandi si
ammettevano, veniva ultimo alle approvazioni.
Qui aggiugneremo alcune altre più particolari costumanze, tratte da
un’opera tuttora inedita ma d’assai fede e diligenza.[169] Allorchè
la nuova Signoria entrava in possesso, sedendo i nuovi ed i vecchi
insieme sulla ringhiera del Palagio abbigliata di ricchi e belli
arazzi, e fatte le opportune dicerie, il Gonfaloniere nuovo riceveva
lo stendardo del popolo dalle mani, nei primi tempi, del Potestà o
del Capitano, poi da quelle del Gonfaloniere che usciva: andavano
quindi ad offerire in San Giovanni, con molto grande accompagnamento.
Nelle stanze del Gonfaloniere erano custoditi gli stendardi della
Repubblica, e i contrassegni delle fortezze, e le chiavi delle porte
della città chiuse la notte, e che non si aprivano senza un partito
della Signoria. A lui spettava rappresentare la Repubblica nelle
maggiori occasioni, dando egli la bacchetta del comando al Potestà e al
Capitano del popolo e all’Esecutore ed ai Capitani che si eleggevano
per le guerre. Il Gonfaloniere ed i Priori mangiavano insieme ed in
cerimonia, suonando le trombe ed altri strumenti; dai quali erano pure
accompagnati quando uscivano per ufficio, preceduti dai mazzieri con
molta guardia e solenne pompa. La spesa pel vitto e mantenimento dei
Signori e dei donzelli e serventi loro montava a dieci fiorini d’oro
il giorno: erano compresi nella famiglia del Palagio cinque Religiosi,
da principio Valombrosani, per dire la messa nella interiore cappella
e per la custodia delle borse e dei sigilli. Era vietato ai Signori
uscire di Palagio privatamente; e se taluno volesse andare la notte
senza che il popolo lo sapesse alle sue case, gli abbisognava la
licenza del Proposto, di quello cioè che tra’ Priori quel giorno aveva
la presidenza: non potevano andare a’ mortori, nè a messe novelle, nè
ai vestimenti delle monache. Ad essi non era lecito trattare da solo
a solo con alcuno, quando anche fosse dei loro congiunti; ma davano
udienze frequenti, e (a quello che scrive il Giannotti) continue tanto
che l’impaccio delle private faccende riusciva ad essi d’impedimento a
bene attendere alle pubbliche.
Un tristo fatto vuolsi notare: nel precedente anno 1327 per condanna
dell’Inquisizione fu arso in Firenze come eretico e stregone Francesco
Stabili, noto col nome di Cecco d’Ascoli. Abbiamo di lui fatto ricordo
come poeta, ma ebbe altresì fama grandissima per dottrina; lesse in
Bologna astronomia, ed in un trattato della Sfera avea prodotto molte
opinioni sugli influssi delle stelle. Allora stava come astrologo
presso il Duca di Calabria, ma un frate Minore vescovo d’Aversa
e cancelliere del Duca lo fece pigliare; e più cose inverosimili
si raccontano di quella morte, della quale però sembra che fosse
principale autore Dino del Garbo, solenne medico fiorentino, scrittore
anch’esso di vari libri. L’Inquisizione non fu giammai in Firenze
molto viva; tolta di mano ai Predicatori fin dal secolo precedente, fu
data invece ai frati Minori, bene accetti a questo popolo perchè nella
regola di san Francesco era stata la consecrazione o in qualche modo il
primo inizio della Italiana democrazia. Favorirono gli Inquisitori ne’
primi tempi gli odi di parte con le condanne e le confiscazioni di cui
percossero i Ghibellini: ma dipoi stettero quasi inoperosi, messi anche
in burla da questo popolo; il quale sebbene parteggiasse per la Chiesa
e nelle opere di religione si dimostrasse molto magnifico, era geloso e
guardingo assai quanto allo stato ed alla giurisdizione.


CAPITOLO II.
IL RE GIOVANNI DI BOEMIA SCENDE IN ITALIA. — PIENA D’ARNO. — DEDIZIONE
DI PISTOIA, ED ALTRI ACQUISTI. — GUERRA CON MASTINO DELLA SCALA;
FALLITA IMPRESA DI LUCCA. [AN. 1328-1342.]

