La plebe, parte II - 32

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e non avevo chiara e netta la coscienza delle condizioni in cui mi
trovavo. In piazza San Carlo, mi ricordo che c'era un gran cerchio di
persone intorno ad una quattrina di musici ambulanti che cantavano una
canzone popolare coll'aria più allegra che si possa dir mai. Ristetti
ancor io ad ascoltare, come se nulla avessi in mente da occupare il mio
pensiero. Ma a breve andare la volgare allegria di quella musica sembrò
offendermi la suscettività nervosa; mi destò un'irritazione pungente che
era quasi un dolore di fibre; ad un tratto chiaro mi comparì innanzi lo
stato in cui ero ridotto. Ero di nuovo solo — più solo che mai — sulla
terra. Quel soave legame d'affetto che la fortuna mi aveva concesso di
stringere coll'umana razza, colla società, per mezzo di quell'amorevole
famiglia che sì generosamente mi aveva accolto, quel legame era spezzato
bruscamente, dolorosamente e per sempre! Non avevo più nessuno sulla
terra che mi volesse un po' di bene: da que' pochi che me ne avevan
voluto testè ero disprezzato e maledetto. Oh come ripiombino crudeli,
desolanti sull'animo siffatti pensieri, tu non sai, tu non puoi
immaginare, può sapere soltanto chi fu nella trista condizione di
provarli. Un impeto di cordoglio disperato subitamente mi assalse;
provai uno spasimo che mi serrava la gola e stava per iscoppiare in
singhiozzo; sentii le lagrime che stavano per prorompere in pianto
dirotto dagli occhi; fuggii per non essere visto in quella esplosione di
dolore.
Solo, solo al mondo, odiato, disprezzato e maledetto! Ecco adunque a che
cosa avrebbe fatto capo soltanto ogni atto della mia vita! Era la
sentenza irrevocabile del mio destino che coll'infelicità della nascita
aveva pregiudicata e predisposta tutta la mia vita. Le inique parole di
Graffigna mi tornarono presenti, e con una maggiore e più barbara
efficacia che mai. Inutile il lottare, inutile il volersi sottrarre alla
propria sorte: respinto dagli uomini, in sospetto e in odio alla
società, avrei dovuto ad ogni modo gettarmi fra i ribelli alla medesima.
La mia innocenza a che cosa mi aveva servito? Già due volte le più
scellerate accuse mi avevano raggiunto. Ero predestinato a quello che
gli uomini chiamano colpa. Nel mio cervello si era fatta come una
tenebra in cui si aggiravano tumultuariamente le più fosche immagini. Mi
domandavo se virtù ed innocenza non erano frasi d'inganno trovate da'
furbi per irretire i credenzoni. Che cosa mi serviva essere onesto?
Avevo il disprezzo e il danno della colpa, senza averne avuto i guadagni
che ad essa sollecitano. Ora che cosa sarebbe avvenuto di me nel mondo?
Ricordavo che tutti i miei risparmi avevo consumati; dove avrei trovato
un guadagno, dove un pane da sostentarmi? Nelle mie veglie avevo
meditato sui problemi più ardui della società umana; avevo posto alla
tortura il cervello per abbozzarne delle soluzioni che la scienza
accumulata di secoli, l'osservazione, il buon senso, la possibilità
attuale delle cose non condannassero. Che cosa mi serviva tutto codesto?
