La plebe, parte II - 21

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tremendamente nel nostro pensiero e non si diparte più e nulla val più a
cancellarla, e per quanto sia onesta la vostra vita, vi fa provare la
puntura sciagurata del rimorso.»
Si passò la mano sulla fronte e mandò un profondo sospiro.
— Questo, io lo so per prova, continuò egli; siffatto tormento,
negl'intimi penetrali della coscienza, fu ed è il mio.... Quando son
solo, ed anco talvolta in mezzo al rumor gaio delle feste, fra i più
gravi discorsi delle cose più importanti, nelle domestiche riunioni, io
vedo drizzarmisi innanzi il fantasma sanguinante di quel povero Maurilio
Valpetrosa; lo rivedo guardarmi cogli occhi sbarrati come mi guardò in
quel terribil momento in cui lo sostenni colla mia spada che gli
attraversava il corpo; lo rivedo agitare convulsamente le labbra
macchiate di schiuma sanguigna, come per mandare un grido, una parola, e
non poterlo, e cadere lungo e disteso come cadavere. Egli aveva una
madre che lo attendeva, una madre cui era unico amore e conforto; aveva
una sposa..... e quale!..... a me così strettamente per sangue
congiunta!... che stava per renderlo padre... E sposa e madre dovettero
vederselo recare morente...
Si tacque un istante e si serrò con ambedue le mani la faccia, cresciuta
l'angoscia dall'orrido pensiero che gli sopravvenne.
— E se Dio per punirmi riserbasse a me quella vista, e mio figlio, oggi,
fra pochi minuti, mi fosse portato innanzi a quel modo, esanime, per
morirmi nelle braccia?
Raccapricciò, come scosso da un brivido di febbre violenta.
— Punirmi! E perchè vorrebbe Iddio punirmi? Non mi dettarono quella mia
condotta le più sacre leggi dell'onore? Non me la dettò la stessa
autorità paterna? E se pur sempre vi ha colpa nello spargere il sangue
umano, le circostanze che a ciò mi spinsero non devono esse avermelo
fatto perdonare? Padre Bonaventura ben me ne affermò colla sua autorità
di sacerdote; ma s'io me ne confessassi a don Venanzio, direbb'egli
eziandio il medesimo? E fra questi due, quale il più degno ed autorevole
intermediario fra il peccatore e Dio?
Sollevò lo sguardo al Cristo d'avorio appeso alla croce d'ebano.
— Sono io stato colpevole, o Dio? E se sì, non mi hai tu ancora
perdonato?.... Ad ogni modo, deh! non volermi colpire nei figliuoli
miei!....
I suoi occhi scorsero sul ritratto del padre che stava presso la croce.
Era una imponente e leggiadra figura d'uomo anche quella, ma in cui
l'orgoglio aveva qualche cosa di aggressivo, e la fierezza aveva una
tinta di crudele. A quelle sembianze dipinte rassomigliavano di più le
fattezze del marchesino nipote che non quelle del marchese, figliuolo al
personaggio ritratto. Il marchese si levò da sedere e ponendo il suo
volto presso a quello dipinto di suo padre, i cui occhi, pur dalla tela
luccichiavano d'una indomabile superbia, soggiunse:
— E voi, padre mio, chè non trovate un modo da parlare alla coscienza di
vostro figlio? Da lungo tempo voi siete passato in quella regione, dove
si deve scorgere il vero; colà come ravvisate voi l'opera mia?....
l'opera nostra, poichè voi mi avete chiamato, mi avete spinto a
compirla. Conservate voi ancora gli stessi odii, le stesse opinioni? Se
adesso una simile avventura si presentasse alla vostra famiglia, e voi
poteste consigliarmi, da quel mondo ove siete, mi dareste lo stesso
comando?... E l'anima della mia vittima, l'avete voi incontrata in quel
regno delle ombre?.... E se sì, qual contegno potè essere il vostro?
Pose i due gomiti sulla mensola di marmo del camino e nascose il volto
tra le mani, assorbito in un inesprimibile tumulto di pensieri e di
sentimenti. Venne a riscoterlo una mano che bruscamente, vibratamente,
quasi sarebbesi detto con premura affannosa, batteva all'uscio del
gabinetto.
Il marchese fece un soprassalto, e le sue guancie impallidirono.
— Ah! pensò egli: qui è la trista novella che batte alla porta.