Nel detto anno 1328 e fino al 1330 fu grande caro in Firenze e in
tutta Toscana ed in gran parte d’Italia, tantochè il grano dai 17
soldi lo staio montò fino al prezzo di un fiorino d’oro. Fu sì crudele
la carestia, che i Perugini, i Sanesi, i Lucchesi, i Pistoiesi e più
altre terre di Toscana cacciarono fuori degli Stati loro tutti i poveri
mendicanti, per non poterli sostenere. I quali venuti in grande copia
a Firenze, quivi trovarono campamento, avendo il Comune fatto venir
grano di Sicilia, ch’era portato a Talamone; e con la perdita di 60
mila fiorini d’oro in quei due anni, gli riuscì tenere il prezzo del
grano a mezzo fiorino, tuttora col quarto d’orzo mescolato. «Vendevasi
in piazza ad Or San Michele con tanta furia di popolo, che convenia
vi stessero a guardia le famiglie delle Signorie armate col ceppo
e mannaia per fare giustizia, e se ne fece tagliando membri. Infine
provviddero di fare pane per il Comune a tutti i forni, di peso d’once
sei il pane mischiato, a danari quattro l’uno. E (dipoi seguita il
Villani) tuttochè io scrittore non fossi degno di tanto ufficio, mi
trovai ufficiale con altri a così amaro tempo, e con la grazia di Dio
fummo de’ trovatori di questo rimedio, onde si contentò la povera
gente, senza scandalo o rumore; e con questo testimonio di verità,
che in niuna terra si fece per gli possenti e pietosi cittadini tante
elemosine a’ poveri, quante in quella disordinata carestia si fece per
gli buoni Fiorentini.[170]»
I figliuoli di Castruccio dopo la morte del padre aveano a Pisa _corso
la terra_; usato modo di attestare e con la forza di confermare la
possessione d’una città: ma vennero tosto dall’Imperatore privati di
quella, e poi di Lucca stessa, e perdettero ogni signoria, la quale
tentarono più volte poi di racquistare, ma senza frutto. Rialzava
il capo nella Toscana la lega guelfa capitanata dai Fiorentini, che
strinsero pace con Pistoia liberata, e poco dipoi in Montopoli con
Pisa istessa conciliando a breve tempo le vertenze consuete per il
passaggio delle mercatanzie. Ma l’Imperatore, dopo avere dai Pisani
cavati danari quanti più poteva, lasciò la Toscana costretto partirsi
per il motivo che ora diremo; e dopo essersi trattenuto qualche tempo
in Lombardia, se ne tornava in Allemagna. Causa al partirsi gli aveva
dato, che ottocento cavalieri tedeschi per non essere pagati se gli
ribellarono, postisi a campo in sul poggio del Cerruglio che aveva
Castruccio fortificato gli anni innanzi; e di qui poi sotto la condotta
di Marco Visconti, correndo le terre e devastando le campagne, come
gente bisognosa che vivevano di ratto, ebbero il castello dell’Agosta
dal quale Lucca era dominata, ed in breve ora la città stessa.
Questa, perchè non ne volevano altro che moneta, mandarono a offrire
per ottanta mila fiorini d’oro ai Fiorentini; e Marco istesso venuto
in Firenze sollecitava il trattato, che andò a vuoto quella volta e
un’altra poi, quando i Tedeschi la profferirono di bel nuovo, ed una
compagnia di mercanti Fiorentini, tra i quali era Giovanni Villani,
accettavano di comperarla privatamente per conto loro: ma ne furono
impediti da gelosie tra’ cittadini; ed i Tedeschi, dopo averne anche
avuto trattato co’ Pisani, la venderono a Gherardino Spinola genovese,
il quale divenne per trenta mila fiorini d’oro signore di Lucca: a tale
bassezza era caduta quella città. Ebbe egli guerra co’ Fiorentini, i
quali cinta con vano assedio la stessa Lucca, espugnarono Montecatini,
con buoni successi anche nell’inferiore Valdarno; e San Miniato, antico
seggio degli imperiali Vicari o Capitani, venne pur esso in potestà
loro. Qui dirò cosa da farne amare al paragone i tempi nostri: il
Capitano dei Fiorentini perdè la condotta perchè lasciava per moneta i
contadini seminare le terre loro: dovevano i campi dei nemici rimanere
incolti, e tutti patire degli odii scambievoli. Tanto crudeli erano
le guerre quando tra’ popoli si facevano, e così era l’amor di patria
ristretto dentro a breve spazio.
