La plebe, parte II - 28

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portasse lo splendor del sole, che miravo con sì gaio e intento sguardo
poc'anzi.
«Allora essa trovavasi al primo sbocciare della sua giovinezza, quasi
non uscita tuttavia dall'infanzia, eppure già donna per la imponenza
dello sguardo, pel sentimento alto e profondo che si manifestava nelle
sue sembianze, nel suo contegno, nel suo sorriso.
«Apprendere chi ella fosse lo desideravo colla più intensa vivacità del
mio volere, ma domandarlo non avrei osato mai. Il signor Defasi mi
soddisfece dicendo egli stesso, non richiesto, appena ella fu partita:
«— Che cara, bella e buona ragazza è questa mai! Essa è la contessina di
Castelletto; e da qualche anno la è una delle migliori avventrici del
mio fondaco. L'ho conosciuta che la era ancora una bambina, ed era già
così affabile e graziosa come adesso, con una certa dignità fin
d'allora, che era una meraviglia. Converrà mandarle subito questi libri
che ha domandato.
«Io sorsi di scatto dal mio cantuccio.
«— Vado io stesso all'istante, signor Defasi: dissi vivamente parendomi
un gran che il potere far subito alcuna cosa che lei in qualche modo
riguardasse.
«— Oh non c'è poi tutta questa premura: rispose affettuosamente il
principale, che postomi, come ti ho detto, molta stima ed affezione ed
innalzatomi, col migliorare delle sue fortune, al grado di suo primo
commesso, scambiava quel mio ardore per zelo di volerlo contentare. Non
occorre che vi scomodiate voi stesso, appena venga il galoppino lo
faremo trottar lui.
«— Oh no, caro padrone: io dissi quasi supplicando: lasciatemi andar me,
subito.
«M'accorsi alla guisa con cui il signor Defasi mi guardava, ch'e' molto
stupivasi di quella mia insistenza, di cui non sapeva darsi ragione;
sentii salirmi il rossore alle guancie come se vedessi scoperto quel mio
segreto nato pur allora, e che già tanto m'era caro.
«— Ho bisogno di uscire, balbettai, di prender aria, di fare un po' di
moto. Ho il sangue al capo. Questo mi servirà di passeggio.
«— Andateci pure allora: disse il principale colla sua solita bontà: e
passeggiate quanto vi bisogna. Voi veramente state di troppo chiuso fra
le pareti e fermo al lavoro. Ve l'ho detto tante volte che il vostro
indefesso studiare vi farebbe male. La gioventù ha mestieri di aria
libera e di moto. Nè dovete prendervi la menoma soggezione di me, perchè
sapete bene ch'io sono disposto a darvi tutte quelle ore ed anco tutti
quei giorni di vacanza che desideriate. Dunque to'; eccovi l'involto di
libri che recherete al palazzo di Baldissero, e poi non vi aspetto più a
casa che per l'ora di pranzo. Siamo intesi così?
«Io lo ringraziai, presi il mio cappello, e coll'involto dei libri sotto
il braccio via di corsa verso l'indicatomi palazzo.
«Lungo la strada che avevo da percorrere, tenevo quell'involto con mani
quasi tremanti, come per un tesoro che portassi. Ella quei libri li
aveva già toccati, li avrebbe tenuti colle sue manine, avrebbeli
introdotti nel santuario dei suoi appartamenti, posatili sul guanciale
per leggerli la sera, avutili per delle ore sotto gli occhi. Li
accarezzavo collo sguardo, li invidiavo coll'anima: li stringevo al
cuore, come una cosa diletta. Mi pareva che essi dalle mie mani,
passando nelle sue, dovessero stabilire una specie di legame segreto fra
me e lei!...
«Giunto alla soglia del portone, la voce del custode mi ridestò dai miei
sogni di pazzo:
«— Dove andate giovinotto? Mi domandò egli.
«Quelle parole mi arrestarono con un sussulto, come se fossero le più
inaspettate e strane, mi trovarono sprovveduto affatto di risposta da
fare. Ristetti confuso e balbettante.
«— Ebbene? Ripetè il portinaio. Siete sordo, o non sapete dove avete da
andare?
«In quella una carrozza soprarrivava di trotto serrato, e voltando
rattamente sotto il portone, poco mancava che mi schiacciasse, interito
e sbalordito com'ero.
