La plebe, parte II - 15

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un contegno da colpevole; ed un birro qualunque, per poco fosse pratico
del mestiere, lo avrebbe arrestato anche senza nessun ordine in
proposito, solamente al vederne la faccia turbata e l'occhio smarrito.
Innanzi a quella forza materiale rivestita dell'autorità della legge,
cui gli rappresentavano gli agenti della Sicurezza Pubblica, la sua
debolezza fisica si sentiva profondamente sgomenta. E poi, di botto
s'era ridestata in lui l'idea del carcere quale lo aveva sofferto un
tempo in compagnia de' più tristi mariuoli del mondo, di Stracciaferro e
di Graffigna; ed egli rivedendosi in quell'infame purgatorio, sentina
d'ogni scelleratezza, sentiva un profondo tremore scuotergli le più
intime fibre. Che cosa non avrebbe dato, che non avrebbe fatto per
salvarsi da quell'orrida prospettiva che gli si parava dinanzi? La
personalità di questo infelice, come già ho cercato di far comprendere,
componevasi quasi di due, l'una dall'altra grandemente distinta e così
diversa che per poco non dico opposta. Dove si trattasse di contrasto di
idee, di lotta morale, la forza intellettiva che era in lui destava e
faceva adergersi una individualità risoluta, potente, ardimentosa nella
volontà e nella parola: quando fossero in giuoco le forze brutali della
materia, nell'uomo s'incontrassero, o nella natura, o nelle istituzioni
sociali, la debolezza dei nervi e dei muscoli nel suo corpo fin
dall'infanzia immiserito dalle privazioni, dai maltrattamenti, dalle
sofferenze d'ogni sorta, non lasciava più essere in lui che una
individualità timida, umile, pieghevole, conscia troppo della sua
inferiorità e del suo nulla. Impressionabile qual era la sua natura
sotto questo rispetto, siccome egli poteva da un subito sdegno attingere
la fiamma fugace d'un impeto momentaneo di coraggio, così troppo
miseramente s'abbandonava all'accasciamento, quasi direi, alla viltà del
timore. In quest'istante era il timor solo che lo dominava. Se alcuno
de' suoi amici fosse stato presente, avrebbe potuto col suo risoluto
contegno infondere un poco di fermezza anche in lui: ma solo, in
presenza delle faccie torve e delle parole minacciose degli agenti della
forza pubblica, il povero e debole trovatello non aveva che soggezione,
abbattimento e paura.
Alla richiesta che il poliziotto fece della chiave dello stipo, Maurilio
si riscosse e si accostò tremando.
— L'ho io: balbettò egli colle labbra spallidite: quella roba è mia.
— Tanto meglio! Disse con accento ancora più ruvido l'agente di polizia,
il quale, come suole di siffatta gente, di tanto si faceva più
grossolano e prepotente di quanto trovava maggiore innanzi a sè la
cedevolezza. — Gli è giusto quello che vogliamo vedere: qui subito
quella chiave.
Il giovane glie la diede. Lo stipo fu aperto, i panni sciorinati, ogni
cosa frugata, sequestrato lo scartafaccio in cui Maurilio soleva
scrivere in pagine che nessuno aveva visto, nè secondo il suo concetto
doveva veder mai, il più recondito dei suoi pensieri; scartafaccio su
cui egli stesso aveva scritto la parola =farragine=. Fra i varii oggetti
cadde eziandio in mano al poliziotto l'involto in cui erano contenuti il
rosario, il bottone da livrea e la lettera che erano stati trovati
addosso all'infante abbandonato sulla strada.
Maurilio, che aveva visto con immensa pena afferrato, brancicato e
sequestrato il suo manoscritto dall'agente di polizia, e non aveva pur
osato far motto, ora vedendo quell'involto per lui sacro nelle mani
profane d'un carabiniere, ebbe il coraggio di prorompere supplicando:
— Ah no, codesto! Non mi tolgano codesto, per carità!
Siffatta supplicazione era acconcia ad accrescere ancora la voglia di
vedere che cosa quell'involto contenesse; ma nello spiegar la carta, la
mano grossolana del carabiniere lasciò cader per terra il bottone
d'argento, il quale andò a rotolare tra i piedi di _Gognino_, che era
stato lì interito a mirare quella scena, senza quasi trarre nè anco il
fiato. Il nipote della _Gattona_ raccolse quell'oggetto luccicante, lo
guardò e disse non senza meraviglia:
— To' to', il bottone della nonna!