Fermò il viso, si volse verso l'uscio, prendendo la mossa dignitosa d'un
uomo di coraggio superiore che è preparato a tutto, e disse con voce che
non tremava punto punto:
— Avanti.
L'uscio si aprì di scatto ed entrò Virginia colla lettera di Maria in
mano.
La bella giovane era dilettissima a suo zio. Rimasta orfana, egli
l'aveva amata d'un affetto più che di padre; aveva trovato per lei nella
sua natura severa, riserbata e un po' asciutta da gentiluomo delle
tenerezze di madre amorosa, onde Virginia aveva preso nei rapporti con
esso una più espansiva e domestica affettuosità ch'ella non avesse con
altri, e sopratutto colla superba sicumèra della zia, una famigliarità
gentile di tratti cui nessun altro osava ed avrebbe osato mai avere col
signor marchese.
Questi nel vedersi entrare in quel momento la nipote nello studiolo,
rasserenò d'un lieve sorriso la faccia, e sentì di botto
tranquillarglisi l'anima. Credeva impossibile che una sventura potesse
prendere per messaggiera quella bella ed adorabile persona.
— Ah sei tu, Virginia, figliuola mia? Le disse con molto affetto
tendendole la mano. Sii la benvenuta nel recarmi il tuo saluto
mattinale.
Per la mano che Virginia pose in quella da lui tesa, lo zio trasse a sè
la fanciulla e le diede un tenero bacio sulla bella fronte. Ma vide
allora il turbamento delle sembianze della donzella, e tutto il suo
primitivo timore lo riassalì.
— Tu hai qualche cosa? Diss'egli nascondendo pur tuttavia lo spasimo
dell'ansietà ond'era travaglialo. Parla senza ambagi, qualunque
avvenimento esso sia che tu abbia ad apprendermi.
— Sì zio: rispose la fanciulla: sono venuta da Lei a bella posta perchè
sapesse tutto e provvedesse a tutto.
Il marchese sedette sul suo seggiolone, mantenendo sempre ferma la
dignità del suo contegno, e fe' cenno alla nipote sedesse anch'ella in
prospetto; poi appoggiato il mento alla sua destra, sostenendo colla
mano sinistra il gomito, guardando verso la fiamma stette, impassibile
in apparenza, ad ascoltare.
Virginia trasse una lunga aspirazione come per prender fiato, e in vero
il cuor palpitante le agitava il respiro; poi narrò per disteso tutto
ciò che ella sapeva avvenuto fra il cugino Ettore e l'avvocato Benda,
dall'oltraggio della sera innanzi all'arresto di quest'ultimo
certificato dalla lettera di Maria.
Il calore posto da Virginia nella sua narrazione, e quello soprattutto
della perorazione finale con cui supplicava il marchese a voler far
restituire alla famiglia il giovane arrestato, erano tali da essere
notati dallo zio, e diffatti ne fu esso colpito, ma non ebbe campo la
sua mente a soffermarsi su di ciò per la quantità e la natura de' nuovi
pensieri che le cose udite fecero nascere in lui.
Di quante maniere avess'egli saputo immaginare in cui avrebbe potuto
aver termine la contesa di suo figlio col giovane borghese, questa che
gli si narrava, non era mai nè anco apparsa al suo pensiero; e se non
fosse stato della lettera della sorella di Francesco, certo non vi
avrebbe creduto così di piano. Non dubitò neppure che in questo fatto
avesse alcuna colpa il figliuol suo, poichè, conoscendo pur troppo tutti
i difetti di lui, sapeva pur tuttavia che non mancava in esso il valore;
ma ciò nullameno provò una grandissima dispiacenza di codesto
avvenimento. Senza manco parlare suonò vivamente un campanello, di cui
pendeva il cordone presso il camino.
— Mio figlio è rientrato? Domandò al domestico che si affacciò per
ricevere gli ordini.
— Signor sì: rispose il servo. È tornato adesso adesso.
— Ditegli che venga qui, da me, tosto.
Il domestico si partì dopo un inchino.
— E tu vanne, soggiunse il marchese alla nipote, voglio parlare con
Ettore da solo a solo.
Virginia si alzò e camminò verso l'uscio; ma quando fu sulla soglia,
quando già aveva aperto il battente, si fermò e rivoltasi verso lo zio,
disse con accento di tutta grazia e di supplicazione amorevole:
— Ella renderà quel giovane alla sua povera famiglia, non è vero?