«Il portinaio che si spaventò forte del mio pericolo, mi prese ad un
braccio e mi tirò con violenza in là, gridando metà con rampogna e metà
con interesse:
«— Siete proprio sordo, chè non sentite le carrozze che vi vengono
addosso?
«Una testolina dai capelli d'oro comparve alla portiera, ed una voce
d'argento dimandò:
«— Che cos'è stato?
«Era lei! Io risentii il palpito nel cuore e la tenzone del sangue nel
capo, di poco prima.
«Il portinaio rispose; poi, siccome io continuava a tacere, vedutomi
l'involto tra mano, il portinaio medesimo me lo prese, ne lesse la
soprascritta, e disse alla signorina che io portava quella roba per lei.
«Ella avvisò tosto che cosa fosse.
«— Ah! i miei libri che mi manda il signor Defasi?
«— Sì... sì signora: ebbi pur finalmente la forza di balbettare con voce
che mi era strozzata nella gola e con labbra che mi tremavano
dall'emozione.
«Ella lasciò cadere su di me un suo sguardo benigno — su di me povero,
oscuro, miseramente vestito, in così umile condizione sociale; — e disse
con quell'accento la cui dolcezza al mondo nulla può eguagliare:
«— Vi ringrazio.
«Essa colla sua compagna salirono lo scalone: il domestico che era con
loro prese dal portinaio l'involto e le seguì: io sentiva sempre nel mio
orecchio l'eco di quella voce, il suono di quelle due parole.
«Approfittai della licenza datami dal principale e corsi ad accarezzare
le mie fantasticaggini nella solitudine dei viali. Di botto una crudele
vergogna m'assalse. In quali miserabili forme ero io comparso innanzi a
lei! Quasi avessi uno specchio davanti agli occhi la mia bruttezza e la
mia povertà mi risaltavano visibili e spiccate alla mente che a forza
doveva paragonarle alla beltà ed alla ricchezza di quell'angelica
creatura. Oh! s'ella avesse saputo che da quel meschinello disprezzato e
disprezzevole osava innalzarsi sino a lei la temerità d'un amore! Pensai
a Quasimodo il mostro creato da Victor Hugo nella _Notre Dame de Paris_,
che ama supremamente la bellezza femminea incarnata nella grazia di
Esmeralda. Ma in me c'era qualche cosa di più che non ci fosse in
quell'embrione abortito d'uomo; ma il mio affetto era immensamente più
nobile di quanto fosse la passione tra sensuale e canina di quell'essere
mantenuto dall'organismo nella zona inferiore dell'animalità; ma in essa
eziandio lo sguardo affermava che c'era qualche cosa di più della pura
bellezza fisica. Se questa mia veste di carne troppo misera e
disgraziata era indegna di rivolgere pure un desio a quella perfezione
di forme, non erano in me l'anima e l'intelletto capaci di levarsi
all'altezza e di parlare alla pari con quell'intelletto e con
quell'anima? Superbamente mi dicevo che sì; un orgoglio immenso
m'invadeva, e nella febbre di quell'agitazione pareva anche a me di aver
nella volontà e nel pensiero una forza da sollevare il mondo, purchè
trovassi il punto d'appoggio.
«Come fare per poter comparire agli occhi suoi in quel modo che indegno
non mi facesse della nobiltà non del suo blasone, ma della sua natura?
Questo pensiero si piantò fisso e potente nel mio cervello a regolare a
suo capriccio tutti gli altri a lui subordinati. Ne immaginai mille di
cose, tutte folli ed impossibili. Alla gloria fino allora non avevo
pensato mai. Non mi era nata mai la speranza, nè il desiderio, nè manco
l'idea che questa meschina personalità potesse innalzarsi al di sopra
delle altre per essere ammirata dalla nullità comune. Allora, di colpo,
vagheggiai la corona della gloria come un bene fra i più eccelsi; mi
parve anche, nell'intensità febbrile del mio pensiero, un diritto della
mia intelligenza. Oh! se avessi potuto recarle innanzi nella polvere
calpesta da' suoi piedi una fronte cinta del diadema che dà la sovranità
della mente riconosciuta e consecrata dalla fama! Ella avrebbe
apprezzata questa grandezza; ella non avrebbe più guardato all'infelice
viluppo, per accogliere quale sorella l'anima grande che si era
manifestata, come quella Principessa che baciava amorosamente le labbra
del deforme Alano Chartrain addormentato, per gli splendidi versi e pei
sublimi concetti che uscivano da quelle labbra.
