La plebe, parte II - 17

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commissario Tofi mi fa venire innanzi a sè: ordine di S. E. di
abbandonare l'impresa o di assaggiare del pan muffato della prigione
colla bietta di concussionario. Bisogna curvare il capo e tacere.... E
si vuole che questa iniqua società, la quale ci fa una così bella sorte
si ami, se ne desideri il prosperare e se ne rispettino le leggi?[5]
[5] Credo superfluo notare che l'epoca di questo racconto è
antecedente alla così detta emancipazione degli ebrei, allora
quando l'ingiusto rigore delle disposizioni legislative s'univa
coi rancori popolari e coi pregiudizi religiosi a fare agli
israeliti una esistenza quasi in balìa dell'arbitrio
amministrativo e della prepotenza dei privati. Dopo il 1818 nel
nostro Piemonte, fatte giuste a tal riguardo le leggi,
scomparvero del tutto anche le ingiustizie e i pregiudizi del
volgo.
Il vecchio ebreo non aveva mai parlato cotanto, nè con tanto calore.
Quell'anima chiusa continuamente, alle parole di Gian-Luigi s'era aperta
un istante ed aveva lasciato sfuggire uno sprazzo di quel segreto livore
che vi sobbolliva costretto per entro.
— Tu hai ragione: disse a sua volta il _medichino_. Ed io pure odio
questa società e questo mondo che non mi volle fare quel luogo ch'io
sento di meritarmi; e di odiarli ci ho a mille doppi più ragione di te.
Te opprime l'assetto sociale; ma fra noi qual può esservi paragone? Te
la sorte medesima ha condannato. Sei nato in una razza maledetta, e la
natura ti ha fatto debole, ti ha impresso lo stampo degli umili per
imbrancarti nella schiera dei sottomessi. Ma io?.... Io mi sento della
razza dei leoni; e perchè una colpa o una sventura de' miei genitori mi
ha gettato in mezzo agli uomini senza nome e senza ricchezze, ho da
vedermi chiuso ogni accesso agli onori ed ai diletti del mondo? No, no
per Dio! Io ho nelle vene il sangue degli Erostrati. Il mondo non mi
vuol far luogo ed io mi apro la strada coll'incendio e colle rovine.
Erostrato si contentò di ardere un tempio per conquistare una dubbia
fama: io metterò sossopra tutto un paese, tutta una epoca per
conquistare autorità, ricchezza e gloria imperitura, sia pur anco
spaventosa ed orribile.
Jacob era tornato in tutta la umiltà del suo contegno ordinario.
— È vero, diss'egli più rimessamente che mai. Io sono un povero ebreo
che non è nulla e non potrebbe esser mai nulla; ma Lei!.... Oh da bravo!
Vinca ed abbatta questo tirannico assurdo sociale che s'impone colla
legge, colla Polizia, colla carcere e colla forca. Tutti i deboli la
applaudiranno. Avrà per sè tutti gli oppressi e tutte le vittime, che
sono il maggior numero.
— Or bene, dà retta a quel che ti dico, Jacob, così ripigliava a parlare
Gian-Luigi. Io sono alla vigilia d'ottenere il mio intento. Fra pochi dì
— forse — avrà principio e conclusione in lotta tremenda la vendetta dei
miserabili; lo straccione, il disprezzato, chi ha fame piglierà la sua
rivincita sui fortunati, sugli onorati, sui graduati del mondo. Sarà una
frana che si precipiterà irresistibile a tutto schiacciare e
sconvolgere. Ma perchè questa massa lentamente preparata e raccolta si
stacchi e rovini occorre una forza potente d'impulso. Questa forza è il
denaro. Mi bisogna una vistosa somma, per comporre la quale ho fatto
calcolo sopra ogni qualunque mezzo che sia all'arrivo della mia mano.
Tutti quelli onde può disporre la _cocca_, e parecchi altri che gli è
inutile il dire: fra questi tu ci entri per quelle cinquanta mila che ti
ho domandato.