Il marchese fece un segno di condiscendenza col capo e parve in
sull'atto di voler muovere qualche parola; ma in quella s'affacciò
all'uscio medesimo in cui stava Virginia la figura orgogliosa, in questo
momento un po' turbatella, del giovane Ettore. La fanciulla sgusciò via
lesta; e padre e figlio rimasero soli.


CAPITOLO XVIII.

Ettore aveva udite le ultime parole dette da Virginia al marchese;
mentre la fanciulla gli scivolò daccanto nel partirsi, egli la saettò
d'uno sguardo che era tutt'insieme un'indagine osservatrice, una
interrogazione ed uno sfogo di sdegno. Tornato a casa dopo il suo
colloquio col Generale dei carabinieri, il marchesino aveva appreso dal
suo cameriere dove la cugina si fosse recata nella sua gita mattiniera,
chi avesse colà incontrato e i discorsi che erano passati fra Virginia e
Maria, secondo che lo staffiere aveva esattamente riferito; epperò
udendo le parole dalla cugina pronunciate non ebbe il menomo dubbio che
le riguardassero il suo avversario e rivale.
In verità non era senza qualche apprensione che il giovane, ubbedendo
sollecito alla chiamata paterna, presentavasi nel gabinetto del
marchese. A dispetto della sua leggerezza orgogliosa e della irriverente
petulanza del suo carattere, egli provava alcun impaccio a comparire
innanzi alla conosciuta severità di suo padre, dopo tal fatto in cui
sentiva istintivamente di non aver egli la più bella parte.
Stette egli un poco sulla soglia, e padre e figlio si guardarono un
istante in silenzio. Gli occhi di Ettore si chinarono innanzi a quelli
del marchese. In quello sguardo erasi compreso con meravigliosa sintesi
tutto ciò che si sarebbe detto a parole, tutto ciò che era negli animi
loro: di qua un'amara scontentezza, di là una pervicacia inflessibile,
ravvolta nelle forme d'una subordinazione, da cui era escluso l'affetto.
Fu il figliuolo che ruppe primo il silenzio.
— Di che giovane parlò ella Virginia? Posso io domandarle, padre mio,
chi si tratta di restituire alla propria famiglia?
Il marchese accennò al figlio la seggiola che aveva innanzi a sè, e da
cui s'era alzata poc'anzi la nipote.
— Venite innanzi, Ettore, diss'egli, e sedete. Vi permetto giustamente
la domanda che mi fate, perchè ha riguardo appunto a ciò di cui debbo
parlarvi, e per cui vi ho fatto venire.
Ettore si avanzò lentamente, pose una mano sulla spalliera della
seggiola che gli aveva additata suo padre, e in quell'attitudine disse
con disinvoltura, prima di sedersi:
— Ah! L'ho dunque indovinata. Ella vuol parlarmi dello stranissimo
incidente che mi capita. Sta bene; al momento che il suo cameriere venne
a recarmi l'imbasciata, io stavo appunto per mandare da Lei a chiedere
se mi avesse voluto favorire dieci minuti di colloquio.
Chi non l'avesse saputo, non avrebbe indovinato mai che padre e figlio
erano que' due, al vederne i contegni, all'udirne l'accento delle
parole. Il giovane sedette, prese l'atteggiamento d'un uomo sicuro
d'ogni sua cosa, e continuò a dire:
— Mi permette Ella che parli io per primo?
Il marchese fece un cenno di consentimento, e disse asciuttamente:
— Parlate.
Ettore in poche parole espose a modo suo i fatti che noi conosciamo;
poscia soggiunse:
— Sono corso dal generale Barranchi (e ne torno adess'adesso) per
ottenerne che il signor Benda fosse posto sollecitamente in libertà.