Non avrebbe ritardato d'un giorno ch'io morissi di fame. Nel mio
intelletto offuscato, tutta la potenza consolante delle teorie a cui
avevo dato la mia fede, non aveva più azione di sorta. La nebbia della
passione mi velava ogni luce dello spirito. Bestemmiai coll'angoscia
della disperazione. Il mal fisico di quella infermità che già mi aveva
condotto presso a morte quando ebbi a sopportare l'ignominia del
carcere, che mi assalì eziandio allorchè tu mi avesti salvo dalla pazzia
del suicidio; infermità di cui le sofferenze della vita svilupparono il
germe posto dalla natura nel mio organismo, e la quale anche ora cova e
progredisce latente in questo miserabile mio corpo; quel mal fisico che
già preparava il suo scoppio nei travagli della passione, nelle fatiche
d'un lavoro mentale esagerato e d'un'agitazione di nervi senza riposo,
conferiva col febbrile dissesto della circolazione dei sangui a turbarmi
le funzioni intellettive eziandio. Non discernevo più le cose del mondo
esteriore che traverso l'esaltazione morale d'un immenso dolore e le
sensazioni contrafatte dalla febbre delle vene, dallo spasimo dei nervi,
dal fremito morboso di tutte le fibre.
Ma nel mio accesso angoscioso, venne di colpo a presentarsi benefica e
soave l'immagine di lei. Fu come il sollievo d'un fresco alito sopra una
fronte ardente; fu come un balsamo sopra una piaga inasprita. Allora
quasi mi rallegrai di non aver più catena nessuna di doveri e di lavori
da compiere. Potevo esser tutto all'amor mio: i pensieri come gli atti,
la fantasia come il tempo. Tutto, tutto potevo consecrare esclusivamente
a quel fatto dominante, supremo nella mia vita.....
Un crudele problema, però, mi teneva afferrato fra le sue morse
inesorabili: quello di procurarmi il pane. Presentare la mia fronte ad
alcuno per domandare occupazione non osavo più. Mi avrebbero chiesto del
mio passato, e come dir loro perchè avevo dovuto dare addio alla bottega
del signor Defasi? Un mezzo di guadagno qualsiasi io non lo sapeva
scorgere: per quegli umili uffizii faticosi, da cui trae il più spesso
il sostentamento la plebe, e pei quali non occorre ispirar fiducia
nessuna a chi ve li commette, a me mancavano le forze fisiche. Mi pareva
di portare un mondo di pensieri nella testa, e le mie mani non erano
capaci di nessuna opera meccanica. Incominciai per vendere i pochi
oggetti che mi appartenevano, i mobili, il vestiario, poi anco, — e fu
penosissimo sacrifizio — i libri che possedevo, quei soli eccettuatine
che recai meco nella vostra dimora, quando tu Giovanni m'accogliesti.
Fu allora ch'io, fatto uno sforzo violento alla mia peritanza, osai
presentarmi a casa vostra domandando lavoro: avevo udito di te e di
Romualdo come cultori delle lettere e giovani scrittori che si
preparavano ad esprimere della loro generazione la voce e il pensiero
coll'opera della penna: e pensai che avrei potuto associarmi a voi come
copiatore, compilatore, e quando mi avreste di meglio conosciuto, come
pensatore fors'anco. Mi presentai tremante, osando per sola
raccomandazione allegare la mia miseria...»
— E noi, interruppe Giovanni con una specie di rabbia contro sè stesso,
noi ti abbiamo disconosciuto al punto da mandarti a spasso, come
facevamo d'ordinario e facciamo tuttavia ai tanti che vengono a cercare
se la letteratura non sia un ospizio di carità pei fannulloni, e se noi
non siamo per caso i custodi da aprirne loro la porta.