L'ebreo si pose a far girare tra le mani il suo cappello frusto.
— La ringrazio molto del contrassegno di fiducia: diss'egli con ironia
appena se velata; ma per la grandezza dell'Eterno! cinquanta mila lire
non sono mica una bazzecola, e per averle e snocciolarle fuori ci vuol
altro che buona volontà... Io di certo do al suo progetto — che voglio
creder vero, serio e reale — tutta la mia simpatia.
Il _medichino_ lo interruppe con violenza:
— Insolente! Avresti l'audacia di non credere alle mie parole?
— Non ho quest'audacia. Dico appunto che ci credo per l'affatto. Se non
si trattasse di Lei si potrebbe aver bensì il sospetto che ciò fosse un
pretesto affine di raccogliere nella propria mano un considerevole
capitale con cui partirsene quatto quatto per andarselo a godere in
santa pace lontano, abbandonando per sempre una vita piena di agitazione
ed un'impresa piena di rischi.
Il _medichino_ arrossì per l'ira che gli fece lampeggiare tremendamente
lo sguardo e corrugare la fronte.
— Miserabile! Esclamò egli. Tu mi credi capace?...
— No, no: si affrettò a gridare l'ebreo, tirandosi in là di alcuni
passi. Ella non farebbe mai una cosa simile... E poi la _cocca_ ha le
braccia lunghe e raggiungerebbe un traditore anche in capo al mondo. Le
muraglie dell'elegante casino di vossignoria qui presso, se potessero
parlare, le conterebbero una storia che può essere d'ammonimento a
chicchessia.
— È inutile che me la contino, disse Gian-Luigi tornato in una calma
disdegnosa; poichè la so. Il capo di allora della _cocca_ fuggì coi
fondi della società, ed alfine di mettersi al riparo da ogni vendetta
denunziò alla Polizia i principali autori di parecchi delitti, che erano
gl'individui da cui egli soltanto poteva temere la sua punizione. Furono
presi tutti, e la _cocca_ per allora rimase dispersa. Due salirono sul
patibolo, gli altri furono condannati alla galera in vita. Il traditore
pareva dover essere sicuro, e talmente si credette tale che commise
l'imprudenza di venire dopo molti e molti anni ad abitare, sotto altro
nome è vero, quella medesima casetta che come capo della _cocca_ aveva
avuto in suo possesso. Chi pareva ancora ricordarsi di lui? Viveva solo,
chiuso in casa, senza relazioni nessuna col mondo. Or bene, una sera ci
vide aprirsi l'usciolo nascosto che metteva nel passaggio segreto, il
quale allora non comunicava punto colle botteghe che tengono attualmente
Baciccia e Pelone, ma si fermava al pozzo cieco del cortile; ed ecco
entrargli in casa Marullo, che era fuggito dalla galera a cui era
condannato per la vita. Due giorni dopo il vecchio scellerato fu trovato
morto.
— Sì, questa è la storia testuale. Marullo fu quegli che di poi riordinò
la _cocca_, la quale ora è in così florida condizione sotto la savia
direzione di Vossignoria.
— Ma lasciamo questi discorsi: disse Gian-Luigi e torniamo a quelle
cinquanta mila lire che tu mi devi dare ad ogni modo. Tu hai fatto
troppi guadagni sulla _cocca_, perchè ora che questa ha bisogno del tuo
concorso, tu vi ti rifiuti.
— Un concorso di cinquanta mila lire!....
— Che te ne renderanno centomila.
— Oh oh! Esclamò Jacob sollevando la testa. Come mai?
— Non è un dono che ti domando, è un imprestito. Quando avremo vinto te
ne rimborserai da te stesso nella divisione della torta.
— E se non vinciamo?
— Ti compenseremo sui guadagni delle future operazioni della _cocca_.
L'ebreo scosse la testa.