Barranchi da principio si mostrò assai disposto a contentarmi, e già era
sul punto di dar gli ordini opportuni, quando ravvisatosi, mi disse che
v'era una circostanza, cui non aveva di subito ricordata, e la quale
impediva si ottemperasse alla mia richiesta. Questa stessa mattina, per
tempo, diceva egli, il commissario Tofi erasi recato da lui a prevenirlo
essere necessario procedere all'arresto di quel cotale e di parecchi
altri per cagione di certe mene politiche ond'eran rei; che quindi
essendo il Benda sotto la grave accusa d'un delitto di Stato, egli non
poteva prendersi l'arbitrio di mandarnelo sciolto così senz'altro. Io
insistetti con tutto il calore di cui sono capace. Mi restituisse
almanco per ventiquattr'ore il mio avversario, e poi ne facesse quel che
più gli talentava: dovermi assolutamente siffatta riparazione pel torto
che mi aveva fatto, chè da gentiluomo e da buon amico, quale egli ha
sempre voluto essere con noi, non avrebbe dovuto fare intravvenire la
sua polizia fin dopo che fosse stata _vidée_ fra di noi la contesa
d'onore ed avrebbe dovuto ignorare assolutamente che avesse luogo il
nostro duello. Gli ricordai il tempo della sua gioventù: che cosa non
avrebbe fatto e detto quando era luogotenente nelle Guardie d'onore, se
alcuno fosse venuto a levargliene così dinanzi l'uomo con cui doveva
battersi? Che non direbbe e non farebbe anche adesso, se mai potesse
trovarsi in una simile occasione? Se un disappunto uguale fosse accaduto
al suo nipote San Luca, non si adoprerebbe ancor egli a far sì che in
alcun modo non patisse pure un appannamento la lucentezza dell'onor suo?
Insomma, perorai tanto che il conte mezzo scosso venne in questo
temperamento: di mandar subito a chiamare il Commissario e di consultare
con esso lui intorno a codesto; se appena appena, senza pericolo della
sicurezza pubblica, dello Stato, e che so io, si potesse accondiscendere
al mio desiderio, allora io non avrei preso commiato senza udire
spiccato l'ordine di rilascio del Benda. Il Commissario venne
sollecito[6]; e venne portando seco un fascio di libri e di carte, cui
disse testè sequestrati nelle perquisizioni fatte in casa di Benda e di
non so bene quali amici suoi. Da codeste carte e da codesti libri,
affermò apparire più chiara che mai e più grave che non si credesse la
colpa di quei signori; non potersi pensare assolutamente a nulla di
simile a ciò che accennava il generale; si compiacesse quest'ultimo di
gettare soltanto gli occhi sui titoli dei volumi e su alcune pagine d'un
manoscritto che gli additava, e vedrebbe tosto di quale importanza
fossero quegli arresti ch'egli si vantava d'aver consigliati. Il
Generale guardò quei libri, fece scorrere gli occhi su quelle pagine, e
vidi la sua fronte corrugarsi e i suoi baffi fremere d'indignazione.
[6] Abbiam visto che questa era stata causa, onde Tofi
interrompesse l'interrogatorio di Maurilio.
«— Corpo d'una bomba! Esclamò colla sua voce tonante. Se mai vi fu gente
degna d'esser mandata a Fenestrelle, si è quest'essa. Io mi felicito
assai d'aver avuta la buona idea di dar l'ordine che fossero arrestati.
Abbia pazienza, marchese, soggiunse volgendosi a me, io vorrei di gran
cuore poterla contentare; ma i diritti di S. M. innanzi ad ogni cosa;
noi teniamo alcuni birbanti rei di crimenlese, e non possiamo lasciarli
andar più neppure per un momento. Trasmetterò tosto tosto questi
documenti e i rapporti che li accompagnano al Governatore, e chiederò
senza ritardo un'udienza a S. M. per renderla informata di tutto.
Tentai tuttavia insistere, ma per quanto dicessi tutto fu nulla. Allora
tornai a casa avendo in animo di pregar Lei, la cui parola è più
autorevole, di voler interporsi affine di ottenermi soddisfatto quello
che mi pare legittimo mio desiderio.»
Il marchese aveva ascoltato suo figlio, sempre nel medesimo
atteggiamento, silenzioso ed immobile, ed alle sembianze mal si sarebbe
potuto scorgere quale impressione fosse la sua; quando Ettore ebbe
finito, il padre si tacque ancora per un po', quasi riflettendo seco
stesso sulle cose udite, poscia, levando lentamente il viso e fissando
sul volto del giovane uno sguardo severo, imponente e dignitosamente
corrucciato, egli disse:
— Ettore, molte cose vostre mi dispiacquero e mi tornarono indegne di
voi e del nome che avete l'onore di portare; quest'ultima più di tutte
mi spiace e la trovo indegnissima del vostro titolo, del vostro casato.
