La plebe, parte II - 27

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Nariccia non rispose nulla; andò verso l'uscio e quando fu per uscire si
rivolse indietro a dire con tono quasi raumiliato:
— Bene! Quando avrete mangiato, Dorotea, verrete di là da me... Ma
guardate di non mangiar troppo di quelle radiche: le sono indigeste e vi
potrebbero far male: e l'uovo lasciatelo per mio pranzo.
— Sì sì, lascierò stare il suo uovo; borbottò la serva dietro l'usuraio
che usciva: mangerò pan nero asciutto asciutto, che il fistolo lo colga!
Nariccia era appena fuor della soglia della cucina, quando si sentì il
suono del campanello dell'uscio che metteva sul pianerottolo.
— Un'altra seccatura: disse col suo tono burbero la vecchia fante
gettando dispettosamente sulla tavola le liste di pan nero, tagliate dal
padrone, e ch'essa erasi recata in mano per mangiarsele: non mi
lascieranno mai tranquilla un momento questa mattina.
Ma l'avaro, voltandosi indietro a parlarle dal corridoio, disse col suo
tono untuoso da impostore:
— Non vi disturbate pure Dorotea. Fate in pace il vostro asciolvere, e
vado io stesso a veder chi è.
Dorotea riprese il suo pane, borbottando fra sè più burbera e più
bisbetica che mai:
— Chi è? chi è?.... Lo so già fin da prima chi è: un qualche povero
diavolo che viene a farsi sgozzare qui in questa caverna d'usuraio....
Uhm! Questo vecchio senza cuore diventa ogni giorno più avaro e più
tristo. Non mi pare poi d'avere un'anima tenerella, ma se non ci fossi
abituata da tanto tempo, credo che ora non ci potrei resister più. Colle
sue madonne, e coi suoi santi, e colle sue giaculatorie questo vecchio
esoso non ha nè fede, nè legge.... È impossibile che il Signore tolleri
uno scellerato che profana così il suo nome e la religione.... Ho il
presentimento che qui deve precipitare qualche gran disgrazia, e che
l'ha da coglierci me pure.... Ah! se non fossi così vecchia, gli è ben
vero che me ne andrei lontano lontano; ma sì, dove potrei cacciarmi ora
per vivere? e coi pochi salari che questo birbante mi ha sempre pagato
non ho manco potuto mettere insieme quattro pochi di soldi per
assicurarmi la vecchiaia. E certo se un bel giorno divento malata, o
quando sarò tanto innanzi negli anni da non poter più servire, questo
cane d'un impostore è capace di gettarmi fuor di casa come un cencio
frusto....
Intanto che Dorotea prevedeva a quel modo il tristo avvenire che
l'aspettava, Nariccia, aperto colle solite precauzioni l'uscio d'entrata
nell'alloggio, aveva visto che il sopravvenuto era il portinaio, ch'egli
quella mattina stessa aveva fatto avvertire passasse da lui a pigliarne
certi ordini. Questi ordini, che Nariccia si affrettò a dare al
portinaio, uomo rozzo, d'anima come di corpo grossolano, riguardavano la
povera famiglia d'Andrea e di Paolina. Il portinaio doveva salire alla
soffitta da loro abitata e farsi subito pagare del dovuto affitto: se si
rifiutavano di pagare, senza remissione, il portinaio doveva discendere
nella strada la loro poca roba, prenderli per un braccio tutti e
metterli fuori, chiudere la soffitta, recarne la chiave al padrone ed
appiccare al portone da via il cartellino dell'appigionasi.
