La plebe, parte II - 12

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figura di quel giovane ardimentoso nell'atto che affrontava con tanta
sicurezza il pericolo, che dominava con tanta supremazia le turbe, che
s'imponeva con tanta autorità a tutti, e il cui sguardo pur tuttavia era
certe volte sì dolce!...
Povera Maria!


CAPITOLO XII.

Gian-Luigi, nel salire in carrozza, disse al cocchiere:
— A casa, di galoppo.
Cinque minuti dopo il legnetto entrava nel cortile della casa in cui
abitava il dottor Quercia.
Questi scese sollecito e levandosi in punta di piedi, a bassa voce disse
al cocchiere che si chinava verso di lui per udirne gli ordini:
— Andrai tosto ad avvertire i capisquadra della _cocca_ che si radunino
stassera alle sette nella taverna di Pelone.
Il cocchiere fece un cenno affermativo.
— Poi verrai qui e starai pronto ad ogni evento tu e la carrozza.
Detto questo corse su delle scale verso il suo quartiere. Quell'altra
faccia sospetta che gli serviva da domestico gli venne incontro fino
sull'uscio del pianerottolo.
— Ho udito la carrozza: gli disse, appena Gian-Luigi fu entrato; ed ho
pensato che era Lei che tornava. Abbiamo qualche cosa di nuovo?
— Sì: rispose Gian-Luigi. Aspetta che ti do due lettere da portare.
Si mise al suo tavolino a scrivere di fretta. Un bigliettino vergò sopra
un elegante fogliolino di carta lisciata, il quale diceva in lingua
francese:
«Contessa. Due miei amici, due bravi giovani, gli avvocati Benda e
Selva, furono arrestati per sospetti politici — affatto a torto, ve lo
giuro. Bisogna che per mezzo del conte e di vostro padre mi aiutiate a
farli rimettere in libertà. Fra due ore al più tardi sarò da voi a
spiegarvi meglio la cosa, ma frattanto non perdete tempo e pregate il
conte a parlare al generale Barranchi in favore de' miei protetti, e
scrivete al barone La Cappa di volere interporre la sua valevole
protezione presso il Governatore. Addio, vi bacio le mani e sono —
quegli che vi ama alla follia — Luigi.»
Sopra un pezzettino di carta qualunque scrisse:
«Seguite colui che vi presenterà queste parole di mio pugno. — Seguitelo
subito. — Preme — Q.»
Diede i due scritti al domestico il quale con istrana famigliarità, di
sopra la spalla del padrone, aveva letto tutto ciò che questi era venuto
scrivendo.
— Questo, disse Quercia accennando il bigliettino, lo porterai...
E il domestico interrompendo con un insolente sogghigno:
— Alla contessa Staffarda ci s'intende... Ma dica un po', sor
_medichino_, che cosa è l'arresto di questi due di cui fa cenno? Sono
essi dei _nostri_?
— No: riprese Gian-Luigi crollando impazientemente le spalle.
— Be'... Io son di parere allora che la fa male Lei ad immischiarsene...
La Polizia non bisogna toccarla, se non ci tocca... Lasci un po' che
arresti chi vuole, quando la non ci viene a rompere le tasche a noi.
Il _medichino_ si volse con tutta l'autorità e l'imponenza della sua
supremazia.
— Olà! Mi pare che tu ti picchi di farmela da mentore eh?... Non tollero
di queste seccaggini, io... fai quello che ti dico senza rompermi le
tasche, ne prendo un altro a tua vece.
— Non parlo più: disse il domestico raumiliato. Mi pareva.... credevo
bene.....
— Ti pareva falso e credevi male..... Stai certo che tutto ciò ch'io
faccio gli è pel bene della _cocca_ e non seccarmi altrimenti.