— Voi avevate ragione: soggiunse Maurilio. Che cosa infatti v'era in me
che mi distinguesse da quei buoni da nulla?... Avevo tentato quella
prova quasi per ultima, spintovi dalla disperazione. Era da due giorni
che uno scarso cibo non mi riparava più dai tormenti della fame — dalla
vera fame. Avevo venduto tutto quello che potevo vendere.... Avevo
perfino pensato, in un momento di maggiore angoscia del mio ventricolo,
vendere il rosario, unica eredità dei miei sconosciuti parenti.... ma
non avevo tardato a respingere con orrore questa tentazione che non
doveva riassalirmi mai più. Il padrone della soffitta cui abitavo,
accortosi della condizione in cui ero caduto, vistomi denudato di tutto,
mi fece sapere che fra pochi giorni, finito il mese, avessi a cercarmi
altro quartiere. La malattia di cui quelle privazioni e quegli spasimi
favorivano lo sviluppo, cominciava a turbarmi profondamente tutte le
funzioni vitali e quelle del cervello specialmente. Non avevo più nè
delle cose fisiche, nè delle morali un'esatta percezione. Mi dissi: «la
natura e la Provvidenza ti hanno condannato a morire senza manco
nessuno. Perchè non ti affretteresti tu a porre in atto questa
condanna?» L'idea sempre maniaca, a mio senno, del suicidio, cominciò a
piantarsi e dilatarsi nella mia mente. Il giorno in cui dovrò
abbandonare questo tetto, determinai, e non avrò più riparo nessuno al
mio capo sventurato, cercherò asilo al corpo entro la tomba, nuove
venture all'anima nel mondo degli spiriti!
«Quel giorno venne. La mia ragione vacillava sempre più, mentre la fame
mi rodeva con asprissimo dente le viscere. Provavo di quando in quando
delle soffocazioni onde mi pareva dover rimanere strozzato; tratto
tratto erano folate di sangue che mi si precipitavano alla testa e mi
davano il capogiro. Ero calmo, ma tutto soffriva in me, senza che pure
avessi saputo dire con precisione dove avessi male e qual fosse. Presi
meco quei pochi oggetti di mia spettanza che mi rimanevano ancora: sul
cuore le reliquie trovatemi nelle fascie, sotto il braccio i libri e il
quaderno delle confidenze dell'anima mia. Mi trovai sul selciato della
strada colla voglia di arrestare tutti quelli che passavano, per dir
loro: «Questo è l'ultimo giorno della mia vita, pregate per me.» In
fondo ella confusione penosa delle mie idee c'era pur tuttavia sempre il
pensiero di _lei_!
— Vederla ancora: mi dissi; vederla e poi morire.
Mi avviai alla volta della sua villa. Come vi potessi giungere non so.
Del cammino che ho fatto non mi ricordo più di nulla, eccetto che un
incessante ritmo di versi e di rime mi martellava nella testa, ed io
tratto tratto ero costretto a fermarmi e ripetere ad alta voce quei
versi spropositati, agli alberi, ai sassi, al rigagnolo della strada.
Giunsi finalmente, chi sa dopo quante ore, ch'io l'idea del tempo non
l'avevo più, in vista del muro che cingeva il giardino di lei
stendendosi in una bianca lista nel verde della campagna. A quella
veduta un po' di ragione rientrò in me. Dentro il cranio mi parve sentir
risuonare come un'eco la dolce melodia di quel duetto amoroso che avevo
udito, lei presente, a teatro la sera di quel primo giorno in cui m'era
avvenuto di vederla. Mi trovai dinanzi una porticina del muro, di cui il
battente dell'uscio era socchiuso. Ebbi la temerità di sospingerlo e di
entrare.
Quella porticina metteva in quella parte del giardino che era coltivata
a frutta: alberi carichi di ciliegie parevano tendere alla mano avida
del passeggiero le loro ciocche di frutta rosse come le labbra d'un
bambino; arbusti tenuti a spalliera mostravano tra il verde delle foglie
l'incarnatino di stupende albicocche. In quel momento, più d'ogni altra
cosa potè in me l'impulso fisico, bestiale della fame. Senza che
intravvenisse atto nessuno di ragionamento, determinazione veruna di
volontà, io mi gettai coll'avido furore dell'affamato sopra quelle
frutta e le abbrancai con mano agitata da fremito spasmodico; ma avevo
appena morso in una delle colte albicocche, che un pugno robusto e
violento mi afferrava al bavero del vestito e mi scuoteva con forza,
mentre una voce aspra ed incollerita mi gridava alle orecchie:
— Ah! ti ho colto pur finalmente, miserabile ladroncello. Anche di
giorno tu osi venire a servirti delle mie frutta, eh? Che sì che adesso,
poichè ci sei cascato, l'hai da pagare per tutto quello che mi hai già
portato via, mariuolo di tre cotte.