«La gloria! la gloria. La mi abbisognava, la volevo. Essa mi appariva
più splendida nel guerriero e nel poeta. Sognai di diventar Napoleone;
sognai di esser Dante. Un Napoleone italico che combattesse le battaglie
della liberazione della patria, e poscia, acclamato da tutta una nazione
redenta e fatta potente, venisse a prostrarsi innanzi a lei per dirle:
«La mia grandezza è opera tua, la mia gloria sei tu; vieni a circondarti
tu pure di questa infuocata aureola che illumina il mio capo al di sopra
del comune livello dell'umanità.» Un Dante, rincalzato da tutto il
tesoro della scienza moderna, che gettasse di nuovo nel crogiuolo della
sua fantasia tutti gli elementi della vita, del pensiero e dell'affetto,
per trarne fuori l'enciclopedia del secolo travagliato, in un altro
splendido poema che comprendesse l'universo.
«Nemmeno pel pranzo non rientrai più in casa del signor Defasi. Mi
ridussi nella mia cameretta, mi vi chiusi dentro e su quello
scartafaccio su cui avevo cominciato a scrivere le emozioni dell'anima
mia, le lotte e i conquisti della mia intelligenza, su quelle pagine
scarabocchiai con mano febbrile i primi versi d'amore che erompessero
dal mio cervello. Quell'immagine giovanile mi stava sempre dinanzi. Io
le parlava come a persona viva che fosse presente e mi potesse
ascoltare. Una folle illusione mi faceva quasi sperare che la intensità
del mio desiderio e la forza delle mie preghiere varrebbero a
comunicare, non ostante ogni distanza ed ogni separazione, all'anima di
lei l'omaggio ed i tumulti dell'anima mia.
«Avrei voluto sapere di essa il nome di battesimo; quel nome con cui
l'aveva chiamata sua madre, col quale avrebbe avuto diritto di chiamarla
l'uomo a cui ella avesse dato l'amor suo. Conoscevo dell'idolo mio la
luminosa esistenza, non la voce con cui invocarlo ed evocarlo, non la
parola sotto cui volgerle la mia adorazione. Mi pareva che sapendo
questo nome era un raccostarmi di più a lei, era quasi un intromettermi
nel santuario della sua esistenza, era una maggiore rivelazione del Dio
a me suo adoratore. Come fare per giungere a questo scopo? Per un altro
sarebbe stata la cosa più semplice di questo mondo: interrogar
qualcheduno; forse lo stesso Defasi avrebbe potuto soddisfare alla mia
richiesta; ma io non avrei voluto a niun conto parlare di lei ad anima
viva. E tu se' il primo a cui ne tengo parola. Mi pareva una
profanazione; mi pareva che qualunque a cui mi rivolgessi avrebbe
sentito nel mio accento, avrebbe letto nel mio volto il mio caro segreto
cui con infinito pudore volevo a tutti nascosto.
«Una strana idea m'assalse. Mi ricordai ad un tratto di quell'aerea
forma che fino dall'infanzia a lunghi intervalli era comparsa ai miei
occhi, aveva parlato alla mia mente, confortatrice, consigliera,
amorevole protettrice. Da lungo tempo ella non si era mostra più, ed io
caduto, per conseguenza di alcune letture, in un nuovo scetticismo — e
ti parlerò eziandio, se non l'hai discaro, di questi travagli dell'anima
mia — io mi era sforzato a persuadermi che quelle apparizioni erano
stati null'altro che fantasimi del mio cervello ed a ritenerle come
illusioni morbose della mia immaginativa. L'amore che mi doveva ridonare
la fede — la nuova fede su cui ora fonda il mio spirito l'edifizio delle
sue convinzioni, dell'enciclopedia umana e delle conoscenze che è giunto
e giungerà mai ad acquistare — la fede nel mondo superiore, senza cui
manca all'essere uomo un elemento essenzialissimo pel suo proprio
svolgimento e perfezionamento — l'amore che doveva ridonarmi questa
fede, cominciò per farmi creder di nuovo alla realtà dell'esistenza e
dell'intromissione nella mia vita di quello spirito incorporeo che mi
era apparso in vaporose sembianze sotto forma di giovane donna.