Quest'altro fogliettino recherai in via porta..... nº..... piano
terreno, uscio a dritta, appena nel vestibolo. Batterai nell'imposta
sinistra due colpi, poi dopo un piccolo intervallo un altro, poi dopo
altra pausa ancora tre; allora la porta ti si aprirà ed a chi ti verrà
innanzi farai i segni dell'iniziazione massonica; quando ti avrà
risposto, domanderai se esso è Medoro Bigonci..... Ricordati bene questo
nome..... Alla risposta affermativa gli consegnerai quella carta, che ti
farai restituire, ed appena sia pronto lo condurrai in _Cafarnao_,
passando non per la bettola ma per la bottega di _Baciccia_. Io sarò là
ad aspettarvi.
— In _Cafarnao_! Esclamò il domestico stupito all'estremo. Proprio in
_Cafarnao_? Ripetè come se credesse di non aver capito.
— Sì: disse asciuttamente Gian-Luigi.
— Un estraneo?
— Egli è tale di cui si può fidare completamente, e le cose che abbiamo
da dire, sono di natura da non esser dette che nel più segreto
nascondiglio del mondo. D'altronde, giunto nella retrobottega di
_Baciccia_ gli benderai gli occhi e non gli leverai la benda finchè non
sia penetrato fino nel mio gabinetto. Conducendolo fuori si farà lo
stesso, così vedrà nulla di nulla. Ve l'ho già introdotto io altra volta
di questa guisa ed ei non ha il menomo sentore della vera destinazione
di quel nostro sotterraneo riparo.
Mandò un sospiro quasi di rimpianto e mormorò fra i denti:
— E se l'avesse, egli non ci metterebbe i piedi di certo. Hai capito? —
Riprese parlando ad alta voce al domestico.
— Farò come la vuole.
— Benissimo. Vai e sollecita.
Il domestico si partì; Gian-Luigi si cambiò frettolosamente di abiti da
capo a piedi ed avviluppatosi in un ferraiuolo uscì ancor egli e si
diresse verso un'estremità della città, da quella parte precisamente in
cui erano i quartieri più antichi e poveri, e in essi la taverna di
mastro Pelone[4].
[4] Nella descrizione di codesti luoghi non sarò molto preciso
per evitare che si attribuisca a questa od a quella casa il
teatro delle scene che sto per narrare: — vere pur troppo in
gran parte.
Eravi colà — ora non esiste più — un gran quadrato di case
ammonticchiate l'una accosto all'altra in una massa compatta, traverso
cui non passava nessuna via pubblica, ma si aprivano molti cortili e
cortiletti la più parte umidi e sporchi, i quali, comunicando fra loro
per anditi bassi e porte, formavano una specie di labirinto cui solo
poteva percorrere senza smarrirsi chi ne avesse acquistato il filo colla
pratica.
La bettolaccia di Pelone si apriva in questo quadrilatero dalla parte
che costeggiava la viuzza di cui ho parlato nell'aprirsi di questo
racconto: nel lato precisamente opposto, il quale si trovava allo
estremo lembo delle abitazioni e quindi metteva sopra i viali, quasi
all'altezza medesima della taverna, vedevasi un muro che separava da un
tratto di terreno incolto, corrente presso le case fra queste ed il
viale, un cortiletto in fondo a cui biancheggiava una casetta d'un
piano, ristorata di fresco, la quale colla sua lindura e pulitezza
faceva strano contrasto alla miseria delle casipole che la circondavano.
Quella casetta aveva una misteriosa storia cui raccontavano con mille
varianti le comari del quartiere. Molti anni prima era di proprietà d'un
vecchio misantropo che la fama diceva ricco assai e che viveva da
povero, solo, senza servi, senza conoscenti, senz'attinenza nessuna di
nessuna sorta. Le vecchie, che ricordavano averlo visto, dicevano che
aveva la faccia d'un birbante: che pareva il delitto incarnato in un
omiciattolo macilento, rugoso, sporco, scontroso e ributtante. Lo si
accusava d'ogni più orribil fatto — e sopratutto di essere uno stregone.