— Se avviene uno scoppio simile e il Governo ci schiaccia, la _cocca_ è
bella e spacciata per un pezzo... Senta, signor Quercia: ci sarebbe
forse un mezzo di aggiustar tutto... Ella è troppo ragionevole per voler
rovinare un povero padre di famiglia esponendolo al rischio di perdere
così da un momento all'altro una somma di tanto riguardo...
— Sentiamo questo mezzo: interruppe ruvidamente il _medichino_.
— Mi faccia un _pagherò_ a mio ordine per cinquantadue mila lire...
— Subito: disse Gian-Luigi.
— Ma, soggiunse Jacob col tono d'un pezzente che domanda l'elemosina,
vorrei colla sua un'altra firma.
Quercia si riscosse.
— Qual firma? Domandò egli aggrottando le sopracciglia.
E l'ebreo con voce più umile e sottomessa che mai:
— Quella della contessa di Staffarda...
Non aggiunse più sillaba, impaurito dallo sguardo e dall'espressione del
volto di Gian-Luigi.
Questi però si tacque per un poco; incrociò le braccia al petto e parve
meditare profondamente.
— L'avrai: diss'egli dopo alcuni minuti.
Un quarto d'ora più tardi, Jacob, uscito dalla bettola di Pelone,
rientrava a casa sua; e Gian-Luigi, venuto fuori per la casina del
viale, s'affrettava verso il palazzo Langosco. Seguitiamo per ora il
vecchio israelita nel suo quartiere entro la parte più sporca del lurido
ghetto, e colà conosceremo la bella Ester, di cui il biglietto scritto a
Gian-Luigi già ci apprese la colpa e la sventura.


CAPITOLO XV.

Jacob Arom camminava più lesto che potesse coi suoi passetti corti,
facendosi riparare la neve che continuava a cadere dalla sua ombrella di
cotone che non aveva più nissun colore. Una maligna gioia raggiava dal
suo sguardo, e la preoccupazione del suo animo era tanta ch'egli
dimenticava di mandare per le strade il solito grido di _nen da vend_.
Giunto a quel grande agglomerato di case che forma il _ghetto_, penetrò
nel più interno cortile, dove l'apparenza della maggior miseria si univa
colla realtà della massima sporcizia a ferire la vista, l'odorato ed
anche l'animo di qualunque estraneo vi si intromettesse. Era un quadrato
di muraglie che conteneva un immondezzaio: spazzature, ossa rosicchiate,
avanzi di erbaggi marci, gusci d'uova, torsoli e cocci rotti. La neve
pareva disdegnare di coprire col suo mantello bianco tanto sudiciume, e
fondendosi lo accresceva colla melma del terreno nemmanco selciato. Su
questo marciume s'aprivano a pian terreno parecchie porticine con
imposte d'usci forti, grosse e chiovate di ferro, e ai piani superiori
alcune finestre difese da robuste inferriate a inginocchiatoio. Non si
vedeva anima viva colà dentro; nissun naso d'inquilino compariva fra le
barre di quelle inferriate, nissun occhio curioso di donna brillava in
mezzo alle tendoline affumicate e impolverate delle varie finestre
dietro i cristalli poco meno che opachi per la lunga mancanza di
lavatura. Avreste detto quel luogo affatto deserto, se non ci avessero
suonato gli strilli di qualche bambino piangente e il miagolare di
qualche gatto affamato.
Il nostro vecchio ebreo andò ad una di quelle porticine che ho detto, la
quale introduceva a casa sua, e ci picchiò dentro col pugno. Egli non
usava mai portar seco la chiave di casa, perchè poteva esservi il
pericolo di perderla o che gli venisse sottratta. Dopo un poco s'apri un
finestruolo al di sopra della porta e vi comparve la faccia d'una
vecchia degna d'esser compagna alla faccia di Jacob, degna di trovarsi
in mezzo a quel lurido luogo.