— Va bene: disse il portinaio che nella bassa e crudele anima sua, degno
servitore dell'usuraio, non vedeva punto la bruttezza di quest'azione
spietata. Per fortuna appunto, Andrea non c'è, chè l'ho visto uscir io
poc'anzi insieme con un suo compagno che è solito a ricondurlo a casa
ubbriaco la sera, e molto probabilmente non tornerà più a casa fino a
notte con una delle sue sbornie famose; abbiamo tutto il tempo di fare
l'operazione senza impacci e resistenza, che quella miseruzza di Paolina
e i suoi tisichelli di bambini non sapranno farne altra che di lagrime e
di strilli. Quando Andrea torni, troverà lo sgombero compiuto e non gli
resterà che stridere: chè invece s'egli fosse in casa, gnaffe! l'affare
sarebbe un po' serio; ha un certo umore e certi pugni a capo di certe
braccia!.....
— E dunque andateci subito e sollecitate: disse Nariccia impaziente.
Stamattina ci vennero delle signore in carrozza a visitare que'
spiantati; certo hanno loro dato denari, e possono pagarmi..... e sarà
tanto di meglio, ch'io riacquisti quel poco che mi viene, che da sì
lungo tempo mi si fa aspettare, e che temevo perduto..... Che se non
pagano, non si meritano sicuramente nessuna pietà..... Andate.
Il portinaio, con tutta indifferenza, salì zufolando le scale e in breve
tempo giunse alla porta della soffitta di Paolina.
— Si può? Diss'egli rozzamente urtando col piede nelle imposte chiuse
dell'uscio.
— Chi è? Domandò di dentro la voce debole e quasi soffocata di Paolina.
— Sono io, il portinaio.
— Ah! Vi faccio aprir subito.
S'udì il passo lieve d'un bambino che veniva verso la porta, e questa fu
aperta dal più grandicello dei figli della misera donna.
Il portinaio entrò colla sua faccia da villano che ha una gran villania
da fare.
Paolina giaceva in letto oppressa dal suo malanno: affannoso ne era il
rifiato, profonda e dolorosa la tosse, ma pure nell'anima sua era
entrata una certa dolcezza, che sembrava quasi una speranza.
L'accoglimento che le era stato fatto e le dolci parole dettele in casa
della buona signora Teresa l'avevano alquanto riconfortata, più ancora
le avevano recato del bene la presenza nel suo tugurio di quei due
angeli di carità, che erano le signorine Maria Benda e Virginia di
Castelletto, i soccorsi recatile onde i bambini suoi avevano potuto aver
cibo, e i denari lasciatile per cui potevasi dalla miserrima famiglia
pagare l'affitto al padrone di casa ed avere ancora tanto in serbo da
campar tutti per parecchi giorni.
Andrea aveva inoltre rinnovate coi più solenni giuramenti le sue
promesse di rammendarsi; e la sventurata Paolina aveva tuttavia la
debolezza di credergli; ora, giacendo in letto, le si presentava alla
mente, come possibile in un prossimo avvenire, la chimera di nuovi
giorni di pace e di letizia, uguali a quelli che erano trascorsi un
tempo, quando Andrea, innamorato di lei, savio e laborioso, l'avea
sposata e mandava innanzi a meraviglia la fondata e crescente
famigliuola. Era essa in queste dolci immagini, quando il portinaio,
colla feroce commissione datagli da Nariccia, venne a battere all'uscio
della soffitta.
— Sora Paolina, disse di botto il portinaio, gli è il padrone che mi
manda a vedere se finalmente avete preparato i denari della pigione da
dargli.
La povera donna si sollevò sul suo strammazzo puntando il gomito e disse
con meraviglia, in cui c'era pure una tema crudele che subitamente
l'assalse:
— Come la pigione?.... Se mio marito è sceso giù, non è più d'un'ora,
per andarla a pagare.....
Il portinaio ruppe in una grossolana risata:
— Sì, pagare quello lì: prima che egli faccia un miracolo simile mi
cascherà il naso.
— Ve lo dico in verità: insistette Paolina in cui però la paura della
nuova disavventura cresceva nel cuore.
