La plebe, parte II - 34
— Per Dio! È la ricchezza che si acquista col proprio lavoro.
— Baje! Nariccia facendo lo strozzino ha pur lavorato; chi può dire
quella di lui una ricchezza onesta? Lavora anche colui che avventura la
vita e la libertà per iscassinare una porta e giunger là dove c'è quel
denaro che egli non può procurarsi, che a lui non danno ereditate
fortune. E il giuoco? È esso un lavoro? No, eppure se uno guadagna un
quaterno al lotto o si fa ricco mercè vincite alle carte, non ci si ha
da ridire.
Prese nelle sue tasche una manciata di monete e la pose sulla tavola.
— To': qui in mezzo a noi due io metto un mucchio di questi _rotondini_
che dànno a chi li possiede ogni ben di Dio: tu ne metti altrettanto: e
diciamo fra noi che prenderà il mucchio intiero quello che sarà favorito
dalla fortuna delle carte. Tu vinci; intaschi tutto, raddoppii il tuo
denaro, e se alcuno viene a dirti che quel denaro non è tuo onestamente,
tu gli dài il togliti di lì con un manrovescio che gli fa veder le
stelle; ed hai tutte le ragioni del mondo.
Andrea guardava con occhio che cominciava ad essere cupido le monete che
il suo compagno aveva poste sul desco e che si compiaceva di maneggiare
e di far suonare.
— Il giuoco: diceva egli frattanto con voce ed aspetto sempre più da
ebbro. Ah! il giuoco è un traditore anche lui. Vi lusinga, v'invita, vi
adesca... e poi ad un tratto, patatrach, vi atterra colle tasche
asciutte.
— Eh via! Tu lo calunnii. Uno dei giuocatori bisogna pur sempre che
guadagni... Perchè non avresti ad esser tu quel desso?
— Io no. Conviene essere fortunati; ed io non ho fortuna di sorta. Ho la
disgrazia che mi perseguita, come se fossi figliuolo della versiera.
— Codeste sono bambinate, son pregiudizi che bisogna lasciare alle
femminelle. Un uomo come sei tu, corpo del diavolo non dovrebbe manco
dirle tali cose... Dà retta. Giusto per passare un po' di tempo... E
dove si avrebbe da andare? Nevica, fa freddo, e battere il selciato
delle strade è un misero divertimento...
— Dovrei andare a casa: mormorò sommessamente il disgraziato.
— A casa? Rimbeccò il birbo compagno. Se non ne sei venuto via che
adesso! Vuoi piantarti colà, sempre cucito alle sottane di tua moglie?
Qui stiamo al caldo e senza seccature. Ci facciamo portare ancora una
_pinta_ da mastro Pelone... — Ehi? Avete udito compare? Un'altra _pinta_
di questo.
— Subito: disse Pelone alzandosi e movendo colla sua solita andatura
verso il banco, dove erano schierate parecchie bottiglie della misura
domandata.
— E ci date anche le carte: soggiunse Marcaccio.
— Va bene: rispose l'oste.
— No, no: disse Andrea, ma con una riluttanza debole e rimessa: non
voglio giuocare.
— Lascia un po'. Giuocheremo una cosa da nulla, tanto per passare il
tempo... Tu oggi mi hai tutta l'aria di essere in vena di guadagno.
— Io? Non lo sono mai.
— Ebben vediamo.
L'oste, aiutato dal garzone, sbarazzò la tavola dei resti della loro
colazione, stese su di essa uno sporco tappeto e depose al capo del
desco verso la parete il fiasco, in mezzo un mazzo di carte unte e
bisunte come il tappeto.
Cominciarono a giuocare di poco, e le carte non per l'opera della
fortuna, ma per l'abilità di Marcaccio furono favorevolissime ad Andrea.
La _pinta_ intanto veniva consumandosi, e l'ebbrezza, aumentando nel
marito di Paolina, ne riscaldava vieppiù la suscitata passione del
giuoco. Si accrebbero le poste, e Marcaccio, simulando il rabbioso ed il
disperato, aveva già perso cotanto che s'era proprio raddoppiato il
peculio del suo avversario. Ma ad un punto, ecco che la fortuna comincia
a girare. Qualche piccola perdita s'avvicenda ai successi di Andrea: le
perdite spesseggiano e le vincite diminuiscono; poi queste cessano del
tutto. La vicenda è perfettamente scambiata. Marcaccio guadagna ogni
giuocata e Andrea le perde tutte; tanto bene che dopo due ore egli si
trova senza nemmeno più un quattrino nelle tasche.
A questo punto, quando con una fiera bestemmia egli inveiva contro
Marcaccio che l'aveva ridotto a tale, entrò opportuno Graffigna che
aveva visto la moglie e i figli d'Andrea cacciati nella strada alla neve
che cadeva, al gelo che assiderava.