Il figliuolo fece un trasalto sulla sua seggiola, le guance gli
arrossarono, si morse le labbra, e facendo forza per contenersi,
proruppe tuttavia con voce resa balzellante dall'emozione:
— Le sue parole sono severe, padre mio, e mi pare che posso dire troppo
severe. Ho il diritto di domandarle come mi può colpire di così tristo
giudizio, ch'io ho la coscienza di non aver meritato.
Il padre lo guardò più severo di prima. Innanzi a quella grave
fisionomia non ci sarebbe stato individualità, per quanto audace, che
non si fosse sentita alcuna soggezione, come d'inferiore appetto ad un
dappiù.
— La vostra coscienza v'inganna: diss'egli con voce lenta, contenuta, ma
piena d'autorità e di forza. Pensate bene ai fatti vostri; voi, ieri
sera, avete mancato inescusabilmente a quel debito d'urbanità, a quelle
nobili maniere che per noi — per noi: ripetè battendo sulla parola —
sono una legge nelle attinenze verso chicchessia...
Ettore interruppe vivamente, come uomo in cui la passione trabocca:
— Ecchè? Ella vuol darmi sì brutto carico per un po' di lezione data
alla tracotanza d'un borghesuccio...
Il marchese guardò suo figlio aggrottando la fronte ed alzò una mano ad
imporgli silenzio.
— Voi vi permettete d'interrompermi: diss'egli con fiera freddezza.
Il giovane si tacque.
— La tracotanza, continuava il padre, non fu per nulla da parte altrui.
E voi dovreste sapere che ad un Baldissero si spetta dar lezioni di
gentilezza come di generosità, di tratti squisiti come di valore; che
abbandonarsi a certi atti plebei gli è un discendere noi stessi al grado
della bassa gentuccia che li usa; che codesti atti in uomo della nostra
sfera imprimono una macchia più a chi li adopera che a colui contro il
quale sono adoperati. Ciò voi dimenticaste, e questa dimenticanza merita
la condanna che vi ho espresso.
Ettore masticava i suoi baffetti in una contrarietà profonda e vivace,
cui si sforzava a contenere perchè non prorompesse in isdegno. Suo padre
essendosi taciuto, credette di poter a sua volta parlare senza incorrere
in altra censura.
— Ella non conosce le nuove temerità di questa nuova borghesia che vien
su colla ricchezza, aiutata colla stupidità dell'uguaglianza civile
accordatale dall'improvvido codice, parodia delle leggi francesi. Ella
giudica le cose colla norma del tempo della sua giovinezza, dopo
avvenuta la ristaurazione, quando leggi e costumi concedevano
efficacemente alla nobiltà quel posto che le compete. Ma ora non è più
così. Le leggi, per deplorevole errore della Monarchia, ci vengono
spogliando di quei diritti che i nostri nemici chiamano privilegi e che
sono necessarii a costituire una vera ed efficace aristocrazia, senza la
quale, Ella sa meglio di me non potervi essere mai un sodo e conveniente
organamento della società. I costumi seguitano pur troppo lo esempio
delle leggi, e gl'interessi contrarii delle classi inferiori, contenuti
un tempo, ora trovando in quelle infauste leggi un appoggio, spingono al
di là e fanno a soverchiarci se noi, tutti d'accordo e con ogni mezzo,
non siamo pronti e risoluti al riparo. Que' riguardi che si avevano un
tempo e che si devono avere alla nobiltà, ora diminuiscono nel popolo
con sempre crescente proporzione. È molto scemato quel senso di rispetto
che in presenza di un nostro pari faceva chinare le teste del volgo. I
borghesi, col mezzo degli studi dell'Università, si vedono aperta la
carriera delle alte cariche, quasi come noi: con troppo scandaloso
eccesso, noi vediamo della gente da nulla oggidì, la cui plebea natura
mal riesce larvata da un titolo recente, nei primi posti della
magistratura e dell'amministrazione. Non c'è che l'esercito e la
diplomazia che rimangano immuni ancora da questa vergogna. Mercè le
industrie, delle quali il Governo ha la stoltezza di proteggere e
favorire lo sviluppo, i plebei arrivano alla ricchezza, cui le
disposizioni legislative non assicurano più bastantemente in possesso
all'aristocrazia: e da ciò pigliano audaci pretese di farla alla pari,
di stare a tu per tu con noi. Guai alla nobiltà se essa risolutamente,
violentemente non rigetta col suo contegno in quel basso loco che le
spetta la classe inferiore e impertinente dei borghesi! Bisogna
camminarle addosso e schiacciarla, prima che ci soprammonti. Ecco le mie
idee! Questo signor Benda, ricco figliuolo d'un fabbricante, conta fra'
primi di quelli che si chiamano liberali, val quanto dire dei più
impertinenti e de' maggiori nostri nemici. Percotendolo col mio guanto
sulla guancia io ho schiaffeggiato quella sciagurataccia di moderna
invenzione rivoluzionaria che chiamasi democrazia.