Benchè turbatissimo fosse in quel momento Maurilio, le parole di
_Gognino_ gli fecero una profonda impressione: fu d'un balzo presso al
ragazzo, e prendendogli il bottone di mano, lo interrogò con voce
soffocata per emozione:
— Che dici tu? Che cosa vuoi tu significare? Come questa cosa
potrebb'ella essere della tua nonna?
— Io voglio dire, rispose il fanciullo, che la nonna ha un bottone tale
e quale come questo, e che la lo tien prezioso per non so che memoria.
Maurilio divenne infuocato in volto pel subito, tumultuoso precipitarsi
del sangue commosso al cervello. Le orecchie gli tintinnirono, gli occhi
ebbero dinanzi uno scintillio; mille idee gl'invasero confuse e
disordinate la mente: il cuore sentì mancarsi il battito in uno spasimo
di subita passione, gli parve che la mano del destino gli comparisse
d'un tratto davanti ad aprirgli il mistero della sua vita.
Le seguenti supposizioni ed induzioni si urtarono e s'intrecciarono nel
suo capo: — Che un legame esista fra me e quell'orrida vecchia di vita
infame!... Cielo! ch'ella fosse mia madre!... La subita compassione da
me provata per questo bambino e il proposito fatto di venire in suo
soccorso, altro non sono forse che l'effetto d'un vincolo di sangue onde
siamo uniti... Quella sarebbe la mia famiglia?...
Provò un sentimento d'orrore e di ripugnanza indicibile. Ad
aumentarglielo si affacciò alla sua mente il pensiero della beltà
aristocratica di madamigella Virginia, da lui segretamente adorata. Qual
nuovo abisso si scavava egli mai fra lui e l'idolo del cuor suo! Oh
meglio esser figliuolo di nessuno che il figlio d'una donna infame!...
Tutto questo rovinìo di dolorosi pensieri era passato nel suo cervello
colla rapidità del baleno, e gli aveva lasciato nell'anima l'ansietà
d'una inquietudine insopportabile.
— Vieni: diss'egli a _Gognino_ prendendolo per mano; conducimi tosto
dalla tua nonna. Bisogna ch'io le parli.
— Piano! Gridò il poliziotto mettendoglisi dinanzi. Di qua, signor mio,
non s'esce che per venire con noi, perchè Lei è in arresto.
L'esaltazione di Maurilio cadde di botto. Vide innanzi a sè, come una
voragine spalancata ad ingoiarlo, la carcere e la infamia del nome; si
lasciò cader seduto, fattosi pallido come un cadavere, e desiderò
realmente in quell'istante morire.
Antonio Vanardi ne andò immune per quella volta colla sola paura; ma
questa fu tale che in quel momento egli si promise di rinunziare affatto
al poco fruttuoso mestiere di congiurato. Maurilio supplicò dal delegato
di polizia che quegli oggetti che erano per lui un tesoro ed una
reliquia non fossero presi cogli altri di cui i carabinieri avevan fatto
bottino; e il delegato che giudicò a nulla importare per nessun verso
quelle poche robe, acconsentì. Maurilio partendo consegnò l'involto alla
Rosina, pregandola di custodirglielo.
Dieci minuti dopo il nostro protagonista, condotto ancor egli al Palazzo
Madama, come già era avvenuto a Benda e Selva, trovavasi innanzi alla
faccia burbera, villana, prepotente e terribile a chicchessia del signor
commissario Tofi.
_Gognino_ intanto, uscito di casa il pittore, s'era affrettato a recarsi
alla chiesa del _Carmine_, dove la nonna aveva detto di aspettarlo.
La _Gattona_ si stupì di veder giungere così presto il ragazzo, e questi
raccontò quello che era avvenuto. Colle sue interrogazioni la vecchia
spillò dal nipote ogni cosa e parola che là si fosse fatta o detta.
— Che balordaggini, che eresie son queste onde ti vuole empire il capo!
Esclamava la donna indegnata. Dire che non bisogna pregare i santi, ma
pregare l'anima della madre! Ce n'è tanto da andare all'inferno diritto
come un fuso. Vedi mo' se Padre Bonaventura non aveva ragione a giudicar
male di codestui! E bisognerà ripetere esattamente al buon padre gesuita
quanto hai visto ed udito. Lo hanno arrestato? Ben gli sta! Chi sa che
orrori avrà commesso! Già quella gente lì, senza religione, sono capaci
di tutto.