Dicevasi che la notte strani rumori si sentivano in quel locale, e che
il diavolo ci doveva venire di sicuro a tener compagnia a quel
solitario. La casa aveva il medesimo aspetto del padrone; le muraglie
n'erano verdastre; i ragnateli pendevano dapertutto, il tetto pareva
minacciare rovina; la grondaia cascava staccata da una parte: gli
scalini per cui si saliva al peristilio dell'unico ripiano erano
disfatti e le lastre di pietra vacillavano sotto il piè vacillante di
quel vecchio che solo varcava quella soglia. Era una casa che da lustri
e lustri si lasciava andare in rovina.
Un giorno il vecchio misantropo non fu visto uscir più secondo che
soleva tutte le mattine; le imposte delle finestre rimasero
ermeticamente chiuse, e non fu udito più, nè visto colà dentro cenno di
vita alcuno. Passarono e due e tre giorni di siffatta guisa, finchè la
pubblica autorità, avvertita, penetrò di forza in quella casa, e trovò
il vecchio appiccato per la gola ad un trave del soffitto. Non c'era
traccia alcuna di violenza; nulla era derubato; si pensò che il vecchio
medesimo, stanco di quella sua vita da orso, s'era ammazzato: si fece il
suo bravo processo verbale e, dopo qualche giorno di chiacchere d'ogni
fatta, la cosa fu posta in oblio. Il vecchio non lasciava eredi. Il
fisco prese possesso di quella catapecchia, e la lasciò nello stato in
cui si trovava, non sapendo che farne. Per molti anni essa rimase
disabitata, e le comari del quartiere affermavano che la notte ci
tornava lo spirito tormentato del vecchio omicida a farci chiasso.
Finalmente quattro anni prima dell'epoca del nostro racconto, tutti i
vicini stupirono nel vedere muratori e falegnami e poi tappezzieri
all'opera a cambiare quelle luride muraglie in un'elegante dimora piena
d'ogni ornamento e di ogni sontuosità che per comodo e per lo sfarzo
della vita abbia saputo inventare la civiltà moderna.
Il dottor Quercia aveva comperato quella casa e la faceva con grande
spesa ridurre a _petite-maison_ per farne il nido de' suoi amori e delle
sue avventure galanti.
Gli è verso questa sua casetta che Gian-Luigi diresse i suoi passi.
Giuntovi, aprì la porta del muro che metteva nel cortile e la richiuse
dietro sè appena entrato. Alla destra, addossato al muro, eravi
all'interno un casotto da portinaio, ma la porticina e la finestra
chiuse compiutamente anche alla luce dinotavano che non ci stava
nessuno. Gian-Luigi traversò il cortile camminando sulla neve caduta,
che nessuno aveva spazzato, e salito i tre scalini, che egli aveva fatto
mettere di marmo e riparare da una piccola tettoia di ferro e cristalli
(di quelle che diconsi _marquises_) aprì la porta di legno ben lavorato
con ornamenti di bronzo, ed entrò, chiudendo anche qui studiosamente
l'uscio dietro sè non solo con doppia mandata del serrame, ma con un
forte paletto di ferro, che fece scorrere dall'una all'altra imposta.