— Non si tratta di schiaffeggiarla questa democrazia: rispose colla
medesima severità il marchese: si tratta di vincerla e di renderla
impotente; epperò occorre che l'aristocrazia in ciascuno dei suoi membri
— se fosse possibile — nei principali almanco, sia superiore in tutto e
per tutto, passi innanzi per ogni modo, virtù, talenti, operosità,
benemerenza di qualunque sorta, ai campioni delle nuove popolaresche
pretese. Iddio ci ha fatta la grazia di metterci nelle prime file
dell'umanità, sui gradini superiori della scala sociale; noi dobbiamo
coi nostri atti renderci e mostrarci degni di tanto favore. Noi dobbiamo
per nostro onore e per nostro dovere mantenerci in quell'alto grado in
cui ci volle la Provvidenza; ma per ciò equivalenti ed acconci bisogna
pur che ne sieno i mezzi. Abbiamo nel passato la regola della nostra
condotta nel presente e nell'avvenire. Come si formò ella l'aristocrazia
moderna nello scombuiamento prodotto dal rovinìo dell'antica società?
Emersero fra le predestinate razze invaditrici quelli che avevano più
forza e più valore individuale, la cui personalità meglio spiccata e
robusta aveva intorno a sè maggior potenza d'influsso e quindi autorità
meno contestata d'impero. Allora erano tempi e circostanze, in cui
dominava quasi sola e doveva dominare la forza: gli è con questa che
s'imposero ai popoli per diritto di conquista le aristocrazie d'Europa.
La potenza del pensiero, allora menoma, era tutta raccolta e
rappresentata nel clero cristiano; e l'aristocrazia da poco convertita
ebbe la saviezza di fare bentosto alleanza col clero medesimo e
prevalersi per ciò anche dell'autorità morale e intellettiva. Nel nostro
tempo le condizioni sono mutate. La forza materiale del braccio e del
valore non tiene più il primo posto nella schiera degli elementi di
dominio; vi sono successe due altre forze: quella della ricchezza e
quella dell'ingegno e della dottrina, la quale, nemmanco, non è più
esclusiva dote del clero. Bisogna che l'aristocrazia, per conservare il
suo primato s'impadronisca dell'una e dell'altra e ne usi a beneficio
dell'intiera associazione. Quanto alla ricchezza, lamento al pari di voi
quelle disposizioni legislative che conducendo al frazionamento
obbligatorio delle grandi proprietà ed allo svincolo di esse, ne tolgono
la sicura, continuata e irrevocabile possessione nelle nostre famiglie;
ma Carlo Alberto si è arrestato a mezzo dell'opera e non gli è bastato
il cuore di segnare il decadimento compiuto della nobiltà. Conservando i
maggioraschi, egli ci ha lasciato un mezzo di riparare in parte al danno
delle innovazioni introdotte nel diritto di successione; al resto
occorre che ripari la nostra prudente attività, la quale, prendendo
esempio dalla savia nobiltà inglese, domandi ai perfezionamenti
dell'agricoltura, ai miglioramenti delle proprietà un aumento di
rendite.
Ettore non potè tanto contenersi che una smorfia ironicamente
significativa non manifestasse quanto poco fosse a suo genio codesto
mezzo di rivalsa.
Il marchese padre si accorse del sentimento nato nel giovane, e
interrompendo lo svolgersi del suo primo discorso, gli disse con
vivacità:
— Avesse l'aristocrazia del nostro paese, al pari di quella
dell'Inghilterra, prescelto codesta via e codesti mezzi allo accorrere
sui gradini del trono, alle pericolose carezze della monarchia, per
abbassarsi agli uffici di cortigiani! Oggi noi, non per cagione del
regio favore, ma per necessità delle cose, per libero consentimento
universale, saremmo a capo senza contrasto, senza minaccie, senza odii,
di tutta la popolazione, come rappresentanti naturali e necessari d'ogni
vitalità del paese.