«Siccome mi era dolce pensare che fosse mia madre a visitarmi pietosa
dal misterioso mondo di là della tomba; siccome non dubitavo che gli
oggetti postimi addosso nell'abbandonarmi infante non appartenessero a
mia madre, e specialmente quel rosario; io presi quest'ultimo dal luogo
riposto in cui gelosamente lo custodivo, lo strinsi con passione fra le
mie mani, me lo serrai sul cuore che palpitava concitato e con
un'aspirazione indefinita, inesprimibile dell'anima, pregai:
«— Madre mia, o qualunque tu sia, spirito mio benigno, vedi il mio
desiderio e soddisfalo tu, se puoi. Spirito immateriale, tu devi leggere
entro il pensiero, tu devi scorgere entro i segreti ripostigli
dell'anima. Vieni pietosa a parlarmi di lei, vieni a darmi quella forza
e quel merito che mi possano accostare all'altezza di quella creatura,
vieni a svelarmi, sia pur anche il più infelice, l'avvenire di
quest'amore che sento, che conosco essersi fatto la ragione e la
sostanza della mia esistenza.
«Stetti quasi tremante, con un palpito pieno di dolcezza, con un'intima
emozione che mi faceva correre lievi brividi per le vene, stetti, nella
mia cameretta invasa dalle ombre della sera, aspettando quell'aura
leggerissima d'alito che mi pareva soffiarmi in fronte all'apparizione
del fantasma, quell'opalino chiarore in mezzo a cui soleva disegnarmisi
innanzi l'incorporea forma.
«Aspettai vanamente.....»
— Ah! Esclamò Giovanni, del quale lo pseudorazionalismo, rincalzato da
un po' d'umore beffardo alla Voltaire si ribellava contro la secondo lui
puerile credenza nelle apparizioni di esseri estraumani. La tua mente,
rinforzata pel crescer cogli anni delle forze fisiche, rinvigorita per
gli studi maggiori e più assennati, non era più capace di quelle
fantasmagorie a cui si prestava nella puerizia e nella prima
adolescenza.
Maurilio fece un lieve sorriso scuotendo la testa.
— Aspetta, aspetta: diss'egli. Tu ti affretti di troppo ad imbrancarmi
nel gregge degli uomini positivi che credono soltanto a quell'universo
di cui le parti si possono misurare col bilancino e scomporre nella
storta del chimico. Ho passato per quello stadio ancor io: fu una crisi
cui attraversò fra le tante, quest'anima; come già ti ho detto, l'amore
me ne trasse, e l'apparizione dall'amore invocata ed evocata, fu il
primo atto che mi riscattò dalla schiavitù in cui ero caduto del
materialismo.
— Dunque la tua apparizione ebbe luogo? Domandò Giovanni con più
interesse di quanto la sua incredulità avrebbe fatto supporre.
— Sì..... Attesala invano in quell'ora mesta e soave del crepuscolo, che
era pure stata quella in cui mi si era presentata la prima volta, io
tornai a discredere, e indispettito meco stesso, proverbiandomi della
debolezza che mi dicevo esser cagione di cotali vane e sragionate
lusinghe, uscii nuovamente di casa per tornare a dare sfogo almeno col
moto del corpo, al tumulto dell'anima, all'agitarsi del pensiero.
«Dove mi recassero le gambe, anche senza preciso comando della mia
volontà, è facile indovinare. Uscii, riscotendomi, dalla riflessione in
cui ero assorto, quando mi ritrovai in faccia al portone del suo
palazzo. Mi fu impossibile strapparmi di là. Una forza centuplicata
d'attrazione pareva inchiodarmi i piedi sopra i sassi di quel selciato.
Il cuore mi batteva, mi batteva; la testa mi era rintronata; gli occhi
non vedevano distintamente; i lumi che apparivano dalle finestre mi
parevano mandare non raggi ma mille sprazzi di scintille che turbinavano
come un fuoco d'artifizio; i rumori mi giungevano al cervello ora come
lontani e traverso una tramezzatura soppannata, ora come accresciuti a
cento doppi di forza da quasi indolorirmene.
«Stetti colà, di questo modo, non so quanto tempo. La mia mente intanto
sognava. Quest'io che s'agita in me vestiva nuove forme e conquistava
nuovi destini. Il materialismo che aveva confuso e identificato me
spirito a questa miserabil carne che mi circonda, che disconoscendo
l'essere intimo e superiore mi aveva fatto credere che intelligenza,
volontà e pensiero non erano che risultamenti della materia organata;
questo crudele, empio e sofistico filosofismo cedeva di botto le armi
all'invasione d'un amore che nulla aveva di sensuale ed aleggiava
purissimo nelle sfere della spiritualità. Senza più contrasto riconobbi
possibile che quella parte essenziale di me a cui la potenza appartiene
di volere e di pensare, fosse di altre forme vestita, più nobili, più
acconcie e leggiadre. Sentii nel carcere delle disadatte membra
incatenata l'anima: ed è quest'anima cui riconobbi non indegna di amare
a quel modo quella tanta idealità incarnata in tanta bellezza.