Graffigna non conosceva di persona il marito di Paolina, come non n'era
conosciuto; ma dietro le informazioni di Marcaccio, avendo egli commesso
a quest'ultimo che quella stessa mattina cercasse di vincere le
ripugnanze del fabbro ferraio, non dubitò punto che il compagno di
Marcaccio non fosse l'uomo in quistione. Andò egli a sedere al tavolino
più prossimo a quello occupato dai due giuocatori, e contentatosi di
fare un saluto indifferente al compagno di Andrea, disse all'oste:
— Compare Pelone, portatemi un _quartino_ di buona barbèra, che mi
rimetta un po' lo stomaco. Ho assistito adess'adesso venendo qui ad un
fatto che mi ha stretto il cuore e rovesciata l'anima.
— Che fatto? Domandò Marcaccio.
Graffigna raccontò semplicemente ciò che aveva visto nella casa di
Nariccia.
Andrea sorse di scatto, tremante tutte le membra, gli occhi che
schizzavan fuoco.
— Nella casa di Nariccia! Esclamò egli con un ruggito. Una donna malata!
Quattro bambini!... E non sapete voi il loro nome?...
— Non so bene: rispose tutto pacato Graffigna. Ho sentito dire che il
padre di quei poveretti era un fabbro ferraio, un certo Andrea....
Questi urlò una tremenda maledizione.
— Mia moglie!... I miei figli!...
Il colpo fu tanto forte che cadde sulla panca quasi esanime. Marcaccio
gli fu intorno con un bicchiere di vino per riconfortarlo.
— Lasciami, lasciami: disse il povero ebbro allontanando da sè il
bicchiere. Oh! lo scellerato; oh! l'infame. I miei figli, la mia donna
malata, egli ha avuto cuore.... Ma l'ucciderò quell'uomo, sì l'ucciderò
quel mostro, con queste mani....
— No, no, non dir codesto: susurrava Marcaccio con falsa pietà.
— Sì, sì, urlava più forte il disgraziato. Voglio vendicarmi. Oh credi
tu che non mi abbia da vendicare?
— Sì, certo; e voglio anzi aiutarti nell'impresa.
Graffigna venne a ficcare in mezzo il suo muso appuntato da faina.
— Questo è un amico, innanzi a cui possiamo discorrere: soggiunse
Marcaccio per rassicurare Andrea, il quale nella passione dell'animo in
cui era, non pensava nemmanco a diffidar di nessuno. — Or bene, ti dico
che ci abbiamo un modo assai più acconcio di vendicarti di quel birbante
che ti assassina la famiglia.
— Che modo?
— Entrargli in casa e portargli via tutti i suoi tesori.
Andrea parve riflettere un momento; si passò due o tre volte la destra
sulla fronte, poi proruppe con impeto:
— Ebben sì... Sono il vostro uomo... Voi avete le impronte di cera delle
serrature?
— Le abbiamo: disse sollecito e piano Graffigna colla sua voce sottile.
— Avete un luogo dov'io potrei lavorare?
— Un luogo segretissimo; rispose ancora Graffigna, dove v'introdurremo
cogli occhi bendati.
— Io vi farò le chiavi... E le adopreremo?
— Fra pochi giorni.
— Va bene... Ei l'ha voluto!... Ora lasciatemi correre da mia moglie e
dai figli miei.
— Un generoso signore che io conosco — disse Graffigna — ha fatto
ricoverar la donna all'ospedale e i bambini all'asilo.... Marcaccio, tu
accompagna il nostro buon Andrea, e quando avrà visto moglie e figli,
conducilo ove tu sai per la bottega di _Baciccia_. Io sarò là ad
aspettarvi.
Andrea, penetrato nell'ospedale, trovò la moglie in preda al delirio, la
quale perciò non potè riconoscerlo; trovò i bambini sbalorditi,
spaurati, piangenti. Quando raggiunse Marcaccio, che lo attendeva fuor
della porta dell'asilo, la fisionomia di Andrea era più cupa che mai; la
fiera risoluzione nell'animo suo era irrevocabile.
Quella stessa sera la _cocca_ possedeva un addetto di più ed aveva in
suo potere le chiavi che aprivano la porta d'ingresso e gli usci interni
del quartiere di Nariccia.
Fine della 2ª Parte
— Baje! Nariccia facendo lo strozzino ha pur lavorato; chi può dire
quella di lui una ricchezza onesta? Lavora anche colui che avventura la
vita e la libertà per iscassinare una porta e giunger là dove c'è quel
denaro che egli non può procurarsi, che a lui non danno ereditate
fortune. E il giuoco? È esso un lavoro? No, eppure se uno guadagna un
quaterno al lotto o si fa ricco mercè vincite alle carte, non ci si ha
da ridire.