Il giardiniere che così mi aveva sorpreso, veniva crollandomi senza
misericordia, mentre parlava, ed io, debole com'ero, a quelle scosse ed
a quella nuova accusa, mi sentii tanto smarrito che credetti perdere i
sensi. Mi lasciai cadere a terra, mentre le labbra mormoravano con voce
appena se intelligibile:
— Perdono!... È la prima volta che qui vengo... Non mi perdete...
— Ah! la prima volta: urlava il giardiniere che dalla mia debolezza
pareva vieppiù infierito. Come se non ti avessi visto io stesso a girare
qui intorno a mo' della volpe intorno al pollaio!... Ah la prima volta,
mentre ogni mattina quasi mi trovo il frutteto saccheggiato della più
bella frutta!... Te la darò io la prima volta...
Mi veniva addosso più minaccioso che mai, e chi sa a che maltrattamento
avrei dovuto sottostare, se in quella una voce soavissima non avesse
suonato alle spalle di lui, dicendo con accento autorevole:
— Tonio che cosa fate?
Il giardiniere si fermò e si volse indietro con tutte le mostre del più
profondo rispetto; io che giaceva in terra, mi sollevai sopra un gomito
a guardare. _Ella_ ci stava dinanzi. Era vestita di bianco ed un nastro
cilestrino le svolazzava alla cintura; un altro nastro di ugual colore
s'intrecciava sopra la sua fronte all'oro splendido de' suoi capelli.
L'avresti detta una apparizione come quella del poema di Ossian.
— Che è stato? Ridomandò essa facendo scorrere quel suo sguardo divino
da me che mi sforzavo a rialzarmi da terra e il giardiniere che levatosi
il cappello lo faceva girare fra le sue mani, in mossa di tutta
soggezione.
— Gli è stato: rispondeva quest'ultimo: che da molto tempo, appena sono
mature, le albicocche e le ciliegie, ed anco le fragole, mi spariscono
come se il diavolo venisse a beccarsele; e che finalmente adesso adesso
ho colto qui questo bel capo nell'atto appunto che le rubava.
«Ella mi rivolse uno sguardo in cui si notava non isdegno, non
disprezzo, ma compassione. Io mi sentiva per lo spasimo un sudor freddo
spuntare a goccie sulla fronte; avrei voluto la terra mi si aprisse
sotto i piedi ad ingoiare la mia vergogna.
— Lasciatelo andare pei fatti suoi: disse quella voce così soavemente
armoniosa. Sono persuasa che egli non ci tornerà più.
Il giardiniere non pose tempo in mezzo; mi prese per le spalle, mi fece
girare sui talloni e mi cacciò fuori della porticina in men che non si
dica. Mi ritrovai nella campagna sbalordito, senza punto consiglio.
Quella fatalità che mi perseguitava, ancora una volta mi aveva voluto
fare apparire vergognosamente colpevole, e codesto in presenza di lei!
Mentre io aveva tante cose immaginato e tanti studii intrapreso affine
di spingermi su nel mondo da avvicinarla, ecco che la prima comparsa al
suo cospetto doveva essere quella d'un ladroncello!...
Qui la mia testa si confuse dolorosamente in modo che io da quel punto
non ho più memoria esatta di quello che avvenisse. Come fossi ritornato
a Torino, come mi ritrovassi a quell'ora in cui tu m'hai incontrato
sulle sponde del Po per affogarmivi non ho mai saputo. Tu mi salvasti
allora la vita; ed accogliendomi con voi fraternamente, tu e gli amici
tuoi mi aiutaste l'anima a rientrare in quella calma ed in quella
fermezza onde abbisogna l'uomo a sostener nobilmente le sventure della
vita.