— Chi è? Domandò la vecchia con voce tremolante e nasale.
Jacob tirò giù l'ombrella e levò in alto il suo becco da uccello di
rapina.
— Apri. Debora, sono io.
— Vengo subito: rispose la vecchia ritraendosi dal finestrino e
richiudendo l'invetrata.
Questo subito, però, si protrasse oltre a cinque minuti, così che il
padrone di casa, impaziente, tornò a rinnovare la sua picchiata
nell'uscio.
— Eccomi, eccomi: disse la vecchia Debora facendo scorrere i catenacci e
stridere la serratura che assicuravano le imposte e mostrando finalmente
il suo volto scarno fra i battenti, aperti tanto appena che una persona
potesse passare.
Jacob entrò e dietro di sè richiuse egli stesso accuratamente la porta.
Entrando, uno si trovava in una stanza abbastanza vasta ma bassa di
soffitto, la quale era tutta ingombra dei vari e molteplici oggetti che
formavano materia dell'indefinibile commercio del vecchio ebreo. A
destra una botola nel pavimento, aprendosi metteva in una scala che
s'affondava sotto terra; a sinistra una scala a chiocciola saliva alla
stanza superiore; in fondo una finestra con forte inferriata ancor essa,
per una tenda color di polvere tirata davanti lasciava penetrare una
luce grigiastra; in un angolo certi panni frusti composti di varie
stoffe cucite insieme, rappezzati a mille colori, tesi sopra una corda
per far da cortina, riparavano dietro sè lo strammazzo che serviva da
letto alla Debora. Regnava colà dentro un'afa di rinchiuso e di stantìo
che vi pigliava alla gola, congiunta in questo momento all'odore
particolare mandato dai cavoli cuocendo, odore che emanava da un
pentolino che si sentiva bollire e si vedeva fumare traverso il
coperchio sopra un fornello portatile che faceva brillare modestamente i
pochi suoi carboni accesi quasi in mezzo la stanza.
Ma chi fosse entrato dietro i passi di Jacob, avrebb'egli potuto
prestare attenzione ai miseri particolari che ho appena accennato,
mentre avrebbe visto di mezzo ad un viluppo di panni intorno a cui stava
cucendo, non lungi dal fornello, levarsi una giovane figura di donna
splendidamente bella, più che umana parola possa dire?
Era Ester, la quale venne incontro a suo padre con un sorriso un po'
forzato sulle sue labbra di corallo, e pose sotto le vizze labbra di lui
la sua candida fronte di così elegante e nobile forma che nulla più.
Ella aveva tutte le bellezze — e le bellezze soltanto — dell'originale
tipo giudaico. La sua svelta e graziosa persona il poeta l'avrebbe
potuta giustamente paragonare al tronco d'una giovane palma. L'occhio
nero possedeva tutta la gamma, per così dire, delle espressioni che può
avere un occhio umano, dallo sguardo carezzevole, vellutato, soave,
ardente d'amore, al baleno dell'odio. Il naso leggermente arcuato dava a
quella dolce fisionomia un carattere di forza e palpitava nelle nari
all'influsso della passione. I denti candidissimi erano fatti per
illuminare il sorriso e parevano acconci eziandio a mordere e dilaniare.
Da tutto quel capolavoro di forme leggiadre raggiava una gioventù
potente nell'efflorescenza del suo sviluppo, benchè ora apparisse che la
mestizia vi aveva gettato sopra un suo velo.
Jacob l'abbracciò con affetto di padre, e la guardò coll'ammirazione
dell'avaro pel suo tesoro.
— Tu sei pallida, Ester. Che cos'hai?
Bastarono queste poche parole di suo padre perchè la giovane arrossisse
fino alla radice dei capelli.
Debora intervenne.
— La sta sempre chiusa qui dentro fra queste quattro muraglie,
diss'ella; vi pare, padrone, che ci si possa pigliare i bei colori?