— Ed io vi dico in verità ancora più vera che il padrone di casa, del
vostro uomo, non ha visto manco l'ombra, e che di denari non ne ha avuto
neppure un quattrino.
— O mio Dio! mio Dio! Esclamò con istraziante dolore la povera donna,
che incominciava ad esser chiara di un nuovo fatalissimo fallo di suo
marito. Eppure mio marito ha preso seco i denari per andarlo a pagar
subito, il padron di casa..... L'ho visto io..... perchè grazie alla
Provvidenza ed alla carità di due brave signorine, questi denari ce li
abbiamo.....
— Non dubito punto che vostro marito sia uscito coi denari che dite:
interruppe ruvidamente l'uomo di Nariccia; ma ciò di cui sono certo, si
è che invece di soddisfare al suo debito col padrone di casa, è andato
secondo il solito a consumarseli all'osteria. L'ho visto io giustamente
venir fuori del portone a braccetto con quel suo ordinario compagno da
bettola, quel grande, grosso, dal pelo rosso.....
— Marcaccio? Pronunziò Paolina con voce che era un gemito.
— Appunto! Credo bene che si chiami così.
La moglie d'Andrea cadde riversa nel suo giaciglio come se fosse stata
colpita al petto da un urto simile a quello che la sera innanzi nella
taverna di Pelone le aveva dato la mano del marito ubbriaco; due
lagrime, due sole, ma cocenti, le spuntarono nelle scarne occhiaie, e
sulle labbra livide si disegnò un movimento, un tremore che quasi poteva
dirsi un sogghigno, ma pieno di disperazione. Ogni accarezzata lusinga
della sua fantasia, ogni illusione del suo povero cuore era di colpo
distrutta! Pure, pensando ai suoi bambini e parendole troppo terribile
la sorte loro e troppo ingiusta verso di essi la Provvidenza, se vero
fosse ciò che paventava, la misera volle tuttavia appigliarsi ad un
ultimo ramo di speranza.
— Aspettate: diss'ella al portinaio: forse ho sbagliato; mio marito non
avrà preso seco i denari... Forse sono ancora costì, e ve li do subito a
voi medesimo.
Si gettò addosso comecchessiasi la sua stracciata vestaccia e saltò giù
dal letto con vivacità datale dalla passione di quel crudele momento.
Corse a quel tréspolo azzoppato che serviva loro da tavolino e cercò con
mano avida in una scatola senza coperchio che vi era su, entro la quale
ella stessa aveva posto le monete datele dalla carità quella mattina. La
scatola era vuota. Non solo mancavano i denari che si erano messi in
gruppetto separato per pagare la pigione, ma erano spariti anche gli
altri, mercè cui la infelice donna aveva calcolato d'avere il pane della
famiglia per molti giorni.
Alla debolezza di Paolina affranta di anima e di corpo, quel colpo fu
troppo grave. Si abbandonò sulla più vicina seggiola, pallida come una
morta, e non ebbe più forza nè di parlare, nè manco di pensare, nè di
volere cosa nessuna. Un'atonia dolorosa la invase: il suo stato poteva
rassomigliarsi a quello d'un caduto in acqua vorticosa, che lotta finchè
gli bastan le forze contro la corrente, e poi ad un tratto sente
mancarsi ogni vigore, capisce che nulla può salvarlo più, chiude gli
occhi e s'abbandona al suo destino.
— Ah ah! diceva con sciocco e crudele trionfo il portinaio. Voi vedete
se c'era da credere che Andrea lasciasse manco la croce d'un centesimo.
E' vi ha fatto un _repulisti_ completo. Eh! lo conosco per bene io, quel
buon soggetto. Avesse delle migliaia di lire, che è capace di fonder
tutto alle carte e bevazzando qui da compare Pelone. Dunque non c'è più
caso di star lì a fare altre considerazioni. Il padrone ve l'ha detto e
ridetto che non vuole più avere dei pigionali della vostra risma.