Il figliuolo chinò il capo come chi non vuole discutere, ma che non è
persuaso.
Ripigliando il suo dir primitivo, il marchese continuava:
— Quanto all'intelligenza, al pensiero, alla dottrina, pur troppo molti
dei nostri (e, duolmi dirlo, voi stesso Ettore, siete fra quelli) molti
pur troppo si lasciano passare innanzi i borghesi; e non è
coll'arroganza, non è colla ragione dei duelli che si possa conservar
più una supremazia di cui non siasi capaci. La scienza tiene e terrà
sempre più il campo, e chi la possederà sarà il padrone della terra.
— Perdoni, padre mio, disse Ettore con accento in cui non mancava il
rispetto, ma apparivano il fastidio di siffatta discussione e il suo
pieno dissentire dalle idee manifestate dal padre. Noi ci siamo
ingolfati in troppa metafisica di considerazioni. Confesso che in
codesto io non ci valgo niente. Ho sempre creduto che appunto la
Provvidenza mi avesse fatto nascere in questo alto grado per esentarmi
dai bassi lavori e dagli studi cui è condannata la borghesia. Pensare a
migliorare l'agricoltura, a far progredire la scienza, è opera che si
confà alle classi inferiori. Me Dio ha posto, senza tanti discorsi, al
di sopra degli altri; e quel grado, pur ch'io sappia mantenermelo colla
spada, come con essa lo acquistarono gli antichissimi miei maggiori!
Ecco la filosofia civile che mi suggerisce il mio buon senso, e non ne
cerco altra. Ma scendendo da cotanta generalità al mio caso particolare,
le dico appunto che la suscettività impostami dal mio grado esigeva che
ad una parola impertinente di quel da nulla io rispondessi come ho
risposto. Capisco che con questa maledetta invasione di pretese
uguagliatrici, io del mio atto, quantunque contro uno così da meno di
me, debbo esser pronto a dargliene ragione colle armi: e non ho esitato
menomamente ad accordargli codest'onore, e credo far tutto ciò che mi
detta il più scrupoloso sentimento di delicatezza adoperandomi
perch'egli sia sollecitamente posto in condizione da ricevere da me
quella soddisfazione di che mi ha mandato a richiedere.
— Ed oramai codesto non basta: disse col suo più autorevol tono di voce
il marchese.
— Come! Esclamò Ettore con un sussulto.
— Non basta: continuò collo stesso accento il padre. Voi aveste torto
nella contesa che faceste nascere con quel giovane.....
— Sa Ella al giusto come si passarono le cose per potermi dar torto?
— Lo so..... e da Virginia medesima.
— Ah Virginia.....
Ettore voleva soggiungere della parzialità che sospettava in sua cugina
a favore del giovane borghese, ma si tacque, contentandosi di atteggiare
le labbra superbe ad un sorriso ironico.
— Questo contrattempo della Polizia concorre sventuratamente ad
accrescere il vostro torto: seguitava il padre. Per ripararlo, io
otterrò la sollecita liberazione di quel giovane, e voi andrete primo a
tendergli la mano.
Ettore sorse in piedi come spinto da una molla.
— Oh codesto, prorupp'egli, io non farò mai. Gli manderò a dire che mi
rimetto a sua disposizione per un altro convegno; ed ecco tutto. Non
posso far di più che accordargli l'onore di battermi.
— Batterti! Esclamò una donna a faccia orgogliosa, che era entrata in
quel punto e s'avanzava con mossa superba. Ti vuoi battere con quel
borghese di ieri sera. L'ho capita. _Mon Dieu!_ è egli possibile che
t'entrino in testa siffatte idee? Un Baldissero si batte con un suo
eguale, ma non con un plebeo.
Era la marchesa, la donna la più infatuata della sua nobiltà che potesse
esser mai; era un rinforzo che arrivava al figliuolo per la sua
resistenza alle generose idee del padre.
Se il marchese nella sua gioventù aveva nel matrimonio vagheggiato il
bene d'una compagna amorevole, degna, capace e desiosa d'essere una
confidente, una confortatrice, un consiglio: che del marito facesse suoi
travagli e piaceri, propositi e speranze; la signora marchesa eragli
stata compiutamente una delusione. Era essa la vanità personificata.
Nulla arrivava a toccarle l'anima che l'omaggio reso ai quarti del suo
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