Il vecchio fece una brutta smorfia che mostrava quanto queste parole gli
spiacessero.
— Uhm! Uhm! Diss'egli bofonchiando. La sta rinchiusa! Per la pietra di
Oreb, dove la avrebbe da andare? Questa è casa sua; e non c'è altro
luogo da starci una ragazza. La faccia di mia figlia, della mia Ester,
del gioiello della mia vecchiaia, l'occhio del mondo non l'ha manco da
vedere..... Certe cose non le dovresti dire tu, Debora, che sei vecchia
e la gente la dovresti conoscere. Sai quanto il mondo è cattivo, e sai
che cosa sono i cristiani. Giusto, e' si vorrebbe che qualche sciagurato
di quell'empia razza tendesse le reti a questa mia colomba. Pel Dio
d'Abramo, piuttosto vorrei!.... La figliuola d'un ebreo? Che sì che ci
metterebbero dei riguardi a rapirmela! Sarebbe una festa per essi; e il
povero padre non potrebbe nemmanco ottenere giustizia, nè procurarsi
vendetta.
Debora non aggiunse parola; Ester tornò a sedersi in mezzo al viluppo
dei panni e, chinato il capo, sembrò tutta intenta al suo lavoro che
riprese con mano sollecita ma un pochino tremante; Jacob allargò di
nuovo l'ombrella e la depose spiegata sul pavimento presso al fornello
perchè vi si rasciugasse, gettò sopra un cassone gli abiti frusti che
aveva sulla spalla, vi mise su il suo cappello, e poi riappiccando il
discorso, domandò alla serva con accento che aveva un'ombra di sospetto:
— Perchè hai tu tardato cotanto a venirmi ad aprire? Visto ch'ero io,
non c'era più da indugiarsi.
E il suo occhio intanto scorreva tutta la stanza intorno come per vedere
se ci fosse qualche cosa di nuovo che gli svelasse la causa del ritardo.
Debora rispose:
— Eh! non mi sono indugiata per nulla, ma colle mie gambe di quasi
settant'anni, capite anche voi che non si può volare... E poi la
marmitta bolliva di troppo e mi sono fermata un momento a gettare un po'
di cenere sulla bragia.
Jacob non disse più nulla. Si accostò al fornello ancor egli e tese al
disopra del coperchio della marmitta le sue mani scarne, annerite e
tremanti, per iscaldarsele. La sua preoccupazione lo aveva ripreso, e
quella certa gioia maligna che ho detto tornava a scintillare ne' suoi
occhietti infossati. Dopo un poco egli si levò di lì, e fregandosi le
mani salì per la scala a chiocciola al piano superiore. Le due donne si
guardarono con aria di segreta intelligenza e mandarono un sospiro di
sollievo.
La risposta che Debora aveva fatta al padrone intorno al suo ritardo ad
aprire conteneva tutt'altro che la verità. Il picchiare di Jacob aveva
interrotto un interessante colloquio fra le due donne, il quale
s'aggirava sulle condizioni, sui timori, sull'avvenire della povera
Ester. Questa non confidava più, non isperava più che in Luigi. Ch'egli
la facesse fuggir seco, ch'egli la trafugasse, purchè la togliesse
all'ira ed alla vendetta del padre, che sarebbero state tremendissime
quando avesse scoperto il vero, ella si sarebbe rassegnata a tutto. Ma
da tanti giorni il suo seduttore non si lasciava più vedere; ed ora
sarebb'egli venuto all'appello fattogli pervenire per mezzo di
Graffigna? Senza essere in chiaro di tutta la verità, Ester era
abbastanza addentro nei segreti di suo padre per sapere come Luigi fosse
a capo d'una schiera, tra i più fidati della quale era Graffigna, non
dubitava punto per ciò che la sua lettera sarebbe giunta nelle mani del
suo amante, e con ansia si domandava s'egli l'amasse ancora cotanto da
mettere innanzi ad ogni altra bisogna questa che riguardava la sorte di
lei. Un tristo presentimento la faceva pur troppo proclive più al timore
che alla speranza; e Debora, cui le larghezze di Gian-Luigi e le
preghiere di Ester avevano fatta complice ed aiutrice del loro intrigo,
tradendo così la fiducia del vecchio Jacob, Debora si sforzava di
rassicurare alquanto l'animo abbattuto della giovinetta che s'era
abbandonata ad uno sfogo di pianto.