Potrebbe farvi staggire tutta questa poca roba..... ma siccome non c'è
manco tanto che basti a pagar le spese di giustizia, così ve le lascia
portar via, al diavolo, dove volete..... Ma vuole aver subito libera
questa soffitta. Avete capito?
Paolina, mezzo dissensata, sollevò la testa e guardò il portinaio con
aria così smarrita che mostrava non aver ella proprio compreso.
Il portinaio ripetè in tono ancora più chiaro le sue parole, e le
conchiuse con una dichiarazione tanto esplicita da non lasciar più
dubbio nessuno.
— Io, dunque, disse, prendo questi vostri quattro stracci, ve li calo
giù nel cortile, e voi fateveli portare poi dove vi piace.
E siccome pose tosto mano all'opera, Paolina, per quanto offuscata dal
dolore avesse la mente, dovette andar persuasa che quello non era un
sogno crudele, ma una tristissima realtà.
La disperazione le ridonò ancora alcun po' di vigore per rivolgere
alcune preghiere al cuore indurito di quel degno agente dell'usuraio;
soggiunse, Andrea sarebbe forse venuto più tardi a pagare, si aspettasse
almeno un giorno o due ch'ella avesse potuto trovare un ricovero a' suoi
figli. Niente affatto! Il portinaio fu inesorabile; e venti minuti dopo
la poca e povera roba di quella disgraziata famiglia era giù nel cortile
in un piccolo mucchio, e sopra di essa stavano accoccolati i bambini
piangenti e la madre che non piangeva più, che aveva nelle membra il
tremore, e negli occhi l'ardore della febbre.
Sul loro capo calava la neve che seguitava sempre a fioccare.
Ma non era passato molto tempo che in quel cortile, intorno alle
masserizie ed alle persone della povera famiglia s'era formato un
capannello, in cui le parole che suonavano nei vivaci discorsi non erano
d'elogio al padrone di casa. Erano popolani abitanti di quel miserabile
quartiere che imprecavano e maledivano alla barbarie di messer Nariccia
e si sfogavano in minaccie contro di lui, che si sarebbero tradotte in
fatti niente graziosi per esso, quando fosse comparsa a vista di
quegl'indignati la faccia ipocrita di quello scellerato usuraio. Dorotea
medesima corse rischio di passarla brutta, avendo voluto ficcare il naso
là in mezzo, tiratavi dalla curiosità, mentre andava dallo speziale a
procurarsi la medicina di cui Quercia aveva scritto la ricetta e che
Nariccia s'era deciso di prendere. Le imprecazioni contro il padrone
ebbero una tal recrudescenza e presero un dato momento una direzione
così personale per la vecchia fantesca, ch'ella stimò bene allontanarsi
più che in fretta. Ritornata a casa Dorotea raccontò a Nariccia quello
che accadeva nel cortile, e l'usuraio, spaventato, non si credette
sicuro se non mettevasi sotto la salvaguardia della polizia, inviò
pertanto il portinaio al _Comando di piazza_, e due _veterani_ non
tardarono ad arrivare per porre l'ordine in quel cortile col loro
bastone e colla loro autorità.
Ma che cosa fare di quella donna e di quei bambini? Il quesito sarebbe
stato di ardua soluzione, se l'intromissione d'un personaggio, che al
suo primo comparire si dimostrava fatto per comandare, non ci avesse
provvisto. Questo personaggio era il dott. Quercia medesimo, il quale,
terminata la sua segreta conferenza colla _Leggera_, passava di là, non
a caso, ma per recarsi in quella sua casina sul viale dove l'abbiamo già
accompagnato una volta, essendo quella strada la più breve per
arrivarci.