«La nobile fanciulla rappresentava per me tutto quello che vi ha di
superiore negli affetti e nella capacità intellettiva della natura
umana. Fin da bambino l'anima mia, inconsciamente, aveva anelato a quel
mondo superiore dell'idealismo, dove le deficienze della creazione
inferiore nella grossolanità della materia non alterano, non
avviliscono, non contraffanno l'archetipo dell'idea divina; il non aver
mai potuto attingere colle mie aspirazioni pure un adombramento di
quella suprema bellezza, i duri attriti della vita sociale in mezzo alle
cui più grosse difficoltà il destino mi aveva balestrato, una scienza
insufficiente, carpita, per così dire, a casaccio in mal digeste
letture, mi avevano fatto disperare di giungere non fosse che alla
soglia di quel mondo superiore, mi avevano fatto negare che quel mondo
esistesse. Ad un tratto la luce di quella regione celeste mi raggiava di
pieno negli occhi con quella verginale beltà. Io era forse indegno di
arrivarlo; ma l'ideale esisteva e la perfezione di forme illuminata
dall'idea in quell'essere di fanciulla n'era un'incarnazione sublime.
«Perchè la mia anima non aveva ella vestite delle sembianze che stessero
a paro con quelle di lei? Era ella una condanna, od una mia colpa od
un'ingiustizia? Era codesto un segno dell'inferiorità essenziale dello
spirito mio? Ma se nella chiostra del mio pensiero sentivo una forza che
abbracciava i mondi, e più audace che non avessi trovato in altrui, si
elevava a battere alla porta dei misteri della creazione! E questo era
un mistero terribile e impenetrabile eziandio; ma era: che due anime,
forse pari e degne l'una dell'altra per loro intima natura, si potevano
trovare quaggiù separate per la disparità delle forme, per la distanza
delle condizioni sociali, a distribuire le quali cose è forse una legge
eziandio, ma a noi cotanto ignota che la chiamiamo caso. Ora l'opera di
questo caso o legge misteriosa potrebbe la volontà umana, collo sforzo
portentoso del suo travaglio, distruggere, riparare, sconvolgere? In
altri e più speciali termini, il povero trovatello, miserabile, brutto,
disprezzato, reietto avrebbe potuto coll'intelligenza, colla virtù,
colla grandezza dell'opera sua elevarsi sino alla superba fanciulla,
bella, nobile e ricca, che a lui appariva nell'orizzonte della vita come
all'umile pastore delle montagne la splendida luce della stella del
mattino?
«Ecco il quesito che già mi poneva dinanzi inesorabilmente, come
l'enimma della sfinge, la febbre della passione.
«Fino a quando sarei rimasto colà inchiodato a quei ciottoli della
strada noi saprei dire; ma un avvenimento me ne venne a strappare.
Quella medesima carrozza che la mattina era venuta alla porta del
fondaco, uscì di sotto il portone del palazzo. Come un lampo mi passò
davanti la visione di quella bellezza colla sua aureola di capelli
d'oro. Non deliberai, non pensai, non seppi nemmeno quel che facessi; ma
d'un balzo mi trovai seduto sulla predella di dietro della carrozza. Più
volte mi avvenne poi di fare quel medesimo; ed ancora ieri sera di
questa guisa l'accompagnai al ballo dell'Accademia. La carrozza si fermò
alla porta del Teatro D'Angennes. Vidi lei discendere ed entrare colà
dentro. Rimasi alcuni minuti perplesso. Non ero ancora entrato mai in
nessun teatro: non osavo avventurarmi in quel luogo di cui non avevo la
menoma idea; non sapevo come fare; ed una irresistibile forza mi traeva
a seguitarla. Cedetti e di slancio m'introdussi nella stanza d'entrata
come farebbe chi si gettasse in una voragine di fuoco. Il portinaio mi
arrestò domandandomi il biglietto. Arrossito sino alla radice dei
capelli, confuso, balbettante, mi feci spiegare che cosa fosse, come
avessi da fare per procurarmelo, e mi affrettai a seguire le datemi
indicazioni. Pagai ventiquattro soldi, che per me rappresentavano anche
allora una somma di qualche rilievo, e seguii i passi di alcuni che
entravano eziandio in quel momento.