I colpi battuti all'uscio le avevano fatte sussultare ambedue. Quella
non era l'ora in cui solesse tornare a casa il padre. Un raggio di
speranza balenò negli occhi pregni di pianto di Ester.
— Ch'e' sia lui! Esclamò ella gittando via i panni che teneva sulle
ginocchia e levandosi per correre alla porta.
Ma Debora la trattenne.
— Può essere benissimo il signor Quercia: disse la vecchia; ma non
conviene aprire senza prima vedere chi è, e tanto meno conviene che
siate voi ad aprire. Sapete quanto sieno formali e rigorosi gli ordini
del padrone a questo riguardo... Lasciate ch'io vada di sopra a guardare
dalla finestra.
— Fa presto, fa presto, Debora: disse con accento di preghiera la
giovane, e si appoggiò palpitante alla sbarra della scala ad aspettare,
mentre la vecchia, quanto poteva più sollecita, saliva al piano
superiore.
L'attesa della povera Ester non fu lunga. Udì fuor della porta la voce
di suo padre e tosto dopo Debora, affrettandosi giù della scala,
dicevale sommesso:
— Vedete se non la facevate grossa ad aprire voi stessa la porta! Qui
bisogna tornare a vostro posto e star lì come se di nulla fosse stato...
E bisogna rasciugare ben bene quegli occhi perchè non si possa vedere
che avete pianto.... Il padrone è malizioso come l'angelo delle tenebre;
e se mai pel menomo giunto s'insinua in lui la menoma ombra di sospetto,
noi siamo belle e fritte.
Fece seder di nuovo la giovane dove si trovava prima, le raggiustò
intorno i panni a cui doveva figurare d'aver lavorato pacificamente sino
allora, le rasciugò ella stessa con molta cura gli occhi e fattole
ancora alcune raccomandazioni in proposito, andò poi ad aprire come
vedemmo.
Quella che possedeva il vecchio israelita era proprio una lieta
preoccupazione. Quando egli fu solo nella sua camera al piano superiore,
gli occhietti gli brillarono ancora più vivamente, più spiccato gli si
fece il sorriso sulle labbra avvizzite, ed e' si diede con più forza a
soffregar l'una contro l'altra le sue mani macilente.
Lo stanzone che corrispondeva a quello del piano terreno era diviso in
due per un trammezzo; la prima metà, quella in cui immetteva il capo
della scala a chiocciola, era la stanza del padre; la seconda metà, a
cui non si poteva accedere che passando per quella del vecchio, era la
camera di Ester. In quest'ultimo locale Jacob teneva eziandio una specie
di grosso armadio di legno di noce, il quale nel suo interno albergava e
nascondeva una cassa di ferro. Colà dentro giaceva una parte di quei
tanti denari cui l'universale, questo mostro a mille teste e mille
lingue il quale sa tutto e indovina tutto, diceva dal vecchio ebreo
raccolti, rammontati e posseduti. L'altra parte la più considerevole,
era sotterrata in cantina.
In quella seconda camera, e lo diceva egli stesso alla figliuola, e'
teneva i suoi due tesori: l'oro che trafficava coll'usura e la sua
Ester. La notte, egli ne chiudeva la porta, poi tirava innanzi a questa
il suo giaciglio e vi si coricava, così che non altrimenti sarebbesi
potuto penetrare in quella seconda stanza se non passando sul corpo del
vecchio.