Per ultimo _Gognino_ contò l'affare del bottone, come un episodio senza
nessuna importanza; ma non lo giudicò tale la _Gattona_, che parve
invece molto interessarsene.
— Che? Davvero? Tu l'hai proprio visto bene?
— Sì.
— Ed è proprio uguale a quello che tengo io?
— Precisamente.
— Questa è strana! Un simile oggetto in suo potere, e quel nome di
Maurilio... Oh bisogna che io glie ne parli subito subito a Padre
Bonaventura.
E recossi diffatti senza indugio in sacristia a far chiedere del frate,
col quale ebbe un lungo e segretissimo colloquio, a cui noi non
assisteremo per seguitare invece il povero Maurilio innanzi al
Commissario, un debole passero negli artigli d'un girifalco.
Il commissario Tofi era d'un umore feroce; aveva bisogno di qualche
agnellino di suddito senz'autorità, da mettere sotto i suoi denti da
lupo di poliziotto. I dialoghi che aveva avuti con Benda e con Selva
l'avevano profondamente irritato. Benda aveva mostrato della dignità,
Selva un'audacia d'indignazione che era tornata al bravo sor Commissario
insopportabilmente temeraria. Le sue minaccie e le sue prepotenze si
erano spuntate contro il fermo viso di due giovani che non avevano
paura: egli era arrabbiato come un attore a cui è mancato il successo.
Ah! se gli si fosse presentata l'occasione di ricattarsene! La sua buona
sorte glie la menò innanzi, quest'occasione, colla povera figura
impaurita del povero Maurilio.
Pel signor Tofi tutta l'umanità si divideva in tre categorie: la prima
quella che bisognava rispettare: i nobili, i preti, i militari e gli
alti impiegati dello Stato; per costoro consentiva a piegare la sua
rigida persona, li trattava col _lustrissimo_ e ringuainava innanzi a
loro le sue villanie; l'ultima invece era quella della gente da nulla,
dei maltrattabili e strapazzabili a talento, a cui poteva dare del _tu_
e del _voi_ a seconda, chiamarli canaglia, e mettere i pugni sotto il
naso; innanzi a costoro egli sfolgorava in tutta l'imponenza della sua
terribilità, e faceva sulle curve cervici rombare il tuono delle sue
minaccie di forca e di galera. Fra queste due classi tramezzava una
terza, a suo senno, ibrida e spuria, che non aveva l'autorità della
prima nè la umiltà e la malleabilità della terza, che non poteva imporre
il rispetto e pur si ribellava ai sergozzoni morali e fisici
dell'arbitrio poliziesco; la borghesia in una parola, cui il commissario
Tofi odiava appunto con tutto l'animo, perchè non aveva da temerla, e
non poteva vedersela così rassegnata come avrebbe voluto all'onore che
il Governo le faceva di calpestarla, ed egli di svillaneggiarla
all'occorrenza.
In fondo, in fondo, la sua predilezione era per l'ultima di quelle tre
classi — la plebe — verso cui pure egli si dava il gusto di una vera
orgia di prepotenze. E questa era una appunto delle ragioni della sua
preferenza. Un povero plebeo egli lo poteva fare arrestare, spaventare,
maltrattare, tenere un po' di giorni a pane ed acqua nei fossi del
Palazzo Madama, poi mandarlo con Dio, senza che alcuno si pensasse mai
di muoverne il menomo richiamo; e il poveretto liberato veniva ancora a
ringraziare il Commissario, che lo congedava fieramente accigliato con
un'ultima benedizione di tremende minaccie. Oltre ciò, egli, il
Commissario, usciva da quella classe, e nelle sue vene gli era il sangue
plebeo che animava la sua popolana prepotenza; l'influsso della razza
esercitava il suo effetto su ciò che potevano dirsi le sue affezioni.
Dalla olimpica schiatta dei potenti e dei superiori non era stato che,
durante la sua carriera, Tofi non ricevesse qualche ingiustizia e
qualche sopruso; ei si curvava innanzi a tutto; la sua devozione
monarchica e governativa non n'era punto sminuita, ma che non restasse
nulla nulla in lui di amarezza, sarebbe stato un pretender troppo.