Gian-Luigi ordinò che la donna, in cui il male era oramai precipitato in
uno stadio gravissimo, fosse trasportata all'ospedale, i bambini fossero
condotti in un vicino asilo, dov'egli pagando li ottenne subito
ricoverati. Quando egli aveva finito di disporre pel compimento di
quest'opera buona, al mormorio lusinghiero della gente colà raccolta, un
omicciattolo s'accostò pianamente al dottore, e gli disse sotto voce:
— Questo fatto veramente provvidenziale darà alla _cocca_ il
fabbricatore di chiavi false che ci abbisogna.
Il _medichino_ riconobbe Graffigna, che s'era così bene camuffato, da
sembrare affatto un'altra persona, gli fece un lieve cenno
d'intelligenza e si allontanò. Graffigna disse allora a sè stesso:
— Andiamo a cercare di Marcaccio e di Andrea; costui adesso non ci
scapperà più di sicuro.
E si diresse verso la taverna di Pelone. Vedremo più tardi quali tristi
effetti avesse sulla sorte di Andrea e su quella medesima di Nariccia la
crudele determinazione di quest'ultimo, che scacciava di casa sua la
donna malata e i bambini dell'artefice ferraio.


CAPITOLO XXII.

La stanza in cui erano rinchiusi Maurilio e Selva nelle parti inferiori
del castello, era fredda, piccola, umida, scura, selciata di mattoni la
cui polvere non mai spazzata, in quel momento, trovavasi ridotta ad una
specie di motriglia dall'umidità che ci entrava traverso le grosse
inferriate e la fitta graticola vestita di ragnateli della finestrucola
che in alto presso il soffitto si apriva nei fossi delle due torri, e le
cui imposte ned erano chiuse nè potevansi chiudere neppure, per la
semplice ragione che mancavano affatto.
In quella stanza di prigione i mobili non facevano ingombro. Da una
parte eravi un tavolato infisso al pavimento, per servire da letto;
dall'altra parte una brocca di terra cotta piena d'acqua, e un
bigonciuolo che serviva ad usi meno nobili ma necessari. Ecco tutto.
Maurilio, venendo dalle stanze superiori dove c'era maggior luce, al suo
entrare colà dentro non vide nulla che una chiazza bianchiccia in alto
della parete di faccia alla porta, ed era la finestrina per cui
penetrava un poco di barlume. Il secondino che dietro il cenno del
Commissario lo aveva accompagnato a quella carcere, tirato ch'ebbe i
chiavistelli, girato la chiave nella serratura, aperto il grosso
battente dell'uscio cigolante sui cardini, senza tante cerimonie diede
uno spintone per le spalle a Maurilio, affine di cacciarlo dentro, e col
medesimo rumore che aveva fatto testè ad aprire, richiuse sollecitamente
dietro di lui la pesantissima porta.
Maurilio vide l'ombra d'un uomo che pareva sorger da terra, agitarsi
innanzi a lui e slanciarsi verso di esso con una esclamazione; ricordò
il suo ingresso nelle carceri del palazzo chiamato ancora oggidì il
_correzionale_, e si trasse indietro vivamente con raccapriccio di
timore e di ripugnanza.
Ma Giovanni, le cui pupille s'erano già temperate alla poca luce di
quell'ambiente, aveva di botto riconosciuto in chi entrava l'amico suo,
epperò si era affrettato al suo incontro.
— Maurilio: diss'egli con un'intonazione di lieta sorpresa nella sua
voce vivace e francamente sonora: poichè anche tu avevi ad essere
uccello di gabbia, benedetto l'azzardo che ci congiunge: dico l'azzardo
perchè ho troppa stima del signor Commissario per supporre solamente che
questo possa esser l'effetto d'un gentile riguardo che ci abbia voluto
usare.
— Che? Esclamò Maurilio rassicurato e sentendosi rinfrancare di botto
alla voce, alla presenza, alla stretta di mano, all'abbraccio
dell'affettuoso amico. Sei tu, Giovanni? Arrestato anche tu!.... Oh!
come mi fa piacere il trovarti.