Jacob passeggiò un istante per la sua camera, poi aprì l'uscio di quella
di sua figlia e stando in sulla soglia guardò amorosamente il grosso
armadio. Le più strane idee parevano passare per la sua mente, poichè le
più originali espressioni, riflesso delle medesime, si avvicendavano su
quella faccia caratteristica. Avvicinatosi alla botola, si chinò giù
verso la stanza di sotto e gridò alla vecchia serva:
— Debora, se mai viene qualcheduno a picchiare non ti muovere: guarderò
io chi sia.
E chiuse accuratamente la botola. Poi si guardò dintorno come per timore
che tuttavia fossevi alcuno sguardo che lo potesse vedere; aggiustò le
sporche cortine alle finestre, prima della sua, poi della camera di
Ester, affine di ripararsi di meglio da ogni occhio profano, e camminò
sollecito verso lo spento focolare del camino che si vedeva da infinito
tempo non aver avuto attinenza più nè con le bragie, nè con la fiamma;
mise la mano su della cappa e tastando vi trovò nella muraglia
un'apertura entro cui prese quattro chiavi legate insieme da uno spago.
Andò con esse all'armadio e colla più piccola ne aprì lo spesso
battente, di dentro fasciato di ferro; le tre altre aprirono la cassa di
ferro le cui serrature non cedevano che a chi ne conoscesse il segreto.
La cassa dividevasi in quattro scompartimenti: uno conteneva le monete
d'oro, l'altro quelle d'argento, il terzo gli spiccioli di rame ed
erosomisti, il quarto era occupato da carte di valore e da oggetti
preziosi. Quando quegli scompartimenti, che pure erano capacissimi, si
trovavano ingombri di troppo, Jacob allontanava di casa Debora con un
pretesto qualunque, ed aiutato da Ester portava una buona parte di quei
valori a congiungersi cogli altri che li avevano preceduti in cantina.
Egli aprì dunque la cassa e stette un momento a contemplare con occhio
soddisfatto la vista per lui gradevolissima di tutti quei sacchetti bene
ordinati, ben legati, colla sua scritterella ciascuno. Trasse dal fondo
delle lunghe tasche dei suoi calzoni una borsa di pelle sudicia da fare
schifo e ne versò il contenuto sopra un tavolino da lavoro lì presso.
Era il guadagno che gli avevano fruttato certe ultime operazioni fatte
in società col bettoliere Pelone, col quale quella mattina avevano
aggiustati i conti. Tre napoleoni d'oro luccicavano in mezzo ad una
dozzina di scudi d'argento. Arom pose da una parte le monete d'oro,
dall'altra gli scudi; poi dalle tasche del suo panciotto trasse una
manciata di soldini e soldoni e di monete erosomiste da 40 e da 20
centesimi, quelle che da poco tempo soltanto furono tolte dal pubblico
mercato. Separò le une dalle altre monete, le contò tutte, fece
mentalmente i suoi calcoli, e parve più contento di prima.
— Sia ringraziato l'Eterno! Diss'egli. La sua mano benedice il mio
traffico e non mai volsero così prospere le mie cose.
Diede un'occhiata all'ammasso di sacchetti che riempiva la cassa, e se
li mostrò a sè stesso con un gesto di compiacenza.
— Ecco lì! C'è tanto denaro da comprare la coscienza e l'onore di
migliaia e di migliaia di cristiani; ce n'è tanto da farmi strisciare
dinanzi il più superbo di essi. Certo che sì. Dov'io dicessi: adoratemi
e quelle ricchezze sono vostre, quale di quei codardi arroganti si
rimarrebbe dal gettarsi in ginocchio ai piedi del vecchio ebreo che
disprezzano?.... Ma io li disprezzo tutti più che essi non facciano di
me. Non darei un centesimo per avere la loro stima, razza di vipere. Il
debole e schernito giudeo ha quanto basta da pagare financo la bellezza
delle loro donne; in questa umiltà, in questa vergogna, c'è una
ricchezza a cui agognano invano; molti di loro io tengo afferrati nel
mio artiglio, e li scuoto, e li torturo a mio talento; e ciò mi basta!