Cogli straccioni poi la sua villania era piena di franchezza e di
libertà, frammista qualche volta ad una famigliarità confidente, quasi
affettuosa. Preferiva d'aver da fare con un ladro da trivio o con un
assassino di strade che colla superbia pervicace d'un avvocato liberale.
Un buon delitto, ben combinato, egli lo trovava interessante; le
opinioni di chi avrebbe voluto essere governato diversamente, non le
comprendeva e giudicava qualche cosa d'assurdo e di perfido.
Appena gli fu condotto innanzi Maurilio, il Commissario stimò che questi
era precisamente della razza degli umili, a cui monsignore il lupo _en
les croquant_ fa un insigne onore, e il suo animo irritato ne provò un
intimo soddisfacimento. Tofi passeggiava secondo il solito in lungo e in
largo per la stanza in cui l'abbiamo visto interrogare Francesco Benda;
aveva sempre il suo cappellone piantato fin sugli occhi e le manaccie
affondate nelle grosse tasche del suo lungo soprabito; le sue folte
sopracciglia si toccavano e facevano una riga sola al di sopra delle sue
pupille feroci, tanto era aggrottata la fronte; le linee della bocca
parevano un arco teso per saettare la minaccia.
Allo sdegno suscitato nel Commissario dalla risolutezza di Benda e di
Selva, s'aggiungeva quello che gli cagionò la novella non essersi potuto
trovare in nessun luogo quel tale Medoro Bigonci. Tofi aveva davvero
bisogno di uno sfogo. Esaminò un istante la faccia turbata e i panni
logori del giovane, e seppe che cosa pensare sul conto di lui. Lo trattò
in conseguenza; e la fiera severità del Commissario si ripercoteva sulle
faccie burbere dei carabinieri che accompagnavano Maurilio, sul muso
sbarbato dello scrivano seduto al tavolino. L'arrestato non vedeva
intorno a sè che espressioni di condanna, presagi per lui della peggior
sorte. Tofi lo sottopose ad una vera tortura morale colle minaccie d'una
prigionia perpetua e peggio; e l'animo del giovane, per quanto gli era
successo quella mattina, era così sconvolto che avrebbe forse lasciato
sfuggire il capitale segreto, quando per fortuna si venne a chiamare il
Commissario da parte del conte Barranchi, il quale ordinava si recasse
da lui senza il menomo indugio.
Tofi comandò che Maurilio fosse rinchiuso in una delle carceri del
medesimo Palazzo Madama e s'affrettò di ubbidire al cenno del capo
supremo della Polizia.
Maurilio fu tratto in una delle stanze sotterranee del castello; ma colà
dentro udì suonare una voce amica, una mano benevola si porse verso di
lui, ed egli si trovò fra le braccia di Giovanni Selva. La sua anima,
subitamente riconfortata, al contatto di quell'indole coraggiosa e forte
era salva da ogni pericolo di debolezza e di viltà.


CAPITOLO XIV.

Mario Tiburzio, introdotto, come abbiamo visto, nello stanzino
sotterraneo cogli occhi fasciati, aveva udito il susurrio di parole
sommessamente scambiate, poi il rumore di passi che s'allontanavano e
quello d'un uscio che si richiudeva, quindi una voce giovanile e
risoluta, la voce di Luigi Quercia, dirgli:
— Levatevi la benda.
