La plebe, parte II - 09

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E girò sui suoi talloni per avviarsi alla porta da cui era entrato.
— Un momento, un momento: gridò il conte levandosi a sedere sul letto,
appoggiato al gomito. Diavolo! Come voi ci andate di gamba lesta. Corpo
d'uno squadrone! Innanzi a S. M. sono io che porto la responsabilità di
tutto.
La risposta di Tofi gli aveva richiamato alla mente le rampogne fattegli
dal pallido, severo labbro di Carlo Alberto per alcune maggiori
prepotenze commesse da ultimo dalla Polizia, gli avevano ricordato che
ancora il giorno prima il Re, fermandosi innanzi a lui a favorirlo di
quella mezza dozzina di parole che soleva regalare ad ogni convitato,
facendo il giro della sala dopo il pranzo, avevagli detto:
— E la sua Polizia, conte Barranchi?
— Cammina alla perfezione: aveva risposto il generale inchinandosi.
— Va bene: aveva soggiunto il Re. Spero che non sentirò più richiami di
sorta per eccessi che ella commetta. Bisogna essere vigilanti, severi,
ma nei limiti delle leggi e senza violare i diritti dei cittadini. Si
ricordi, conte, che è mia intenzione precisa che la Polizia nei miei
Stati cessi d'essere un arbitrio e diventi sempre più una magistratura.
Il generale non aveva saputo far altra risposta che inchinarsi di nuovo
ed il Re era passato.
Che cosa precisamente significassero le parole di Carlo Alberto, lo
spirito poco arguto del conte Barranchi non lo capiva ben bene. La
Polizia una magistratura? Egli non vedeva nessun'attinenza fra queste
due cose La Polizia e la sciabola, meno male! Ma il Re da qualche tempo
si piaceva a tirar fuori di queste frasi; e il marchese di Villamarina,
ministro della guerra, da cui Barranchi dipendeva direttamente, sembrava
d'accordo col Re. Ragione di più per acconciarsi a quelle intenzioni,
che in fin dei conti erano di mettere la sordina allo zelo degli agenti.
Ma il Re aveva pur detto che bisognava essere severi e vigilanti. Fin
dove andava la vigilanza e la severità che piacevano al Re, senza cadere
in quell'arbitrio ch'ei non voleva più tollerare? La quistione era
troppo seria e complicata per i mezzi intellettuali del fiero comandante
della Polizia; e questa aggrovigliata quistione gli avevano riposta
innanzi in tutta la sua gravità le ultime parole del commissario Tofi.
Questi s'era fermato come un buon fantaccino che abbia udito il comando
dell'_alt_. Si rivolse di nuovo verso il generale e col medesimo tono e
colla medesima voce di prima disse:
— Abbia dunque la compiacenza di darmi i suoi ordini. Debbo lasciar
correr l'acqua alla china e lavarmene le mani?
Il conte ricordò la severità e la vigilanza inculcatagli.
— Mai più, mai più: esclamò corrugando fieramente le sue sopracciglia
ispide come i baffi.
— Debbo arrestarli tutti?
Barranchi sentì a suonare la frase che non bisognava violare i diritti
dei cittadini, i quali al giusto egli non sapeva che cosa si fossero. Si
grattò il berretto di cotone in testa, e mai faccia da generale dei
carabinieri non espresse l'indecisione e l'imbarazzo come fece in quel
momento il volto fiero del conte Barranchi.
— Tutti? Cospetto! Tutti addirittura? Si potrebbe vedere, esaminare...
Uno di quei che mi avete nominato è un bastardo; peuh! certo che nessuno
verrà a muover richiami per esso... Arrestatelo... Un altro è un
ciarlatano da teatro e forestiero; anche per lui non ci sarà chi metterà
innanzi pur un piede... Pigliatelo... Quell'impertinente d'un avvocato
Benda abbiam già deciso di _archiviarlo_. Eh! una retata di tre gli è
qualche cosa. Circa gli altri, guardate voi, fate voi... Avrete in mano
qualche carta, qualche documento di cui vi potrete impadronire nelle
perquisizioni che farete. Regolatevi dietro di ciò; che cosa volete che
vi dica? Voi dovete esser pratico del servizio; lo siete più d'ogni
altro: sapete meglio di chicchessia ciò che vi tocca di fare. Fate
adunque in vostra buon'ora, e fate bene.
Si lasciò ricadere sul letto, come uomo che ha finito di spiegare le sue
volontà e brama essere lasciato tranquillo; ma quando Tofi era già
all'uscio, il generale si ridrizzò di nuovo con mezzo il corpo e colla
sua voce tremenda da comandante di brigata in piazza d'armi soggiunse:
— Badate che lascio a voi la responsabilità di tutto. Siate severo,
siate vigilante... ma guai a voi se mi fate prendere una rampogna da S.
M.