«Era già tardi: lo spettacolo incominciato e la folla in platea tale che
ai nuovi venuti non era possibile più lo entrarvi. Dal di là della
soglia nel vestibolo, di sopra le spalle e le teste di coloro che mi
erano davanti, vidi un ambiente pieno di luce con in mezzo un lampadario
ad innumerevoli fiammelle. I suoni dell'orchestra e i canti degli
artisti lo riempivano d'armonia, e le onde sonore di quella musica
venivano a percuotermi travelate e ad intermittenze la testa.
«Dello spettacolo mi curavo poco; ma volevo vederla — lei!
«Udii due de' miei vicini che si dicevano: — qui non si può veder nulla.
Andiamo su in _paradiso_, chè qualche cantuccio da allogarci ce lo
troveremo.
«S'avviarono di fretta su per le scale, ed io li seguii.
«Quando fui al secondo pianerottolo uno di quei tanti usci che erano nei
corridoi, l'uscio appunto che si trovava precisamente in faccia a chi
finiva di salire quella branca di scala, si aprì. Ne venne fuori un
giovane, il quale avendo ancora da dire qualche parola a quelli che eran
dentro, tenne un istante, standovi sulla soglia, mezzo aperta la porta.
Rimasi piantato là innanzi. Il mio sguardo penetrato là dentro aveva
visto disegnarsi sul fondo luminoso del teatro il divino profilo di lei.
Ella teneva il gomito appoggiato al parapetto e la testa un po'
reclinata posando lievemente sulla mano la guancia; ascoltava più che
attentamente con emozione la musica, e la sua mossa naturale,
abbandonata, di cui ben vedevasi ella non esser conscia per nulla, era
la più graziosa, la più avvenente, la più adorabile ch'esser possa mai.
«Ma ratto la visione fu tolta agli occhi miei. L'uscio s'era richiuso,
il giovane era partito senza punto badare a me; io mi ritrovava più
impacciato che prima di quel che dovessi fare. Essa era là, così vicino
a me, separata soltanto da un uscio e da pochi passi. Ma codesto non mi
bastava: gli era vederla ch'io voleva, di ciò avevo bisogno; l'ardente
desiderio di contemplarla era insaziato in me e da non saziarsi. Salii
di volo le scale che ancor rimanevano; giunsi nel loggione, e capii
tosto che doveva esserci colà un punto da cui avrei potuto vederla.
Corsi sollecito all'estremità verso il proscenio dalla parte opposta a
quella dove avevo visto ch'essa si trovava; dall'ultima apertura d'onde
non si può vedere sul palco scenico che da chi si trova in prima linea,
ed ancora stentatamente, trovai modo di gettare uno sguardo nel
sottoposto teatro. La vidi; e ciò mi bastò. Mi appoggiai colle spalle
alla parete, e stetti senza più muovermi, senza più batter palpebra,
cogli occhi fissi su quell'adorata visione.
«Come già ti dissi, non ero stato mai in nessun teatro; quel caldo,
quell'afa, quel rumore mai non mi avevano avvolto; era un tutto nuovo
ambiente per me in cui non sapevo ancora, direi quasi, respirare, e per
cui opprimendomisi il petto mi veniva impacciata la circolazione del
sangue e procurato di questo un ingombro al cervello. Continuavano per
me le percezioni ad essere confuse, pressochè senza giusta misura, ora
troppo vive, ora troppo smussate, or tarde, or lente, uno stranissimo
complesso che non sapevo più se era vita o fantasmagorìa, se realtà o
sogno.