Egli così aveva fatto, e s'era trovato in quella cameretta dove il
_medichino_ lo aveva già introdotto altre volte colle medesime
precauzioni egli stesso. Il luogo era illuminato da una lampada posta
sopra la scrivania a cui sedeva Gian-Luigi. Mario sedette sopra una
seggiola posta vicino alla scrivania medesima cui Quercia gli additò con
cenno da gentiluomo che riceve nel suo salotto; ed appoggiato il braccio
alla tavola chinò il corpo innanzi verso il suo compagno, fissando i
suoi occhi in quelli di lui. Per un osservatore era degno di nota
l'esaminare quelle due teste giovanili con espressione risoluta, audace,
ardente, in cui appariva la forza di due robusti voleri, l'intensità di
due accese passioni, il concentramento in un'opera delle migliori doti
che all'animo ed all'ingegno dell'uomo accordar possa la natura. Ma le
passioni che dominavano questi due uomini com'erano diverse e l'una
dall'altra distante! In Mario Tiburzio era quella nobilissima dell'amore
della patria, in Luigi Quercia era una smodata ambizione di vanità
personale, era una sregolata smania di possedere tutti i piaceri
terreni. Quella si era messa e si metteva in urto contro le leggi della
tirannia, ma esercitando le più nobili virtù del cuore, il sacrificio di
sè, il coraggio disinteressato, l'amore dei nostri simili; la scellerata
passione del capo supremo della _cocca_ lo faceva infrangere ogni legge
di giustizia sociale e di umanità per cercare soddisfazione ad empi
istinti con iniqui fatti. Questa differenza fondamentale si manifestava
spiccatamente allora appunto che, sovreccitate da qualche circostanza,
quelle passioni stampavano sulla fisionomia dei due giovani la loro
impronta. La nobile figura di Mario s'illuminava, direi quasi, d'una
luce superiore, ed impossibile vederla senza rimanerne ammirati: la
bellezza di Gian-Luigi invece, per quanta essa fosse, si deturpava in
quei momenti per una trista, feroce espressione, di cui carattere
principale era quella ruga che veniva a solcargli la pallida fronte.
Or dunque stettero un poco guardandosi i due giovani senz'altro, come
studiando ciascuno fra sè a cui toccasse parlar primo; poscia Quercia
trasse di tasca il suo elegante astuccio di sigari, ed apertolo ne
offerse a Tiburzio; questi prese un avana e lo fece accendersi sopra il
tubo di vetro della lampada; il _medichino_ scelse colla solita cura un
sigaro per sè, richiuse e ripose in tasca l'astuccio ed accese a sua
volta il sigaro alla lampada. Per alcuni istanti ancora e l'uno e
l'altro parvero occupati unicamente di fumare con voluttà i loro sigari
eccellenti che profumavano l'aere dell'odore finissimo del più squisito
tabacco del mondo: poscia Mario si decise a parlare esso per il primo.
— La vostra chiamata, signor Quercia, diss'egli, venne per me questa
mattina più opportuna che mai. Io stava appunto cercando il modo di
avere sollecitamente un colloquio con voi, perchè ho gravi novelle ad
apprendervi, gravi comunicazioni da farvi e gravissime cose onde
richiedervi. E tutto ciò colla massima premura. Pel vostro biglietto ho
arguito che voi pure aveste cose d'assai rilievo da dirmi.
Gian-Luigi accennò col capo che così era veramente.
— A voi il decidere, continuava Mario, se volete parlare od ascoltar
primo.
Il _medichino_ abbassò con atto di elegante cortesia la sua destra
aristocratica verso il suo interlocutore, e disse con avvenevole grazia:
— Parlate voi, vi prego.
Mario appoggiò alla scrivania tutti e due i gomiti e posando il mento
sopra le sue mani insieme intrecciate, cominciò con tutta semplicità:
— Abbiamo deciso ieri sera di dar fuoco alla mina. Questa mattina
medesima, per mezzi sicurissimi, sono partiti i cenni agli altri centri
d'insurrezione. Ad un giorno posto la striscia di polvere s'incendierà
producendo dappertutto lo scoppio.
— Se le polveri non si troveranno qua o colà e fors'anco in ogni dove
bagnate: disse sorridendo Gian-Luigi.
— No: proruppe con forza Mario Tiburzio. Siamo sicuri de' nostri
congiurati.
— Ah! non bisogna mai essere sicuri degli uomini, se non si è saputo
destarne l'interesse. Tutti codestoro su cui contate, hanno eglino
interesse preciso e sufficiente per affrontare le forche in nome
dell'Italia?
Tiburzio rispose alla spartana:
— Tutti amano la patria, e tutti hanno giurato.
Luigi s'inchinò, ma il suo sorriso diventò ironico.
— E voi siete sicuro?
— Sicurissimo.
— Sta bene. E volete da me?
— Che voi manteniate la vostra parola, che voi facciate ciò che mi fu
detto e che voi stesso mi confermaste di poter fare, che ci procuriate
il concorso della plebe.
— Un istante! Esclamò Quercia. La mia parola non è impegnata che
subordinatamente...
— Le condizioni che avete poste furono da me accettate, e saranno tutte
lealmente eseguite.
— Chi me ne assicura?
Mario arrossì.
— La mia parola: diss'egli con vivacità.
— E se voi morite?
Tiburzio tacque un istante, riflettendo.