In questo mezzo era disceso nell’Italia il re Giovanni di Boemia,
figlio rimasto d’Arrigo VII, invitato dai Bresciani, a’ quali pareva
essere oppressi dai Visconti. Di prima giunta ebbe, oltre a Brescia,
Bergamo e Parma e Reggio e Modena, e dallo Spinola a buon mercato ebbe
in vendita la infelice Lucca. Aveva la Chiesa antiche ragioni su talune
di quelle città; ma il Re procedeva d’intelligenza e con l’amistà
del Cardinale Legato, il Papa cercando farsene strumento contro
all’Imperatore bavarese e ai Ghibellini di Lombardia. Laonde temette
Firenze allora quell’ingrossarsi dello Stato pontificio intorno ad essa
da ogni lato; temeva il Papa più che l’Imperatore lontano e povero e
discreditato. E quanta fosse la confusione in cui vivevano le italiane
cose mostrò la lega che insieme strinsero i Fiorentini ed il re Roberto
con gli Scaligeri e co’ Visconti e con gli altri Ghibellini; lega
improvida tra nemici, che per viluppi ogni ora nuovi sempre dovevano
poi combattersi. Ma i primi frutti se ne ottennero, e ciò bastava: i
collegati presso Ferrara ebbero la meglio in una grande giornata, e
il francese Cardinale restò prigione dei Bolognesi; se non che tosto
i Fiorentini ne procurarono la liberazione, perchè troppo non volevano
tenere guerra contro alla Chiesa: il re Giovanni ripassò le Alpi.
Nuovi disastri sopravvenivano in questi tempi alla città. Le
inondazioni dell’Arno più gravi erano e più frequenti in quei secoli
che a’ dì nostri. Narra Giovanni Villani come nell’anno 1333, il dì
d’Ognissanti, «cominciò a piovere diversamente in Firenze ed intorno
al paese nell’alpi e montagne, e così seguì al continuo quattro dì e
quattro notti, crescendo la pioggia sformatamente che pareano aperte
le cateratte del cielo, e colla pioggia continuando spessi e grandi
e spaventevoli tuoni e baleni, e cadendo folgori assai; onde tutta la
gente viveva in grande paura, sonando al continuo per la città tutte
le campane delle chiese, e in ciascuna casa bacini o paiuoli; con
grandi strida gridandosi a Dio Misericordia Misericordia; fuggendo
le genti di tetto in tetto, facendo ponti da casa a casa; ond’era sì
grande il romore e il tumulto, ch’appena si potea udire il suono del
tuono. Per la detta pioggia il fiume d’Arno crebbe in tanta abbondanza
d’acqua, che prima onde si muove scendendo dell’alpi con grande empito
e rovina, sommerse molto del piano di Casentino, e poi tutto il piano
d’Arezzo e del Valdarno di sopra, abbattendo e divellendo gli alberi
e mettendosi innanzi e menandone ogni molino e gualchiere ch’erano in
Arno, e ogni edificio e casa appresso all’Arno che fosse non forte:
onde perirono molte genti. E poi scendendo nel nostro piano presso a
Firenze, accozzandosi coll’Arno il fiume della Sieve, la qual’era per
simil modo sformata e grandissima, e avea allagato tutto il piano di
Mugello; il giovedì a nona, a dì 4 novembre, l’Arno giunse sì grosso
alla città di Firenze, che egli coperse tutto il piano all’intorno
della città fuori di suo corso in altezza in più parti sopra i campi,
ove braccia sei e dove otto e dove più di dieci braccia. E fu sì grande
l’empito dell’acqua, che rotte le porte e gran parte delle mura, inondò
tutta la città stessa; tantochè nella chiesa e duomo di San Giovanni
salì l’acqua infino al piano di sopra dell’altare, più alto che mezze
le colonne di porfido le quali stanno alla porta. E al Palagio del
popolo dove stanno i Priori salì il primo grado della scala dove
s’entra, incontro alla via Vacchereccia, che è quasi il più alto luogo
di Firenze. E al Palagio dove sta il Potestà salì nella corte disotto,
dove si tiene la ragione, braccia sei. Ruppe la pescaia d’Ognissanti, e
incontanente rovinò e cadde il ponte alla Carraia, e poi subito quello
di Santa Trinita, e il ponte Vecchio; cadde in Arno la statua di Marte
che era a piè di esso ponte; e quello a Rubaconte fu danneggiato molto,
e rovinò a terra il palagio del castello d’Altafronte: caddero gran
parte delle case di qua e di là d’Arno fino al ponte alla Carraia e
alla gora del Mulino; che a riguardare le dette rovine pareva quasi un