Varcata la soglia eravi un breve andito a colonne che metteva in una
sala piuttosto vasta, costrutta ed ornata secondo l'architettura ed il
gusto dell'arte pompeiana. Il rumore dei passi era ammortato da uno
spesso e ricco tappeto, e due bocche di calorifero alle due pareti
laterali a chi entrasse mandavano un dolce tepore come di stufa per
fiori. Senza deporre nè cappello nè ferraiuolo, Gian-Luigi traversò la
sala ed entrò in una camera il cui uscio trovavasi precisamente in
prospetto a quello d'entrata. Era un salotto ritirato, quieto, con tutte
le delicature del lusso moderno, con diffusavi una luce semicrepuscolare
che invitava l'anima al raccoglimento, i sensi all'abbandono, la voce a
suonare sommesso. Sulle pareti era tesa una tappezzeria di seta gialla a
fiorami d'ugual colore ma di tinta più scura; di seta gialla erano
coperti il lettuccio da sedere, il sofà da starci due a discorrere, le
seggiole a spalliera ricurva per accogliere comodamente la persona, le
poltroncine, soffici tutti quanti, colle molle elastiche, e
_capitonati_. Il legno dei mobili, degli usci, la cassa de' fiori presso
la finestra in cui profumavano l'aere viole mammole, resedà e vaniglia,
le cornici dei due alti specchi che si appoggiavano a due mensole
elegantissime erano bianchi coi fregi e gli orli dorati. Un piccolo
lustro dorato, di elegante forma, pendeva a metà dalla vôlta bellamente
dipinta d'ornamenti architettonici e di vedute di paesi fra quelli
inquadrate. Un più elegante tappeto copriva il pavimento e nel camino,
tutto rivestito di marmo finissimo, ricco di belle scolture, dietro
alari e paracenere elegantissimi di bronzo dorato ardeva un bel fuoco
che una mano attenta doveva avere da poco tempo rianimato.
Gian-Luigi non si fermò neanche in questo salotto, aprì l'uscio che era
alla sua destra e s'introdusse in una camera da letto che era tutto
un'eleganza ed una gaiezza. Le tappezzerie, di seta altresì, erano di
color celeste; di bianco e di celeste era incortinato il letto di legno
di mogano, prezioso per egregio lavorio; dalla finestra per tendoline di
seta rosea coperte di mussolina bianca si stacciava una luce a tinte
soavi e calde che si rifletteva con effetto molto pittorico sugli orli
dei mobili dorati; la vôlta formicolava di fiori e d'amorini sorridenti
vagamente dipinti in ogni mossa; dal mezzo pendeva un canestrino
indorato nel quale fioriva una di quelle strane piante erratiche a cui
non è bisogno per germogliare e vivere la prosa della terra, ma che si
alimentano poeticamente dell'aria, e in mezzo c'era luogo ad una lampada
che dal cristallo opaco mandasse il suo lume travelato, non a
rischiarare, ma ad assistere in quel tempio della voluttà ai dolci
misteri della notte. Due specchiere alte da terra alla cimasa superiore
della parete si facevan faccia dall'una all'altra parte della stanza, e
il letto, posto in mezzo, era riflesso da ambedue all'infinito in una
interminabile infilata.
Il giovane, entrato, chiuse studiosamente dietro sè la porta, come se
temesse che alcun occhio profano avesse da vedere ciò ch'egli stava per
fare, e non la chiuse soltanto colla stanghetta a molla, ma diede colla
chiave due mandate al serrame, quasi per esser sicuro che nessuno
potesse venire a sorprenderlo. La precauzione poteva in vero dirsi
soverchia, poichè aveva egli già serrato e il portone da via, e la porta
d'ingresso della casina, e ben sapeva che nessuno aveva chiavi da
penetrar colà dentro contro sua voglia o ad insaputa; ma il segreto che
si celava in quella camera così elegante da parer fatta per gli amori
soltanto, era pure di sì gran rilievo che per abitudine da non
trascurarsi mai, egli s'era imposto ogni fatta di maggiori cautele cui
potesse suggerire la più diffidente prudenza.
Gian-Luigi gettò uno sguardo sopra una mensola dove stava un gruppo di
bronzo dorato in istile _rococò_, rappresentante con allusione
mitologica varii amorini incatenatori del Tempo, il quale portava sulle
sue spalle un orologio a pendolo.
— Di già le dieci ore!.... Come passa il tempo! Decisivamente la
giornata è troppo corta per le tante cose che m'impone questo lavoro di
Gigante assalitor dell'Olimpo..... Ah delle volte sono stanco!....