Quando fui risanato dopo la violenta malattia che mi condusse vicino a
morte e nella quale voi tutti e la buona moglie di Vanardi aveste tante
amorose cure per me, l'amor mio non era punto scemato, ma s'era, per
così dire, ritratto nel più intimo penetrale dell'anima, spogliatosi di
ogni illusione di possibil ventura.
— Mai, mai, e poi mai, in questa esistenza il mio spirito arriverà
all'altezza di quello di _lei_; ma tuttavia l'immagine sua starà in me
come quella di un ideale non arrivabile, d'un bene cui giova desiare e
vagheggiare anche senza poter conseguire, come la personificazione della
virtù, del bello e del buono.
E così fu; e così sarà fino alla morte... Molte sofferenze mi ha costato
questo amore; ma è valso a tenermi sollevata l'anima dalle bassezze. Io
ne ho quindi avuto tutto ciò che posso pretenderne. Sento che
albergandolo in me, sì puro affetto, io mi tengo ad una maggiore altezza
morale; sento che non lascierò mai che l'anima in cui esso è entrato e
sta, si macchi d'un'ignominia...
Ti ho detto che mi ha costato dei dolori: uno recente e nuovo, l'ho
avuto ieri sera... Lo confido alla tua amicizia, perchè mi sono proposto
di farti leggere compiutamente dentro di me... E fors'anco non sarà
disutile che tu lo sappia..... Ieri sera ho visto insieme _lei_ e
Francesco Benda: la penetrazione dell'amor mio, mi rivelò al primo
sguardo una fatale verità: Francesco ama ancor egli quella fanciulla; ed
io,..... io che di tanto vo debitore a quel generoso giovane, io che non
ho pure nessuna speranza per me di poterla ottener mai, io ho sentito un
impeto di odio entrarmi nell'animo contro Francesco; ho sentito ch'egli,
ricco, bello, brioso, ammesso in quella sfera sociale ov'essa brilla,
avrebbe potuto esserne corrisposto, e una tremenda invidia, una gelosia
infernale mi assalse..... Ah no, io non potrò possedere mai quella tanta
fortuna; ma che almeno Francesco neppur l'ottenga... No, no, non egli,
non egli!»
L'espressione della faccia di Maurilio divenne così trista e feroce che
Giovanni n'ebbe una viva impressione come di spavento.
— Maurilio, diss'egli, questa gelosia e questo pensiero sono indegni di
te. Francesco, tu sai pure qual anima elevata e quale indole virtuosa
possegga. S'egli fosse amato, ben sarebb'egli meritevole della sua
fortuna....
— Oh vederli insieme! Interruppe con voce fremente il misero giovane: oh
vedere un altro felice di quella felicità che io non posso arrivare!....
E quest'altro è un mio amico!... Ah! mi sento capace d'ogni più fiero
proposito....
— Ma allora tu cadresti da quell'altezza morale a cui ti rallegravi
testè che questo amore ti abbia sollevato....
Queste parole fecero una grandissima impressione in Maurilio. Stette un
istante come sovra sè stesso, poi ad un tratto, gettate le braccia al
collo dell'amico, abbandonò la testa sulla spalla di lui e rompendo in
pianto disse affannosamente:
— Compatiscimi, compatiscimi.... Ma io l'amo tanto!


CAPITOLO XXV.

Andrea aveva preso i denari che la generosità della signora Virginia
aveva lasciato alla povera famiglia, ed era uscito dalla soffitta colla
più ferma intenzione di recarsi a pagare tosto il padron di casa. Era
venuto infatti sino all'uscio chiovato di ferro che metteva nel
quartiere di messer Nariccia e già aveva steso la mano per prendere il
capo della corda che suonava il campanello, quando un malcapitato
pensiero lo arrestò.