caos. Tutte le vie e case e botteghe terrene e vôlte sotterra rimasero
piene d’acqua e di puzzolente mota, che non si sgombrò in sei mesi;
e quasi tutti i pozzi furono guasti e si convennero rifondare. L’Arno
coperse tutto il piano verso ponente fin’oltre a Prato e fin presso a
Pisa, guastando i campi e vigne, menandone masserizie, case, mulina,
ponti e molte genti, e quasi tutte le bestie. Questo diluvio fece
alla città e contado di Firenze infinito danno; di persone intorno
a trecento, che al principio si credea più di tremila; e di bestiame
grande quantità, di rovina de’ ponti e di case e molina e gualchiere
in grande numero, che nel contado non rimase ponte sopra nessun fiume
o fossato che non rovinasse; di perdita di mercatanzie, panni lani di
lanaiuoli per lo contado; e di arnesi e di masserizie e del vino, che
ne menò le botti piene, assai ne guastò; e simile di grano e biade
ch’erano per le case; senza la perdita di quello ch’era seminato, e il
guastamento e rovina delle terre e de’ campi: che se l’acqua coperse e
guastò i piani, i monti e le piaggie ruppe e dilaniò, e menò via tutta
la buona terra.[171]» I danni pubblici e privati, scrive il cronista
contemporaneo, che gli era impossibile per alcun numero adequare.
Avremo però spesso occasione di accennare come nei pubblici danni
cercasse suo pro la ferocia delle parti, cagione forse anche degli
incendi che assai frequenti si rinnovarono in tutto il corso di quegli
anni.
Ed a quei tempi venne in Firenze una di quelle processioni di
Flagellanti, noti abbastanza per le istorie in altre parti d’Europa.
Erano da diecimila Lombardi condotti da un frate Venturino da Bergamo
dell’ordine dei Predicatori. Dovunque passavano, gridavano pace
e misericordia. Ed il Frate predicava con efficaci parole, «quasi
affermando e dicendo: quello che io vi dico sarà, e non altro; chè
Iddio così vuole.» In Firenze dimorarono quindici dì, ed ogni giorno
nella piazza Vecchia di Santa Maria Novella erano messe tavole e
mangiavano 500 per volta e più. A Roma andarono, ingrossati molto
d’uomini toscani che gli seguitavano; e di là quindi in Avignone a
Corte del Papa: ma per la presunzione del Frate, e perchè diceva che
non era niuno degno papa se non stesse a Roma alla sedia di san Piero,
e per tema ch’ebbe il Papa che per le sue prediche non commuovesse il
popolo cristiano, lo mandò a confino, e comandogli che non confessasse
persona nè predicasse a popolo. «E questi sono (continua il giusto e
pio Villani) i buoni meriti che hanno le sante persone da’ prelati di
Santa Chiesa; ovvero che fu giusto per temperare la soperchia ambizione
del Frate, tutto ch’adoperasse con buona intenzione.[172]»
In quelli stessi anni cominciarono a crollare e poco dopo fallirono la
compagnia dei Peruzzi e quella dei Bardi, le quali avevano sovvenuto
il re d’Inghilterra nelle guerre contro a’ Francesi che a lui valsero
le vittorie di Crécy e di Poitiers. Per le loro mani venivano tutte le
rendite e lane e cose di quel re, ed essi fornivano tutte sue spese e
bisogni: tantochè i Bardi si trovarono avere da lui più di centottanta
migliaia di marchi di sterlini, e i Peruzzi più di centotrentacinque
migliaia; che ogni marco valeva più di fiorini quattro e un terzo
d’oro, e in tutto montava più di un milione e trecentosessantacinque
mila fiorini d’oro. Bene erano in quella somma da contare le
provvisioni a loro fatte in molti anni; «ma grande follia fu avere
messo tanta gran somma in uno Signore,» come scrive lo stesso Villani
il quale era o era stato in società coi Peruzzi.[173] Molti di questi
danari erano ad essi dati in deposito da cittadini e forestieri;
cosicchè il danno fu grande, e per qualche tempo scemò il credito della
città di Firenze, nelle mercatanzie e nelle arti. Continuava però
la costruzione dei pubblici edifizi; e allora sorgeva il campanile
di Giotto, ed all’Arte della lana fu data la cura di proseguire la
fabbrica di Santa Maria del Fiore, interrotta molti anni, a questa
assegnando certi proventi nuovi o soprattasse alle gabelle del Comune.