Vide in una delle specchiere, innanzi a cui si trovava, la sua faccia
giovenile, impressa di tanta baldanza e risoluzione, e sorrise a sè
stesso.
— Eh via! Sono troppo innanzi nel cammino per fermarmi..... E lo potrei
d'altronde?.... Sono preso fra i rocchetti d'una macchina ch'io guido
bensì, ma di cui sono schiavo insieme. Il giorno ch'io mi arrestassi o
volessi ritrarmene sarei inevitabilmente schiacciato.
Le sue sopracciglia si aggrottarono un momento in fiera guisa.
— Io che voleva esser libero! Soggiunse con molta amarezza. Io che
voleva dominare..... e che voglio!
Crollò le spalle e s'avviò senz'altro, con passo d'uomo che non ha
esitanza di sorta, verso la specchiera che era in fondo alla camera. Si
drizzò in punta di piedi, e trascelto in mezzo ai fiori scolpiti della
cornice un bottoncino di rosa, cui nulla poteva far distinguere dai
moltissimi altri che vi si ammassavano uniti ai fiori sbocciati, vi
premette su lentamente col pollice inguantato, perchè l'azione della
pelle non avesse da appannare la doratura. La specchiera girò adagio
adagio sopra cardini invisibili, e lasciò scorgere un ambiente entro il
muro in cui s'apriva nel suolo una scala a chiocciola che s'affondava
tenebrosamente al di sotto.
Gian-Luigi accese una lampada a cristallo chiuso che trovavasi in una
nicchia entro la parete di quello stretto stanzino intermurale, poi
fatto ritornare a posto la specchiera, e rimasto egli così in una
oscurità profondissima, si diede a scendere rischiarandosi del raggio
che mandava innanzi a sè la lampa da minatore.
Discese per l'altezza di circa dieci metri e trovossi in un vano uguale
a quello da cui dall'alto partiva la scaletta; fece cadere il raggio
della lucerna sopra una porta di legno afforzata da lastre di ferro,
nella quale presso il muro umidiccio, chiazzato di bianco qua e là per
l'efflorescenza del nitro, aprivasi un bucherello in una lastra d'ottone
fortemente, non che invitiata, incastrata nel legno. Era una di quelle
serrature inglesi che si dicono _a pompa_ che impossibile lo aprirle ad
ogni grimaldello, impossibile quasi il romperle e scassinarle.
Gian-Luigi trasse dal taschino del panciotto un anello d'acciaio in cui
erano infilate parecchie piccole chiavi, e trasceltane una, l'ebbe
appena introdotta in quel bucherello della toppa che la porta si aprì
chetamente senza fare il menomo rumore. Un corridoio s'internava
sottoterra e lasciava luccicare nella densa nebbia delle sue tenebre
tratto tratto alcune fiammelle di lampa rischiaratrice che parevano
chiazze sanguigne nel fondo nero di quell'oscurità. Un'aria fredda,
umidiccia, pesante percoteva nel volto chi entrasse e gli si aggravava
sulle spalle come un mantello di gelo che lo vestisse. Un silenzio
sepolcrale ammoniva chi camminasse per quell'_ombre visibili_ esser egli
separato dal mondo dei viventi come se rinchiuso nella tomba. Qualche
goccia di acqua infiltrata rompeva soltanto quella mutezza cascando
tratto tratto con lieve rumore sul suolo. Gian-Luigi si avviluppò di
meglio nel suo mantello e serrato anche qui alle sue spalle l'uscio
pesante camminò innanzi di buon passo e coll'andatura di uomo pratico
dei luoghi e della via.