— Portare a quello scellerato tutti questi bei scudi d'argento!... E
noi, poveri diavoli, stentiamo dei mesi e dei mesi per vederne il
segno!... Nariccia, tutti lo sanno, ne ha dei monti e dei monti di
monete, e questo di più o di meno non fa più effetto che un bicchier
d'acqua nel Po... Io invece, se mi potessi giovare di questa somma,
quante cose non potrei procurarmi?... A quella povera donna di mia
moglie, a quei miseruzzi di figli miei che vivono un'eterna
quaresima?... Se prima di pagare il padron di casa, andassi a comprar
qualche cosa per la famiglia? Certo questo preme più di tutto... Il
medico ha detto tante volte che Paolina bisogna sostenerla con del buon
brodo e della buona carne e dei buoni cordiali... Farei molto bene a
correre lì da Pelone, a prendere un po' di quel che ci vuole per la mia
donna, e quel brutto Nariccia pagarlo poi al ritorno...
Aveva lasciato andare il cordone del campanello, e rimaneva colà
perplesso. Gli era quanto meno un sentimento di giusto affetto verso i
suoi che si univa ad una ripugnanza istintiva di spogliarsi di quel
danaro, per farlo esitare. Ma poi pensò alle tante raccomandazioni di
Paolina, alle promesse che testè egli le aveva fatte, al piacere ch'ella
avrebbe provato, quando il marito fosse stato di ritorno dicendole:
possiamo star tranquilli fra queste quattro squallide pareti, ed elle
sono casa nostra perchè abbiam pagata la pigione; piacere che avrebbe
prodotto esso stesso l'effetto del miglior cordiale del mondo; e si
decise a non aver più indugi di sorta. Aveva di nuovo afferrata la corda
e stava per dare una tirata, quando sventuratamente suonò alle sue
spalle una ben nota voce, la voce del suo genio malefico, quella di
Marcaccio.
— Eh! che cosa fai tu costì, Andrea? Vuoi andare a far visita a quella
buona gioia di messer Nariccia?
Andrea si volse verso il nuovo venuto, e l'aspetto con cui l'accolse, e
la voce con cui gli parlò non dinotavano che gli facesse molto piacere
la vista del suo compagno.
— E tu, diss'egli, che cosa vieni a far qui?
Si ricordava egli in nube quello che era avvenuto la sera innanzi; aveva
un'ombra di rimorso di avere maltrattato sua moglie, e mentre scusavasi
col dirsi che gli era in causa e per istigazione di codestui, sentiva un
certo rancore contro di esso; quando si trovava in sentore, non poteva
dissimularsi che i consigli e gli esempi di Marcaccio erano stati quelli
che l'avevan tratto a quel brutto punto in cui era precipitato; aveva
inoltre dato alla moglie una nuova promessa di sfuggire questo fatale
amico, e questa promessa — come tutte le altre volte eziandio — l'aveva
data con animo sincero e con voglia ferma di mantenerla; ma ora, di
fronte a quest'uomo che aveva preso una tanta influenza sull'anima di
lui, Andrea si sentiva impacciatissimo a porre in atto la sua
risoluzione e manifestargli che l'avesse a lasciar tranquillo, e provava
nello stesso tempo una specie di irritazione contro Marcaccio che così
presto fosse venuto a porlo nel caso di dovere o mancare alla sua
promessa o fare un atto per cui non si sentiva tutto il coraggio
necessario.
Alla domanda di Andrea, Marcaccio diede in una risata.
— Che cosa vengo a far qui?.... Oh bella! Gli è davvero molto difficile
da indovinarsi..... Vengo a vederti ed a prenderti meco per condurti a
far colazione.
E tese una mano per pigliar l'amico sotto il braccio; ma Andrea si
trasse indietro e si schermì da quell'atto.
— Lasciami stare: disse bruscamente: io non vado a far colazione con te.