La Repubblica frattanto da ogni parte si ampliava fuori dei termini
dell’antico Stato; e primo passo in quella via per cui si perde la
libertà fu estendere il dominio in altre città use a viver libere ed a
fiorire nella indipendenza.[174] La giustizia delle repubbliche cessa
pel fatto delle conquiste; non sanno reggerle temperatamente, e con
le offese che ad altri recano, a sè preparano servitù. A Roma e in
Grecia le oppressioni di molti popoli si coprivano con la bugia delle
colleganze; nella Toscana lo stesso nome soleva darsi alle dedizioni,
rifugio ultimo delle città smunte o lacerate dalla discordia. Prima
a cedere fu Pistoia, che prima era stata cagione di scandali, e che
aveva sopra ogni altra patito in quegli anni, talchè l’istoria ne è
lamentevole.[175] Fidava da ultimo nella fortuna di Castruccio; ma
pochi mesi dopo la morte del gran condottiero dovette Pistoia venire
a patti co’ Fiorentini, i quali ne presero la guardia, ed uno loro
cittadino popolare andò a risedervi per capitano. Due anni dopo, nel
1331, entrativi a forza con l’aiuto della parte che stava per loro,
corsero la terra, disfecero tutte le fortezze del contado, ed una
tosto ne fabbricarono dentro la stessa città. La dedizione era per due
anni,[176] continuata di mano in mano; un magistrato istituito per le
cose di Pistoia, e che dipoi ebbe nome di _Pratica Segreta_, non è gran
tempo che fu abolito. Nel 1332 i Fiorentini fecero lega con la famiglia
dei Casali, i quali avevano la signoria di Cortona, e gli tolsero in
protezione; ch’era già porre come un freno in bocca ad Arezzo.
Le ambizioni del Vescovo Tarlati avevano fatto a questa città quel
che alla misera ed esausta Lucca le grandezze di Castruccio. Morto il
Vescovo, era capo di quella famiglia il vecchio Piero, suo maggior
fratello, noto col nome di Pier Saccone: questi avuta contraria la
sorte delle armi, e stretto in mezzo tra città guelfe, prima cercò
fare accordo co’ Perugini per la signoria d’Arezzo, poi la cedè ai
Fiorentini l’anno 1337. I patti furono, che per dieci anni il Comune
di Firenze avesse in Arezzo impero e libera giurisdizione, tenendo
quivi oltre al potestà e al giudice delle appellazioni, un capitano
di custodia e di guardia con dugento cavalli ed altrettanti fanti
italiani, ma non d’Arezzo nè del contado. Che gli Aretini fossero
esenti da nuove prestanze, che si reggessero a popolo guelfo e
ghibellino; che gli esuli della città e del contado fossero rimessi a’
loro beni ed agli onori. L’istesso obbligo noi troviamo nel trattato
con Pistoia, inteso al fine di mantenere viepiù divise le città
suddite: dai Ghibellini poco temevasi, ed in Firenze il nome guelfo era
strumento alle soperchierie d’alcuni uomini prepotenti. I Fiorentini
mandarono a pigliare la possessione di Arezzo dodici Commissari grandi
e popolani: i grandi veggiamo questa volta figurare, perchè l’impero
spettava al Comune di Firenze, nel quale tutti si comprendevano i
cittadini indistintamente, benchè lo stato fosse del Popolo; ed in
Arezzo poi volevano (come dicemmo) piaggiare i nobili. Vi mandarono
nel tempo stesso il Generale di guerra con trecento cavalieri in arme e
tremila pedoni del Valdarno di sopra, ai quali uscì incontro due miglia
fuori della città il popolo d’Arezzo con rami d’ulivo in mano gridando
pace e perpetua felicità alla Repubblica Fiorentina. Piero Tarlati gli
ricevè in sulla porta della città, della quale poi nel maggior tempio
furono date ad essi le chiavi e il gonfalone della giustizia; non senza
le pompe delle usate dicerie, che si facevano in latino. Contuttociò
il primo atto della nuova signoria fu edificare una fortezza a
sopraccapo della città, e una bastìa presso alla porta la quale s’apre
verso Firenze. Nell’anno 1338 Colle di Valdelsa si diede anch’esso ai
Fiorentini. I patti vari delle dedizioni per cui si compose il nuovo
Stato della Toscana, indussero molta varietà di privilegi, e condizioni
disuguali nelle città minori e nelle terre o comunità, e vita propria
in ciascuna d’esse.