A seconda che avanzava, il terreno che saliva si faceva più asciutto, e
l'aria più libera e più mossa. Giunse così dopo un centinaio di passi ad
una rotonda tutto murata, di cui il pavimento era composto di lastre
irregolari di pietra e nella quale dall'alto pioveva per parecchi forami
un po' di luce diurna ed aria esteriore. In quella rotonda facevano capo
due altre gallerie cieche, uguali a quella che Gian-Luigi aveva allor
allora percorso venendo dalla sua casina; di questi altri due condotti
sotterranei uno metteva alla taverna di Pelone, l'altro alla
retrobottega di quel _Baciccia_ che abbiamo udito menzionare dal
_medichino_, il quale la faceva da ferravecchi e mercante di mobili
usati. Questi tre _tunnels_ correvano sotto l'ammonticchiamento di
quelle casaccie che ho detto, sino al centro di quell'isolato vasto e
compatto dove quella rotonda trovavasi sotto un cortile interno il quale
raramente o non mai veniva visitato da persona che non vi abitasse; e
gli abitanti di quella miserrima casa erano la feccia morale e materiale
della popolazione.
Ma la rotonda di cui ho detto, non era mica la meta dei passi di
Gian-Luigi. Essa non era che il vestibolo del luogo a cui era diretto.
Un uscio forte e grosso come quell'altro che era a capo del corridoio
sotterraneo, apriva i due suoi battenti sopra uno scalino che lo
rialzava dall'umidità del suolo, su cui traverso i fori della vôlta era
caduta e cadeva un po' di neve che veniva liquefacendosi tosto.
Gian-Luigi trascelse un'altra di quelle chiavettine che aveva radunate a
mazzo in quell'anello d'acciaio, cui l'abbiamo già visto trarre dal
taschino del suo panciotto, ed aprì colla medesima guisa anche questo
uscio.
Al di là di esso continuavasi a salire per cinque altri gradini, che si
seguivano in un andito ascendente, accuratamente murato, colla calce
lisciata e scialbata. Più asciutto si faceva l'ambiente, un'aria più
pura si respirava; piccole aperture a mo' di feritoie, aperte qua e colà
con arte che le dissimulava, servivano da sfiatatoi e facevano penetrare
un certo dubbio chiarore crepuscolare, come servivano a rinnovar l'aria.
Gian-Luigi aveva già chiuso alle sue spalle anche quest'uscio della
scala, quando, ravvisatosi, tornò ad aprirlo e lo lasciò rabbattuto. Poi
salì i gradini; depose la lanterna sopra una panca che trovavasi in una
specie d'anticamera in cui metteva la scaletta, e sospinse un uscio che
trovò aperto innanzi a sè.
Entrò in una vasta cameraccia, aerata ancor essa, come la gabbia della
scala e l'anticamera, mercè que' certi sfiatatoi che ho detto, i quali
non bastando a gran pezza ad illuminarla, era mestieri di una lampada,
che pendeva dalla vôlta continuamente accesa a rischiarare l'infinita,
confusa, enorme, varietà di oggetti d'ogni fatta che facevano ingombro
colà dentro, non lasciando libero di quell'ampio stanzone che uno spazio
di circa due metri in metà.
Ogni cosa qualunque che possiate immaginare di quelle che servono
all'uso dell'uomo, avreste potuto colà rinvenire: armi e vestiario,
mobili ed utensili da lavoro, arnesi di cucina e suppellettili eleganti
da salotto signorile, materassi e biancherie, quadri, bronzi e strumenti
musicali, stoffe, tappeti, stipi, casse di ferro e stoviglie, oriuoli a
pendolo e da tasca, gioiellerie, e cenci e cordami, perfino libri e
quaderni di musica, perfino crocifissi e statue di Madonne di varia
materia e lavoro, candelieri, vasi da chiesa, paramenta da altare e da
sacerdote celebrante, argenteria da tavola, tabacchiere di preziosi
metalli, decorazioni cavalleresche, bottiglie di vino, parrucche, barbe
posticcie, pali di ferro, martelli, tanaglie, ascie, le più ignobili
come le più sontuose cose del mondo. Se il signor Bancone, quel ricco
banchiere che due notti innanzi era stato derubato, avesse mai potuto
penetrare colà dentro, avrebbe riconosciuta la principale delle sue
casse di ferro, nella forza e nel segreto congegno dei serrami della
quale tanto confidava, rotta e sventrata giacente in un angolo.