— Birbone! Disse Giovanni ridendo. Ti fa piacere vedermi in gattabuia!
— Eh! no di certo. Voglio dire.....
— So bene quello che vuoi dire: interruppe col suo riso schietto ed
aperto Giovanni Selva. Ma qui, tocca a me, che ci sono entrato alquanto
prima, il far gli onori dell'appartamento. Se non ci vedi ancora
abbastanza, dammi la mano e lasciati guidare.
Lo condusse al tavolato.
— Qui, continuò, è il sofà; egli è vero che questo è anche il letto, e
può, anzi deve servire eziandio da tavola. Semplificazione veramente
ammirevole!..... To', imita il mio esempio, e siedi sulla sponda di
questo tavolo-sofà-letto. Che bel vocabolo!... Non temere di guastarne
la spiumacciatura pei tuoi sonni della notte, sibarita che tu sei. La
sofficità di questi materassi non ci può patire. Non è qui che potrà
darti fastidio la foglia di rosa male ripiegata sotto la tua schiena, te
lo assicuro io. È presumibile che avremo delle belle ore innanzi a noi
da guardare quel «breve pertugio» lassù, che ci lascia venire
tropp'aria, troppo freddo e per compenso troppo scarsa la luce; per
fortuna abbiamo più sacca da vuotare a vicenda. Io ti dirò l'iliade del
mio arresto, tu mi conterai l'eneide del tuo, e poi terminerai di
espormi l'odissea delle avventure della tua vita. Oggi sono classico
come il prof. Paravia e parlo come un'appendice di Romani. Possa
quest'omaggio alla letteratura officiale rendermi benigni i Dei
infernali di queste bolgie governative! Queste chiacchere non ci
scalderanno, ma ci faranno passare il tempo. Siccome spero che non
saremo condannati alla sorte del conte Ugolino, spero bene che finirà
per venirci qualcheduno, da cui, mercè il sacrifizio dei pochi denari
che ci hanno levato di tasca, potremo ottenere una coperta per non
gelare come sorbetti e qualche mezzina di vino per non lasciare
intorpidirsi, come già mi sento le mani, anche il cervello.
Il programma di Giovanni fu seguìto appuntino. Dopo che l'uno e l'altro
ebbero narrato a vicenda come avesse avuto luogo il loro arresto, dopo
discorso non senza gravi apprensioni dei pericoli che sovrastavano a
loro, agli amici ed all'impresa, Maurilio, pregatone di nuovo dal
compagno, riprese il racconto della sua vita, interrotto all'alba di
quella stessa mattina, quando Selva aveva dovuto correre da Francesco
Benda per accompagnarlo in qualità di padrino al duello col marchese
Ettore di Baldissero.
— I giorni che passarono, poichè ebbi la fortuna di incontrarmi col
signor Defasi; così incominciò a raccontare Maurilio, recatosi prima
alquanto sopra sè come per evocare più nette innanzi alla mente le sue
memorie: quei giorni furono i più lieti e tranquilli che io abbia
passato ancora mai su questa terra. Quella buona e pietosa famiglia mi
pose un vero affetto. I miei studi interessarono il capo di casa e i
progressi del mio intelletto lo stupirono di molto. Ebbe di me stima
assai più ch'io non meritassi, e quasi ammirazione. Volle che con lui e
con i suoi, fossi non più nelle attinenze d'un inferiore, ma in quelle
d'un uguale. Spinse al punto il suo affetto e l'estimazione per me che
mi lasciò comprendere un giorno come non avrebbe disdegnato, me povero e
senza famiglia, accogliere come figliuolo concedendomi la mano d'una
delle sue ragazze.
— Ed ecco entrare finalmente in campo la molla o segreta o palese, ma
universale, delle azioni umane: la donna! Così disse Giovanni. Tu mi hai
detto già che una violenta passione era venuta a impadronirsi del tuo
cuore e darci fuoco a quella provvista di poesia che vi giaceva latente;
questa passione era ella appunto per la figliuola del tuo principale?