— No? Esclamò Marcaccio, mostrando un grandissimo stupore. E perchè?
— Perchè.....
Andrea cominciò con molta risoluzione la sua risposta, ma non ebbe
appena detta la prima parola, che quella risoluzione gli venne meno.
— Perchè non vado, ecco!
— Questa non è una ragione.
— Ho da andare a pagar l'affitto a messer Nariccia.
Marcaccio inarcò le sopracciglia in un crescente stupore.
— Pagar Nariccia!.... Ma tu hai dunque dei denari?
— Sì: rispose Andrea a fior di labbra: una pietosa famiglia ci ha
soccorsi.....
— Benone!.... E tu non sai farne altro buon uso che gettarli in gola a
quel mostro succhiasangue del povero, di Nariccia?....
— Bisogna bene...
— Bisogna un corno!... Quell'avaraccio scellerato è ricco da non saper
più nemmanco lui quanto possiede. È tanto ricco di denari, quanto di
malizia e di scelleraggine, che è tutto dire... E tu appena ci hai
qualche coserella da poter passare un paio di giorni allegramente, vai a
sciuparla in questo modo per rimanere tu a becco asciutto, e tirare il
diavolo per la coda come prima?
— Se non pago e' mi caccia sulla strada tutta la famiglia.
— Eh! baie. Non avrà tanto fegato da farne una sì grossa. Gli è già
odiato come il brutto male in tutta la città e peggio in questo
quartiere; se facesse una cosa simile, le pietre stesse del selciato si
leverebbero di per sè per lapidarlo.
Andrea guardò con sospetto più spiccato di prima il suo interlocutore.
— Insomma, diss'egli, tu vuoi condurmi all'osteria per mangiarmi tu
questi denari?
Marcaccio protestò colla faccia più indignata che seppe fare.
— Io mangiarti i denari?!..... Se fosse un altro che m'avesse detto di
simili parole, che sì che gli farei assaggiare un po' di questi
argomenti.
E mostrava il suo pugno grosso, nodoso, duro come una mazza di ferro.
— Ma te ti perdono; perchè ti voglio bene, e perchè da un po' di tempo
hai debole il cervello...
— Io ho debole il cervello?
— Sicuro! Coi tuoi scrupoli, coi tuoi timori, colle tue peritanze, tu
m'hai l'aria non più d'un uomo, ma di un bambino o di una femminetta.
Veniamo a noi, e dà un po' retta. Chi è che da settimane parecchie ti
conduce all'osteria e ti fa le spese?
— Tu, non lo nego.
— Manco male!
— Ma prima, quando io aveva ancora dei denari in riserva, quando ne
guadagnavo tuttavia col mio lavoro, eri tu che vivevi alle mie spalle, e
che colle carte in mano trovavi sempre modo di farmi pulite le
scarselle.
— Eh! lasciamo stare questo passato, che è così lontano da non doversene
più ricordare.... Vedi un po'! Io non sapeva mica che tu oggi avessi
avuto de' soccorsi: avevo ogni ragione di crederti spiantato più di
ieri; ebbene, — guarda se non è amicizia codesta! — sono venuto per
toglierti al crepacuore delle tue miserie, dei guai e delle lamentazioni
di famiglia e farti passare la giornata allegramente come ieri...
Dunque, bando a tutte queste seccaggini, e vieni.
Andrea si tirò di nuovo indietro, e disse:
— No, non vado. Ieri ho fatto male, e non voglio più far male oggi, nè
domani, nè mai....
— Oh oh! Esclamò Marcaccio con ammirazione schernitiva: scommetto che
indovino donde ti vengono queste belle parlate. Qui c'è lo zampino della
moglie.
Il marito di Paolina, che sentiva mancarsi la risoluzione, proruppe con
impazienza sdegnosa:
— Che moglie o non moglie? Son io che lo dico, son io che lo voglio...,
e basta.
— Vedi se non è vero ciò ch'io ti ho detto testè!