A ragione questo celato riparo l'avevano battezzato col nome di
_Cafarnao_. Ma aimè su molti di quegli oggetti — orrida vista! — c'erano
macchie di sangue.....
Gian-Luigi s'inoltrò fra quel _pandemonio_ e venne presso ad una tavola
che stava nello spazio lasciato vuoto in metà. Su quella, al di sopra di
una delle gambe che la reggevano, vedevasi un anelluccio attaccato ad un
tondello di ottone; il _medichino_ prese quest'anello e tirò su con
forza un'asticina di ferro che entrava nella tavola, e la quale, per
mezzo d'un filo metallico, metteva in moto nella bettola di Pelone un
martello nascosto che batteva dei colpi contro l'interno della parete
dietro il banco del taverniere medesimo. Diede tre strappate ad un
piccolo intervallo l'una dall'altra, poi levatosi il cappello ed il
ferraiuolo, fece per gettare l'uno e l'altro sopra un viluppo di
materassi e di balle di lana che era alla sua destra. Ma là, sopra
quell'ammasso di cui s'era fatto un comodo giaciglio, stava lungo e
disteso un omiciattolo colla faccia sottile, col naso appuntato, il
quale aveva aperto un occhio per guardare il _medichino_; un occhio
vivo, irrequieto, malizioso, ironico ed impertinente.
— Sei tu, Graffigna? Disse Gian-Luigi deponendo altrove il mantello ed
il cappello. Che cosa fai tu costì?
Graffigna tirò giù lentamente le gambe, l'una dopo l'altra, si drizzò in
piedi, e rimanendo appoggiato allo stramazzo su cui poco prima giaceva,
rispose colla sua voce esile da falsetto, che strideva come l'unghia
d'un avaro sopra lastra di vetro:
— Dormivo. Si lavora tutta la notte di santa ragione da quel bravo
Graffigna che si è, e un po' di riposo lungo il giorno vi ristora un
uomo come una scodella di brodo con dentrovi un mezzetto di _barbèra_.
Qui poi si può dormir tranquilli senza la paura della zampa del gatto.
Pur tuttavia sono così avvezzo a non dormire che d'un occhio, che l'ho
sentita venire, sor _medichino_.... ed ecco l'affare!
— Va bene... Non voglio disturbarti... Sta pure sdraiato a tua posta.
— La mi burla!... Conosciamo i nostri doveri verso i superiori, che
diavolo!... La disciplina o che il boia m'impicchi... Non esco di lì,
io... Ed a meno che Ella me ne dia espressamente l'ordine...
— Sì, proruppe il _medichino_ con qualche impazienza. Sdraiati, ascolta
soltanto due parole che ti ho da dire, e poi russa pure come quel maiale
di Stracciaferro che allorchè dorme qui dentro fa tremar le vôlte.
Graffigna allungò di nuovo chetamente il suo corpo mingherlino e disse
con voce più sottile che mai:
— _Che scusi_, ma non son io che sarei capace di mancare alle
convenienze come quell'animalaccio di Stracciaferro. Io mi rimetto a
giacere per obbedirla, e son tutto orecchie ad ascoltare le sue parole;
e poi quando Ella mi avrà dato i suoi ordini, se la mi permetterà, avrò
anch'io da spifferarle quattro ragioni in croce.
— Quel che t'ho da dir io, è detto in due motti. Primo, cercherai i
quattro supremi consiglieri della _cocca_ e loro comanderai a mio nome
di trovarsi qui stassera alle sette. I capi-squadra sono avvisati di
radunarsi nella bettola di Pelone.
Graffigna si levò su a sedere sul suo giaciglio con atto di molto
interesse.