Maurilio scosse la testa con atto di negazione desolata.
— No; rispose. Ah! fosse stato così! Avrei svelato al signor Defasi
tutta la verità sul mio conto; ed egli così generoso verso tutti, così
ammirato di me, avrebbe tuttavia concessomi l'onore della sua alleanza.
La donna che avrei amata sarebbe stata mia. Ma il mio cuore invece — lo
sciagurato ch'io sono! — non fu tocco dalle domestiche virtù e dalla
modesta leggiadria delle figliuole del libraio; fu ad un punto acceso
dalla fiera bellezza, dalle superbe grazie di tale, appetto a cui il
povero trovatello è come innanzi alla gemma che orna il diadema d'una
regina, il verme della terra.
S'interruppe manifestamente esitante ancora innanzi alla rivelazione del
suo segreto.
Giovanni gli prese una mano e lo incoraggiò con una stretta, senza
parole, e con uno sguardo affettuoso.
Maurilio disse affrettatamente ed a voce bassa:
— Amo la contessina Virginia di Castelletto, cugina del marchese Ettore
di Baldissero.
E poi, come uomo che ha detto una sua gran vergogna, nascose la faccia
sconvolta nelle grosse mani.
— Cospetto! Esclamò Giovanni con accento tra di meraviglia, tra di
compassione. Per te questo amore è un terreno arido in cui non può
nascere il menomo fiore d'una speranza. Tanto varrebbe esserti
innamorato della luna! Valla ad arrivare! Mio caro, allorchè di queste
passioni impossibili entrano nel cuore d'un uomo, conviene strapparle
subito, ad ogni costo, anche portandosi via un pezzetto del proprio
cuore, chi abbia senno, risoluzione e coraggio d'uomo siccome hai tu.
— Eh! che cosa non ho io fatto per ciò? Proruppe Maurilio con impeto.
Non ci ho potuto riuscire a niun modo. Questa fatale passione si è
tenacemente impigliata al più intimo dell'esser mio, ha gettato le
radici profonde nel substrato della mia natura, s'è fatta il sangue che
palpita nel mio cuore, s'è insinuata in ogni circonvoluzione ove sta lo
strumento del pensiero nel mio cervello, s'è fatta l'anima mia. Da
questo miserabil corpo non si può togliere più che colla vita: dallo
spirito forse mai più!... Forse l'ho già portata meco da esistenze
anteriori, e seguiterò ad averla connaturata colla mia essenza
individuale negli stadii infiniti della mia immortalità, aspirazione
fors'anco ad una meta di felicità non arrivabile nel tempo, punizione e
spasimo frattanto nella relatività delle vite incarnate.
Agitò la sua testa grossa ed arruffata, lanciò dai suoi occhi profondi
delle fiamme di sguardi: il sangue concitato gli colorò un istante i
pomelli delle guancie e la vastissima fronte parve in quella accarezzata
da una luce fosforica che la circondasse. La bruttezza delle sue
corporee sembianze scomparve un istante sotto il fugace rivelarsi della
luminosa natura dell'anima là dentro costretta. Una donna d'intelligenza
l'avrebbe trovato in quel punto meglio che leggiadro, imponente e
sublime.
Sì: continuò egli lasciando vibrare la sua voce, che acquistò ancor essa
un'insolita ed efficace armonia: questa passione, che fa da veste di
Nesso all'anima mia, l'ho portata meco da altre vite, da altri mondi.