— Che cosa?
— Che tu hai il cervello debole.
— Oh giuraddio!....
— Non istrepitare; ma bada un po'. Tu ripeti come un papagallo tutto ciò
che la moglie ti ha soffiato nell'orecchio...
— Non è vero.
— È vero! Figurati se io non me ne accorgo di queste cose!...
— Ti dico...
— Tu dici delle buggere. Ti dico io che chi si lascia mettere il piede
sul collo dalle donne è bello e spacciato, e può vestirsi le sottane
egli stesso, che d'uom non ha più nulla... E tu sei presto a quel punto.
— Io?...
— Sì, tu. È inutile farmi quei brutti occhiacci. È così, e te lo
sostengo. Tua moglie ti ha messo il piè sul collo...
— No...
— Sì. Gli è dessa che ti gonfia con tutte quelle fatuità che fanno di te
un pulcin bagnato, il quale avrebbe la fortuna ad arrivo di mano e non
sa pigliarla. Oh! non ha avuto ieri sera l'audacia di proibirmi, a me,
al migliore amico che tu abbia, di venire in casa tua? E gli è anche per
ciò che stamattina mi sono affrettato di venirci: volevo un po' vedere
se tu avevi lo stomaco di mettermi alla porta. In poche parole, tua
moglie ti mena pel naso, e non osi più venire all'osteria con me, perchè
essa te lo ha proibito.
— Paolina non mi ha proibito niente... Non sono tale da lasciarmi
comandare io... Non vado perchè non voglio andarci, perchè ho capito che
non ci dovevo andare e nient'altro.
— Senti, Andrea: io ti devo parlare a lungo, di cose importanti e che
non si possono discorrere nè a casa tua, nè per la strada, nè qui sul
pianerottolo della scala. Gli è per questo che ti propongo di
accompagnarmi all'osteria. Se ci hai degli scrupoli, non mangerai, non
beverai, non farai altro che ascoltarmi, ed io ti parlerò facendo
colazione. Non si tratta di giuggiole: si tratta di farci ricchi tutti e
due...
— Ah! le tue parole le conosco...
— No, che non le conosci... È tutt'altra cosa da quella che
t'immagini... Tu non avresti da correr rischio nessuno... te
l'assicuro... Infine poi non ti domando che di ascoltarmi... Hai forse
bisogno di chiedere anche per ciò licenza alla moglie?
— Io non ho bisogno di chieder licenza da nessuno e per nulla: rispose
Andrea imbizzarrito.
— Dunque animo, e fa a mio modo.
Questa volta il tristo potè prendere Andrea pel braccio, e mezzo
riluttante lo trasse con sè giù delle scale e fuor del portone.
Quando furono nella strada, Marcaccio, che aveva già il suo disegno
bello e fissato in mente, adocchiò una bottega di liquorista che era lì
presso.
— Vieni costì: diss'egli al compagno. Stamattina fa un freddo così
indemoniato che non ci posso regger proprio senza almanco un bicchierino
di acquarzente.
E frattanto aveva trascinato Andrea fino sulla porta del fondaco di
liquori.
— Se volesti accettarne uno anche tu, soggiunse Marcaccio, io te l'offro
di buon cuore.
Aprì la porta e l'odore delle varie sorte di liquori che si spacciavan
là dentro venne a percuotere l'olfatto del povero Andrea.
— No, no, grazie; ebbe questi pur tuttavia la forza di rispondere,
mentre in realtà mandava giù la saliva.
— Come vuoi; ma almeno vieni dentro, chè vuoi stare a gelare lì
fuori?.... Ti scalderai una mano al braciere.
Andrea entrò.
— Un bicchierino di _cognac_: domandò Marcaccio, avanzandosi verso il
banco, mentre il suo compagno si teneva con aria quasi peritosa presso
la porta.
— Uno solo? disse il garzone che aveva visto gli entrati esser due.
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