— Oh oh! Esclamò egli. Ci sono dunque grandi cose in aria?
Gian-Luigi chinò in segno affermativo la testa.
— Benone! Disse tutto lieto il galeotto mentre tornava a sdraiarsi.
— In secondo luogo, continuava il _medichino_, ho grande interesse di
sapere chi sia quel poliziotto che stamattina si recò a fare una
perquisizione in casa Benda. Ho chiamato Pelone appunto per averne
alcuno schiarimento, che mi penso egli potrà darcene. In difetto,
quand'egli non sappia o non voglia parlare...
— Eh eh! disse tranquillamente Graffigna: si potrebbe farlo cantare
anche contro voglia.
— No: interruppe vivamente Gian-Luigi; nessuna violenza... D'altronde
Pelone ci è troppo necessario per disgustarlo... e troppo pericoloso per
farcelo diventar nemico. Quand'egli taccia, fa di scoprir tu con ogni
mezzo che ti parrà migliore, e quando tu lo abbia conosciuto...
Il _medichino_ parve esitare.
— Quando io lo abbia conosciuto? Ripetè Graffigna ficcando i suoi
occhietti vivacissimi negli occhi di Gian-Luigi.
— Farai di modo da sapere eziandio le sue abitudini, e dove si possa
cogliere solo, allo scarto...
— Ho capito..... È un impaccio?
— È un impaccio.
Quei due uomini, così diversi di sembianze e di natura e d'intimo
valore, si guardarono un momento in silenzio e si compresero. Gian-Luigi
sviò primo le sue brune pupille e si diede a passeggiare su e giù per
quello spazio di pochi metri libero in mezzo al _Cafarnao_.
— Stia tranquillo sor _medichino_; fra un'ora mi metterò in campagna e
spero poterle dire quanto prima che gli è un affar fatto.
Il _medichino_ non rispose e seguitò a camminar con passo concitato e a
capo chino. Dopo un poco si fermò presso la tavola, battè del piede sul
pavimento con impazienza collerica e disse rabbiosamente:
— Quell'eterno lumacone di bettolier dell'inferno non viene. E sì che ho
tirato di forza!
Riprese l'anelluccio della tavola e tornò a dare, ma con più violenza,
tre strappate.
— Prenda pazienza: disse con vocina sempre più esile Graffigna
seguitando il giovane col suo sguardo ironico e scrutatore: ci sarà
gente nell'osteria e non potrà aprire la porta segreta; e poi quel
benedett'uomo è così lento e lungo in ogni sua mossa!.... Frattanto se
la mi permette dirò io a Lei qualche cosa che non manca neppure
d'interesse.
— Parla! Disse vibratamente Gian-Luigi continuando a passeggiare in
lungo e in largo.
— Prima di tutto ho una commissione da farle, una commissione
importantissima, mi disse chi me la diede.
Il _medichino_ si fermò in faccia a Graffigna di colpo.
— Chi?
— Ester, la bella figliuola di quel brutto scellerato di _Macobaro_.
Gian-Luigi crollò le spalle e si rimise a passeggiare.
— Dove l'hai tu vista?
— A casa sua. Sono andato ieri sera da quel sacco di tutte le malizie
d'un vecchio ebreo per intenderci sulla compra di qualche masserizia fra
tutta questa roba che ci ingombra maledettamente. Quell'avaraccio è
indegno di appartenere alla cocca. Ha una indiscrezione di pretese che
trarrebbe i calci dalle scarpe d'un santo; e non è mai quel cane da
offrire pure una goccia di _branda_ ad un amico..... Basta; a grande
stento mi avanzò qualche miserabile spicciolo che mi disse avrebbe
portato in conto.....
— E che tu ti sei affrettato di consumare in tanta acquarzente.
— _Cribbio!_ Come si fa? Con tante fatiche e con questa vitaccia che si
mena, se non si tiene un po' su la macchina, vi casca l'asino di
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