Prese nelle sue tasche una manciata di monete e la pose sulla tavola.
— To': qui in mezzo a noi due io metto un mucchio di questi _rotondini_
che dànno a chi li possiede ogni ben di Dio: tu ne metti altrettanto: e
diciamo fra noi che prenderà il mucchio intiero quello che sarà favorito
dalla fortuna delle carte. Tu vinci; intaschi tutto, raddoppii il tuo
denaro, e se alcuno viene a dirti che quel denaro non è tuo onestamente,
tu gli dài il togliti di lì con un manrovescio che gli fa veder le
stelle; ed hai tutte le ragioni del mondo.
Andrea guardava con occhio che cominciava ad essere cupido le monete che
il suo compagno aveva poste sul desco e che si compiaceva di maneggiare
e di far suonare.
— Il giuoco: diceva egli frattanto con voce ed aspetto sempre più da
ebbro. Ah! il giuoco è un traditore anche lui. Vi lusinga, v'invita, vi
adesca... e poi ad un tratto, patatrach, vi atterra colle tasche
asciutte.
— Eh via! Tu lo calunnii. Uno dei giuocatori bisogna pur sempre che
guadagni... Perchè non avresti ad esser tu quel desso?
— Io no. Conviene essere fortunati; ed io non ho fortuna di sorta. Ho la
disgrazia che mi perseguita, come se fossi figliuolo della versiera.
— Codeste sono bambinate, son pregiudizi che bisogna lasciare alle
femminelle. Un uomo come sei tu, corpo del diavolo non dovrebbe manco
dirle tali cose... Dà retta. Giusto per passare un po' di tempo... E
dove si avrebbe da andare? Nevica, fa freddo, e battere il selciato
delle strade è un misero divertimento...
— Dovrei andare a casa: mormorò sommessamente il disgraziato.
— A casa? Rimbeccò il birbo compagno. Se non ne sei venuto via che
adesso! Vuoi piantarti colà, sempre cucito alle sottane di tua moglie?
Qui stiamo al caldo e senza seccature. Ci facciamo portare ancora una
_pinta_ da mastro Pelone... — Ehi? Avete udito compare? Un'altra _pinta_
di questo.
— Subito: disse Pelone alzandosi e movendo colla sua solita andatura
verso il banco, dove erano schierate parecchie bottiglie della misura
domandata.
— E ci date anche le carte: soggiunse Marcaccio.
— Va bene: rispose l'oste.
— No, no: disse Andrea, ma con una riluttanza debole e rimessa: non
voglio giuocare.
— Lascia un po'. Giuocheremo una cosa da nulla, tanto per passare il
tempo... Tu oggi mi hai tutta l'aria di essere in vena di guadagno.
— Io? Non lo sono mai.
— Ebben vediamo.
L'oste, aiutato dal garzone, sbarazzò la tavola dei resti della loro
colazione, stese su di essa uno sporco tappeto e depose al capo del
desco verso la parete il fiasco, in mezzo un mazzo di carte unte e
bisunte come il tappeto.
Cominciarono a giuocare di poco, e le carte non per l'opera della
fortuna, ma per l'abilità di Marcaccio furono favorevolissime ad Andrea.
La _pinta_ intanto veniva consumandosi, e l'ebbrezza, aumentando nel
marito di Paolina, ne riscaldava vieppiù la suscitata passione del
giuoco. Si accrebbero le poste, e Marcaccio, simulando il rabbioso ed il
disperato, aveva già perso cotanto che s'era proprio raddoppiato il
peculio del suo avversario. Ma ad un punto, ecco che la fortuna comincia
a girare. Qualche piccola perdita s'avvicenda ai successi di Andrea: le
perdite spesseggiano e le vincite diminuiscono; poi queste cessano del
tutto. La vicenda è perfettamente scambiata. Marcaccio guadagna ogni
giuocata e Andrea le perde tutte; tanto bene che dopo due ore egli si
trova senza nemmeno più un quattrino nelle tasche.
A questo punto, quando con una fiera bestemmia egli inveiva contro
Marcaccio che l'aveva ridotto a tale, entrò opportuno Graffigna che
aveva visto la moglie e i figli d'Andrea cacciati nella strada alla neve
che cadeva, al gelo che assiderava.
Graffigna non conosceva di persona il marito di Paolina, come non n'era
conosciuto; ma dietro le informazioni di Marcaccio, avendo egli commesso
a quest'ultimo che quella stessa mattina cercasse di vincere le
ripugnanze del fabbro ferraio, non dubitò punto che il compagno di
Marcaccio non fosse l'uomo in quistione. Andò egli a sedere al tavolino
più prossimo a quello occupato dai due giuocatori, e contentatosi di
fare un saluto indifferente al compagno di Andrea, disse all'oste:
— Compare Pelone, portatemi un _quartino_ di buona barbèra, che mi
rimetta un po' lo stomaco. Ho assistito adess'adesso venendo qui ad un
fatto che mi ha stretto il cuore e rovesciata l'anima.