I Tarlati ritenevano intorno Arezzo molte castella, che per l’accordo
furono date in protezione alla Repubblica. I Barbolani, cui era sede
il forte sito di Montaguto, ottennero anch’essi esenzioni e privilegi
finchè più tardi vennero a porsi sotto la stessa accomandigia. I
possenti Conti Guidi, che rimasero per cento anni poi dominatori
del Casentino, in quel trattato ebbero favore siccome amici della
Repubblica; la quale però in quell’anno dava opera a fondare Terranuova
nel Valdarno superiore perch’ella stesse a fronteggiare cotesti Conti
e gli Ubertini, e raccogliesse gli uomini liberi via via sottratti
alla dominazione loro: alla famiglia degli Ubertini, ed ai Pazzi di
Valdarno, ed a quei della Faggiuola, ed ai conti di Montefeltro, ed
ai conti Montedoglio fu vietato d’accostarsi per dieci miglia alla
città d’Arezzo. Molte contese e trattati vari in questi anni ebbe la
Repubblica, siccome n’ebbe essa in ogni tempo co’ Signori dei castelli
fin dal principio della libertà:[177] costrinse i Bardi alla cessione
della contea di Mangona, restando ad essi quella di Vernio, l’una
e l’altra avute in compra dai successori dei Conti Alberti che la
tenevano dai Cadolingi. Ai più deboli talvolta prestava aiuto contro
a’ potenti; riduceva altri a prestarle omaggio offrendo un cero a San
Giovanni; i vassalli dei Signori faceva sorgere a coloni liberi,[178]
ed il popolo dei contadini viepiù avanzandosi da ogni lato, in mezzo
ad esso rimanevano le rôcche nude e solitarie, intorno intorno come
assiepate dai frutti vegeti della libertà. Per le quali opere la
Repubblica meritava molto bene di tutta Italia e della umanità:
quel carattere che la Toscana ebbe suo proprio e che apparve nella
formazione della lingua, fu mantenuto nelle istituzioni; e il genio
etrusco ed il latino presso che soli vi dominarono, perchè il suolo
era quasi sgombro da ogni vestigio di fedualità straniera. Quindi la
copia delle tradizioni che indussero in questo popolo, come esperienze
anticipate, la temperanza nei pensieri; e quindi la buona economica
istituzione e le abitudini civili, che pure in mezzo a feroci tempi
lo educavano tuttavia alla mitezza dei costumi; pregi del popolo di
Toscana, che sopravvissero a ogni decadenza ed a lui sono felicità.
Ma la più lunga delle contese che la Repubblica avesse mai co’
Signori dei castelli, fu con la casa degli Ubaldini, dominatori assai
potenti degli appennini verso Bologna, pei quali spesso davano mano ai
Ghibellini di Lombardia, e infestavano le strade con grave scapito dei
commerci.[179] Vedemmo come i Fiorentini validamente gli contenessero
dalla parte del Mugello; edificarono in questi anni dall’altra banda
di quei monti ed afforzarono una terra, cui diedero nome di Firenzuola
a suggerimento del Villani, siccome narra egli medesimo.[180] Tutte
queste terre franche che si rinvengono per l’Italia, mi pare abbiano
la stessa forma, come hanno certo nella Toscana: un quadrilatero che le
due maggiori vie dividono in quattro minori quadrati, facendo croce in
una piazza che sta nel mezzo ed una porta a ciascun capo di quelle vie:
eguale in tutto era la forma che anticamente i Romani eserciti davano
ai loro accampamenti. Nè prima sorta era una di queste terre che ad
essa concedevano lo Statuto, com’era costume che ogni Comunità avesse
allora sue proprie leggi per l’interiore amministrazione. Costretti noi
a tacere molte di quelle piccole fastidiose guerre che ad ogni tratto
si combattevano, e il por mano che faceva la Repubblica a molte cose
in ogni luogo dove occorresse alla difesa o all’ampliazione di quello
Stato ch’essa reggeva; diremo solo che il Comune libero di San Marino
fu mantenuto per l’amicizia e co’ denari de’ Fiorentini, cui premeva da
quel lato averlo a guardia della Romagna; talchè per essi potè scampare
quella onorata repubblichetta, che avanzata come un saggio o una
briciola del medioevo, rimane infino ai giorni nostri.[181]
Ma la Repubblica di Firenze in tutto il corso di quegli anni troviamo