— Avete ragione: diss'egli poi. Redigete voi stesso uno scritto in cui
sieno contenute tutte le disposizioni onde convenimmo, che riguardano
voi personalmente e la classe che rappresentate; sotto questo scritto,
con solenne promessa di effettuarne fedelmente il contenuto, ci
firmeremo io e tutti i capi del movimento insurrezionale.
Il _medichino_ tornò ad inchinarsi per mostrare che quello spediente lo
soddisfaceva abbastanza: poi arrovesciatosi sulla spalliera mandò al
vôlto lentamente una boccata di fumo bianchiccio dell'_avana_,
compiacendosi a guardarne le spire.
— Insomma, riprese egli dopo un istante, voi state per giuocare la
vostra testa, e volete che anch'io... e quelli che da me dipendono ci
accordiamo il divertimento di questo giuoco. Sia pure; ma almanco
abbiamo il diritto di conoscere le probabilità della partita e sapere le
carte che si tiene in mano. Voi mi direte come debba aver luogo il moto,
con quali elementi di successo, qual parte ci avete assegnata, e tutte
insomma le più segrete risoluzioni che avete prese.
Mario esitò un momento.
— Ah mio caro signore: soggiunse vivamente Luigi: o la più compiuta
fiducia o niente di fatto.
— Vi dirò tutto: disse ad un tratto Tiburzio.
Gian-Luigi si chinò con interesse verso di lui.
— Fra una settimana è la fine del carnevale: così parlò allora
l'emigrato romano. Tutta la gente pensa a darsi sollazzo, e pare
impossibile benanco a ciascheduno che vi sieno chi nutrano gravi
propositi e vogliano tentare gravissimi fatti; la stessa Polizia, se
deve acuire il suo sguardo sui ladroncelli, crede in quest'occasione
poter rimettere della sua vigilanza intorno agli umori politici. Inoltre
l'accorrere di forestieri nella città rende più facile il nascondere e
legittimar l'arrivo di nostri aderenti indettati....
— Insomma: interruppe il _medichino_ che pareva impaziente di venirne
alla conclusione; avete fissato per gli ultimi giorni del carnevale lo
scoppio della rivolta.
— Precisamente.
— Questo quanto al tempo; e il modo?
— Eccolo. In ogni città ogni capo della società segreta avvisa i
sottocapi a tenersi pronti e ad eseguire le avute istruzioni al momento
determinato. Queste istruzioni, diverse in ogni città ed adattate alle
particolari circostanze di ciascheduna, sono combinate dal supremo
Consiglio dei congiurati in ogni località. I sottocapi trasmettono gli
ordini e quanto è indispensabile solamente di queste istruzioni a
quaranta uomini ciascuno, che altrettanti ne tengono sotto di sè.
Codesto forma in ogni città principale un nucleo forte, risoluto,
compatto da seicento a mille uomini a seconda: e quanto possano un
migliaio di coraggiosi in un assalto inopinato voi certo non lo
disconoscete.
Quercia chinò leggermente la testa.
— Intorno a questo nucleo inoltre, continuava Mario, non può mancare di
radunarsi tutta quella vivace e generosa parte della gioventù italiana
che è insofferente dell'attuale ignominiosa servitù....
— E tutti coloro che amano pescar nel torbido: soggiunse Gian-Luigi.
— Non basta. Anche fra coloro che vestono l'assisa del soldato in
Piemonte, in Toscana, in Napoli, vi hanno petti in cui batte un cuore
d'Italiano. Contiamo parecchi fra i militari di vario grado nel numero
dei nostri congiurati; ne contiamo eziandio nelle file degli Italiani
che servono l'Austria. Per codestoro avverrà che parecchie compagnie ed
anco battaglioni non combatteranno con molto vigore contro gl'insorti, e
non pochi fors'anco passeranno dalla parte di questi. Di più non credo
affatto vana illusione la lusinga che i moschetti di soldati italiani
non vogliano rivolgersi senza esitanza contro chi alzerà il grido della
libertà e dell'indipendenza dallo straniero.
Quercia scosse il capo.
— Se siete forti abbastanza da vincere, diss'egli, avverrà così; ma se i
Principi hanno essi le probabilità di schiacciarvi, i moschetti dei
soldati italiani vi fucileranno con tutta tranquillità e precisione.