— Che fatto? Domandò Marcaccio.
Graffigna raccontò semplicemente ciò che aveva visto nella casa di
Nariccia.
Andrea sorse di scatto, tremante tutte le membra, gli occhi che
schizzavan fuoco.
— Nella casa di Nariccia! Esclamò egli con un ruggito. Una donna malata!
Quattro bambini!... E non sapete voi il loro nome?...
— Non so bene: rispose tutto pacato Graffigna. Ho sentito dire che il
padre di quei poveretti era un fabbro ferraio, un certo Andrea....
Questi urlò una tremenda maledizione.
— Mia moglie!... I miei figli!...
Il colpo fu tanto forte che cadde sulla panca quasi esanime. Marcaccio
gli fu intorno con un bicchiere di vino per riconfortarlo.
— Lasciami, lasciami: disse il povero ebbro allontanando da sè il
bicchiere. Oh! lo scellerato; oh! l'infame. I miei figli, la mia donna
malata, egli ha avuto cuore.... Ma l'ucciderò quell'uomo, sì l'ucciderò
quel mostro, con queste mani....
— No, no, non dir codesto: susurrava Marcaccio con falsa pietà.
— Sì, sì, urlava più forte il disgraziato. Voglio vendicarmi. Oh credi
tu che non mi abbia da vendicare?
— Sì, certo; e voglio anzi aiutarti nell'impresa.
Graffigna venne a ficcare in mezzo il suo muso appuntato da faina.
— Questo è un amico, innanzi a cui possiamo discorrere: soggiunse
Marcaccio per rassicurare Andrea, il quale nella passione dell'animo in
cui era, non pensava nemmanco a diffidar di nessuno. — Or bene, ti dico
che ci abbiamo un modo assai più acconcio di vendicarti di quel birbante
che ti assassina la famiglia.
— Che modo?
— Entrargli in casa e portargli via tutti i suoi tesori.
Andrea parve riflettere un momento; si passò due o tre volte la destra
sulla fronte, poi proruppe con impeto:
— Ebben sì... Sono il vostro uomo... Voi avete le impronte di cera delle
serrature?
— Le abbiamo: disse sollecito e piano Graffigna colla sua voce sottile.
— Avete un luogo dov'io potrei lavorare?
— Un luogo segretissimo; rispose ancora Graffigna, dove v'introdurremo
cogli occhi bendati.
— Io vi farò le chiavi... E le adopreremo?
— Fra pochi giorni.
— Va bene... Ei l'ha voluto!... Ora lasciatemi correre da mia moglie e
dai figli miei.
— Un generoso signore che io conosco — disse Graffigna — ha fatto
ricoverar la donna all'ospedale e i bambini all'asilo.... Marcaccio, tu
accompagna il nostro buon Andrea, e quando avrà visto moglie e figli,
conducilo ove tu sai per la bottega di _Baciccia_. Io sarò là ad
aspettarvi.
Andrea, penetrato nell'ospedale, trovò la moglie in preda al delirio, la
quale perciò non potè riconoscerlo; trovò i bambini sbalorditi,
spaurati, piangenti. Quando raggiunse Marcaccio, che lo attendeva fuor
della porta dell'asilo, la fisionomia di Andrea era più cupa che mai; la
fiera risoluzione nell'animo suo era irrevocabile.
Quella stessa sera la _cocca_ possedeva un addetto di più ed aveva in
suo potere le chiavi che aprivano la porta d'ingresso e gli usci interni
del quartiere di Nariccia.
Fine della 2ª Parte
- Parts
- La plebe, parte II - 01
- La plebe, parte II - 02
- La plebe, parte II - 03
- La plebe, parte II - 04
- La plebe, parte II - 05
- La plebe, parte II - 06
- La plebe, parte II - 07
- La plebe, parte II - 08
- La plebe, parte II - 09
- La plebe, parte II - 10
- La plebe, parte II - 11
- La plebe, parte II - 12
- La plebe, parte II - 13
- La plebe, parte II - 14
- La plebe, parte II - 15
- La plebe, parte II - 16
- La plebe, parte II - 17
- La plebe, parte II - 18
- La plebe, parte II - 19
- La plebe, parte II - 20
- La plebe, parte II - 21
- La plebe, parte II - 22
- La plebe, parte II - 23
- La plebe, parte II - 24
- La plebe, parte II - 25
- La plebe, parte II - 26
- La plebe, parte II - 27
- La plebe, parte II - 28
- La plebe, parte II - 29
- La plebe, parte II - 30
- La plebe, parte II - 31
- La plebe, parte II - 32
- La plebe, parte II - 33
- La plebe, parte II - 34