Che cos'era quella indefinita ed incompresa aspirazione all'ideale che
affannava fin dai primi anni l'inconscia mia natura? Che cos'era
quell'ardore di innalzare nella schiera gerarchica delle intelligenze il
mio spirito audace ed ambizioso, mercè lo studio ed il sapere? Che cosa
quei tumulti inesplicabili che mi sobbollivano in petto, che mi facevano
fra mille temerarie idee dibattersi la ragione, come nave senza governo
in mar tempestoso? Che cosa quelle ineffabili chimere con sorrisi di
donna e con isguardi d'angelo che passavano lucenti frammezzo alle mie
fantasticaggini, adombrandomi un bene sconosciuto e cui non sapevo
definire? La prima volta che io l'ebbi veduta, lei, appena fu comparsa a
questi occhi, compresi tutto. La passione d'amore era lo svolgimento
dell'anima umana, essa era la legge suprema del mondo morale come in
quello fisico l'attrazione; e l'anima mia, fatalmente, per ignota
necessità, era avvinta a quell'anima che mi si rivelava con tanto
sfolgoramento di bellezza, oscuro pianeta di quell'astro lucente. Oh!
come lo ricordo quel momento in cui la prima volta quella beltà raggiò
nella penombra della mia esistenza! Se chiudo gli occhi, rivedo tal
quale il luogo, il tempo, e lei, e me, ed ogni oggetto circostante.
Chiuse diffatti gli occhi, e sulle sue pallide labbra si disegnò un
ineffabile sorriso, da potersi paragonare a quello del Joghi, indiano,
che nelle sue mistiche contemplazioni vaneggia di giungere al proprio
assorbimento in Brama.
E stette un poco, tacendo, in quella mossa prima di riprendere il suo
dire.
— Era una bella giornata di primavera; così riprese Maurilio di poi; un
lieto raggio di sole entrava nella bottega dei signor Defasi e faceva
ballare allegramente traverso il suo splendore i minutissimi atomi della
polvere. Il principale era seduto ad una sua piccola scrivania
esaminando i libri delle ragioni; io, assorto in una meditazione
indefinita e indefinibile, guardavo la danza di que' minuzzoli di
materia che turbinavano, all'aria che filtrava dall'uscio, entro quello
sprazzo di luce.
«Ad un punto una sfarzosa carrozza con due cavalli di prezzo si fermò
innanzi alla bottega; un domestico in livrea disceso dal seggio del
cocchiere ne venne ad aprire l'usciolo, e due donne uscite dalla
carrozza si diressero verso il fondaco, di cui il domestico s'affrettò a
spalancare l'uscio a vetri perchè potessero entrarci.
«Di quelle donne io vidi una soltanto. La sua testa mi apparve in mezzo
allo splendore del sole, più splendida ancora nello sguardo angelico,
nel sorriso divino. Sopra i suoi capelli color d'oro la luce faceva come
un'aureola di fuoco; la sua bellezza verginale spiccava su quel fondo
ardente come una sublime figura del Beato Angelico sull'oro della sua
tavola. S'avanzò con graziosa mossa verso il banco ingombro di libri; il
lieve rumore del suo passo, il fruscio delle sue vesti mi parve
un'armonia. La guardavo con occhi sbarrati, immobile, fiso, rapito, non
più presente a me stesso, non più sulla terra, non più conscio di nulla
che quella celestiale bellezza non fosse. Palpitavo e tremavo; sentivo
un ghiaccio corrermi nelle vene e una vampa di fuoco precipitarmisi nel
cervello. Credo che se avessi visto precipitare in quel punto sul mio
capo un colpo della falce della morte, non avrei manco potuto muovermi a
schivarlo, così ero impietrito. Era una visione beata che avrei voluto
durasse una eternità. Ella parlò. Che cosa dicesse non so, non capii, ma
bevvi avidamente coll'anima quella voce soave. Il padrone s'era alzato
dal suo posto ed era venuto riverente incontro alle due donne. Egli
rispose alcun che. Vidi che quella divina figura sorrideva, udii ancora
una volta la melodia di quella voce; poi l'apparizione scomparve, la
carrozza ripartì e mi sembrò che quella bellezza allontanandosi, seco
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