— Ma noi vinceremo: proruppe colla forza d'una vera convinzione il
congiurato. Il potere dei Principi italiani posa sopra fondamento più
labile che l'arena, poichè ha di sotto il meritato odio dei popoli.....
— E l'Austria?
— L'Austria sarà occupata dalla contemporanea insurrezione delle proprie
provincie, e non potrà accorrere in difesa dei tirannelli nazionali.....
Pogniam pure che essa riesca poscia a domare colle truppe delle altre
parti dell'impero la rivolta italiana; ma ciò intanto non avverrà prima
che la nostra rivoluzione sia vincitrice, e quando l'Austria crederà
poter camminare sulla nuova Italia costituitasi, la troverà riunita dal
pericolo comune, forte del suo recente trionfo, e della nuova libertà,
infiammata dal desiderio d'emanciparsi per sempre dalla tutela
straniera. La rivoluzione interna si cambierà in guerra nazionale; e
quanto irresistibil forza abbiano i popoli che combattono tal guerra, ve
lo dica la storia di Francia della fine del secolo scorso.
— Sia pure: disse accondiscendendo il _medichino_; ma per far tutto ciò
occorrono delle armi...
— Le avremo; ne abbiamo già un buon dato. Varie casse sono penetrate
nell'Italia media ed inferiore; parecchie eziandio in Piemonte; molte
più sono in Isvizzera preparate e saranno introdotte questa settimana
con mezzi sicurissimi. Quante ne vorremo poi, ce le procureranno gli
arsenali stessi dei Governi che combattiamo...
— Sì! Bisognerà prenderli questi arsenali...
— E li prenderemo. Il popolo parigino ha ben preso la Bastiglia!...
— Qui, per la nostra Torino, qual è il piano di battaglia?
— La rivoluzione comincierà domenica sera, e sarò io che dal palco
scenico del Teatro Regio, a metà dello spettacolo ne darò il segnale.
Luigi Quercia si appoggiò ancor esso con tutte due le braccia alla
scrivania ed appressò maggiormente il suo capo a quello di Mario.
— Oh come? Domandò egli con molto interesse.
E Tiburzio continuando colla medesima semplicità con cui avrebbe parlato
delle cose le più indifferenti del mondo:
— Lungo il giorno molti congiurati verranno in città ad accrescer le
file; la sera saranno raccolti alle varie porte in armi per precipitarsi
e sorprendere tutti i corpi di guardia, appena scocchino le ore nove,
che è il momento fissato; due schiere più numerose assaliranno le due
caserme e facilmente se ne impadroniranno, poichè quella sera saranno
deserte di soldati, ai quali per la ragione che è l'ultima domenica di
carnovale sarà concessa licenza fino alle ore dieci.
— È giusto.
— E nelle caserme piglieremo subito buon numero d'armi e alquanto di
munizioni da guerra. Nello stesso momento una schiera di più risoluti
invaderà in quella medesima guisa l'arsenale, dove non abbiamo da temer
resistenza. Quando gli artiglieri verranno per rientrare, troveranno le
porte chiuse e i nostri in sulla difesa. I cannoni non potranno così
tuonare contro gl'insorti.
— E la cittadella?
— Ancor essa si tenterà di sorprendere in ugual modo; ma quand'anche non
ci si riesca, la cittadella potrà far poco a nostro danno, perchè la
maggior parte dei soldati sarà in giro per la città, e sarà agevol cosa
lo averli prigioni, od almeno lo impedir loro di raccogliersi dietro i
bastioni della rocca. Mi pare che in un istante noi abbiamo da essere
padroni della città; siccome le stesse probabilità ci sono per le altre
sommosse che in pari tempo scoppieranno nelle località principali, così
puossi avere fondata speranza che in quella sera la rivoluzione trionfi
per tutta Italia. Ma bisogna pensare anche al domani, bisogna pensare
anche al caso di qualche insuccesso parziale.... — Se l'insuccesso è
generale, allora noi rechiamo la nostra testa in mano al boia, e non ce
n'è più da discorrere. — La tirannia, se le si lascia il capo, tenterà
la sua rivincita, e siccome ha tanti mezzi in suo potere, potrà riuscire
alla guerra civile, indebolirà, se non altro, colla lotta interna la
nazione in faccia dell'Austria quando questa possa intervenire; occorre
quindi togliere a quest'idra della tirannia le sue molteplici teste. Voi
avete già capito quali sieno queste teste: sono i regnanti d'Italia: re,
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