«Musica teatrale e canto drammatico non avevo udito mai. Conoscevo
solamente i canti di chiesa e il suon dell'organo che nella mia infanzia
al villaggio m'intenerivano l'anima, senza pur ch'io ne sapessi e
cercassi sapere il perchè. Di poi, dacchè ero a Torino avevo sentito
scuotermisi le fibre e sussultare i nervi a qualche marcia concitata
suonata dai corpi di musica della guarnigione. Non conoscevo con
linguaggio di melodia che due sole espressioni, la religiosa e la
guerresca: tutto il resto degli umani affetti e delle passioni del cuore
che trova una voce così efficace nell'infinito degli accordi musicali,
era ancora libro chiuso per me. Ero in condizioni tali da rendermi le
prime impressioni che ne ricevevo, le più forti e profonde che mai:
quelle prime impressioni che in cuor giovenile hanno pur sempre
intensità ed efficacia cotanta. Al momento in cui ero giunto ad
allogarmi in quel cantuccio del loggione, suonavano pel teatro due voci,
una d'uomo e l'altra di donna, due voci soavi che s'accordavano insieme
a meraviglia in una melodia piena di passione e d'incanto. Aveva
incominciato la voce di tenore, poi quella di donna aveva risposto e per
ultimo si assembravano insieme con islancio d'inesprimibile effetto.
Cantavan d'amore; si davano un addio, separati quali dovevano essere
dalla sorte; si scambiavano un pegno del mutuo affetto che li stringeva,
e si giuravano eterna la fede.»
— Buono! Interruppe Giovanni: gli è la _Lucia di Lammermoor_ che tu hai
udito.
— Non so, rispose Maurilio, non avevo guardato i cartelloni, non li
guardai nè anche di poi, non me ne venne pure il pensiero. Le parole non
potevo capir bene, ma capivo a meraviglia la musica, e ne capivo ancora
di più il significato e la bellezza, vedendone le emozioni dipingersi
sulle sembianze di lei..... Quelle medesime emozioni che provavo io,
nascosto nel mio cantuccio, compiutamente ignorato. Ella stava immobile,
tutto tutto attenta alla scena, non prestando il menomo ascolto alle
chiacchere che colla signora ond'era accompagnata facevano parecchi
giovani civili e militari che si scambiavano e succedevano in quella
loggia. Io ne vedeva di tre quarti il viso leggiadro, e il puro ovale
delle sue guancie spiccava a meraviglia sul fondo rosso della
tappezzeria; i suoi occhi di colore indefinito, ora verdi come il mare,
ora azzurri come il cielo, ora scuri come una perla nera, limpidi sempre
come la stella del mattino, i suoi occhi strani di cui non v'ha pari, di
inesplicabile, ma sublime, ma inarrivabile bellezza.....
— Un momento: interruppe di nuovo Giovanni Selva. Sì, gli è vero che gli
occhi di quella ragazza sono veramente straordinarii ed hanno una certa
segreta malìa che non si può definire; ve ne hanno pochi in verità di
tali occhi, ma per bacco non sono i soli, e un paio di simili ce l'hai
tu stesso, Maurilio.
— Io? Esclamò il povero innamorato arrossendo sino alla fronte.
— Tu, in verità. Sicuro! Più ci penso e più ci trovo una gran
rassomiglianza fra questi tuoi che lucicchiano qui in queste tenebre
come quelli d'un gatto e gli occhi di quella nobile donzella. Ma
continuiamo il tuo racconto. Che cosa facevano quegli occhi ammirabili
ed ammirati?
— I suoi occhi si lumeggiavano così bene delle interne emozioni
dell'anima che a me le rivelavano più chiaramente che non avrebbe potuto
fare la parola. La tenerezza, la pietà, il nobile diletto delle generose
commozioni apparivano nei raggi di quegli sguardi sicuri e modesti, non
cercatori nè pur curanti dell'omaggio ammirativo d'altrui, e nella loro
indifferenza della gente non disdegnosi nemmanco nè oltraggiosamente
superbi. Si vedeva che in quell'anima risiedevano, come in loro proprio
luogo, tutti i più degni affetti ed i più nobili sentimenti, i quali in
quel punto, suscitati dalla malìa di quella musica, attestavano collo
splendore dell'esterna bellezza la loro divina presenza. Oh! come sentii
che era capace di sublimissimo amore quell'essere che m'accorsi
palpitare com'io palpitava, a quelle onde di meravigliosa armonia! Oh
come avvisai che felicissimo sarebbe l'uomo il quale potesse porre una
mano su quel cuore e sentirlo battere per lui! A me il solo provare
insieme con lei le emozioni di quei momenti, tornava un massimo diletto,
pareva una ventura che alcun poco ci raccostasse. Quanti altri erano
colà ad udire i medesimi suoni e partecipar quindi delle emozioni
medesime! Eppure mi pareva che dalla massa comune noi due soli, ella ed
io, ci separassimo per provare più veramente e più altamente quelle
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