Mandò uno di quei suoi rifiati che trammezzavano fra il sospiro ed il
gemito, e stette un poco immobile a capo chino, come se assaporasse fra
sè la dolcezza delle idee che aveva rideste colle pronunciate parole.
— Gustoso in vero è il piacere della vendetta: riprese egli dopo un
istante. Io me lo regalo a piccoli sorsi; e i figliuoli di famiglia
scapestrati, e i padri giuocatori o libertini, e i ladri della cocca,
sono quelli che me lo forniscono. Meglio certo se potessi inebriarmi in
una compiuta rovina dei nemici della mia razza. Il _medichino_ me lo
promette; ma mi promette una cosa impossibile. E poi, vincessero ben
anco i miserabili, sono ancor essi cristiani!.... Ciò nulla meno lo
aiuterò molto volentieri. Sarà pur sempre tanto di male arrecato a
quella gente..... e il rimborso dei miei denari (soggiunse con un
sogghigno pieno di malizia) mi sarà assicurato dalla firma della
contessa di Staffarda.
— Ah ah quel _medichino_ (continuava egli con una certa ammirazione) è
davvero un essere meraviglioso, ed io lo aveva fin dalle prime giudicato
a dovere. Che audacia di concepimenti! che prepotenza di volontà! che
coraggio di propositi! Ha una impudente ambizione ed un arrogante
orgoglio come non vidi mai gli uguali. Di certo egli finirà per
soccombere; ma meriterebbe trionfare. In lui riconosco una vera
grandezza, una vera superiorità che me ne impone... Ah! s'egli fosse
nato di stirpe giudea!... Se in beneficio del riscatto del popolo
d'Israele egli quindi mettesse le potenti qualità del suo animo e del
suo ingegno, come lo obbedirei, come lo amerei! Lo amerei come un
figlio, l'obbedirei come l'atteso Messia del sangue di David.
Si coprì colle scarne mani la faccia e stette un istante pensoso; poi si
riscosse e passandosi la destra sulla fronte bassa ma quadrata, disse a
se stesso quasi rampognando:
— Eh via! Che cosa ti perdi, Jacob, in sogni di vaneggiamenti
impossibili? Pensa intanto ai casi tuoi.
Prese dall'interno della cassa un sacchetto non ancora pieno del tutto
di quelli che contenevano l'oro, e ci pose dentro i tre napoleoni; in un
altro, non colmo del pari, dello scompartimento dell'argento, serrò gli
scudi; le monete erosomiste per la metà del valore che si trovava sulla
tavola, ripose in un sacco uguale, di quelli destinati agli spiccioli,
l'altra metà mise in una tasca di cuoio che andò a prendere in uno stipo
che aveva nella sua stanza, nella qual tasca fece affondarsi anche i
soldi e soldoni.
— Ora conviene scrivere tosto questi guadagni nella partita dell'avere,
soggiunse Jacob, e sulla polizzina dei sacchetti la nuova cifra del
contenuto. Chiamerò Ester... Ah perchè non so scrivere io!... A me non
occorrerebbe in verità nemmanco lo averle scritte sulla carta quelle
cifre: le ho stampate tutte una per una qui (e si batteva le
protuberanze della fronte); ma gli è per mia figlia. Se io mancassi,
voglio ch'ella abbia presente in ogni suo particolare tutta la ricchezza
ch'io le lascio.... sì una vera ricchezza.... colle istruzioni intorno
al modo di usarne che le ho fatte scrivere da lei medesima. Se io
mancassi?... Ah! il Dio d'Abramo tenga lontana cotanta sciagura!... No,
no, non mancherò sul migliore delle mie fortune.
Prese nella cassa di ferro medesima due libri e ne scartabellò i fogli
gremiti di cifre schierate in colonna.
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