Tofi uscì più perplesso di quanto fosse al venir suo; ed un'irritazione
profonda contro Barranchi e contro tutti gli accresceva il maligno
talento della sua natura. A lui toccava operare, ma se l'operato fosse
stato creduto degno di lodi, queste sarebbero andate al conte Barranchi,
se di biasimi, su di lui sarebbero piombati i più crudi, non senza
pericolo ancora di qualche cosa di peggio che biasimi. In
quell'occasione in cui a cagione di qualche eccesso di arbitrio, il
conte Barranchi aveva avuto i rimproveri del Re, il commissario Tofi, su
cui naturalmente s'era venuta a scaricare l'ira del generale aveva
sentito scoppiar alle sue orecchie niente meno che la minaccia d'esser
tolto a quel posto che da tanti anni occupava. Questa era per lui la
peggior sciagura che ei potesse immaginare, e il solo pensiero ne lo
spaventava tremendamente. Prima di tutto quel posto gli era carissimo
per amore di artista che aveva collocato nel suo mestiere; poi eragli
un'autorità di cui si compiaceva infinitamente ed una salvaguardia
personale di cui sentiva vivissimo il bisogno. Nella sua lunga carriera
egli aveva così perseverantemente offeso l'interesse, il carattere,
l'onoratezza di tanti individui che ben sapeva avere ammassato sul suo
nome un tesoro incalcolabile d'odio, cui la sua qualità sola impediva
dal prorompere. Quel giorno in cui egli non fosse più nulla sarebbe
stato oppresso dall'esplosione dello spregio e dell'animavversione
pubblica; altro non gli sarebbe rimasto che fuggire per andare a
nascondere in chi sa qual remota solitudine la sua imprecata e maledetta
vecchiaia.
Con quella profonda irritazione che aveva in corpo, il Commissario si
era recato nel suo uffizio di Piazza Castello e si disponeva a ricevere
l'arrestato quando gli fosse condotto dinanzi.
Si era nella seconda camera, in mezzo della quale stava la tavola lunga
collo sporco tappeto di panno verde. Alla scrivania sedeva un impiegato
che, per la fredda temperatura, di quando in quando dava in uno scossone
di brivido e soffiava sulle mani per iscaldarsele. Tofi passeggiava su e
giù della stanza con passo concitato, il cappellone piantato in testa e
le mani affondate nelle larghe tasche laterali del soprabito.
Ad un punto Barnaba socchiuse la porta che metteva nel corridoio e
cacciò dentro la sua faccia scialba, appuntata, da faina.
— Gli è qui il merlotto.
— Ah ah, va bene.
Tofi trasse di tasca le sue grosse manaccie e si pose a fregarsele l'una
coll'altra facendo chioccare le giunture delle dita premendosele.
— Come andò la faccenda? Dite spiccio.
Barnaba in poche parole raccontò ciò che era avvenuto presso il
cimitero.
— Cospetto! Avevate colà anche quel Selva; potevate prenderlo.
— Ci ho pensato.
— Ma no; è meglio si abbia qualche altro pretesto. Voi correte subito a
perquisire la casa Benda con quanti uomini crediate aver bisogno.
Mandate il Rosso con altrettanti in via ***, n. 7, a fare il medesimo da
quel pittore, e si arrestino quel Maurilio Nulla e quel Medoro Bigonci.
Gli altri vedremo poi. Andate. Dite che s'introduca l'arrestato.
Barnaba sparì.
Tosto dopo entrò Francesco e dietro di lui due carabinieri; questi si
fermarono presso l'uscio; il giovane s'inoltrò nella stanza fino presso
alla tavola. Era un po' pallido ancora, ma il suo aspetto non dinotava
la menoma trepidazione. Il Commissario seguitava a passeggiare su e giù
dall'altra parte della tavola guardando di sottecchi Francesco e
brontolando inintelligibili parole fra i denti. Ad un tratto Tofi si
piantò innanzi al giovane in atto minaccioso ed affondando le sue
manaccie nelle tasche, disse con tono imperioso e villano:
— Dove si crede di essere Lei?
Benda esitò un momentino a rispondere, poi con una calma dignitosa disse
fissando il suo limpido sguardo sulla faccia terrea e cupa del sig.
Tofi:
— Il luogo, la compagnia che ho qui meco, il suo aspetto, il tono con
cui Ella mi parla, mi dicono abbastanza che io sono in presenza del
Commissario di Polizia.
— Ah sì? Riprese questi ingrossando vieppiù la voce ed aggrottando
vieppiù le sopracciglia. E innanzi al Commissario Lei pensa di potersi
rimanere col suo bravo cappello in testa, eh?
Francesco seguitò a guardare la faccia cupa del signor Commissario nello
stesso modo franco e sicuro.
— Ella, rispose, sta bene col cappello in capo innanzi a me.
L'audacia della risposta fece sussultare l'impiegato subalterno alla sua
scrivania, fece guardarsi in volto i due carabinieri come per
interrogarsi mutuamente che cosa avessero da fare in presenza di tanta
temerità. Tofi mandò un'esclamazione fra i denti che pareva un grugnito.
— Carabinieri! Diss'egli poi colla voce più rauca e più aspra del
solito: tirate giù il cappello al signore.
Uno dei carabinieri, colla canna della carabina ond'erano armati, diede
un colpo al cappello di Benda e lo mandò per terra. Il giovane non si
mosse, ma arrossì fino alla radice dei capelli.
Tofi fece di nuovo due o tre giri per la stanza senza parlare; poi
fermandosi presso alla scrivanìa dov'era l'impiegato:
— Siete pronto a scrivere? Disse.
L'impiegato prese la penna in mano e fece un cenno affermativo. Allora
incominciò l'interrogatorio. Francesco rispose asciuttamente alle
domande fattegli sull'esser suo: nome, cognome, figliazione, patria,
età, ecc.
— Che cosa faceva Lei al Camposanto a quell'ora mattutina? Domandò poi
il Commissario.
Benda parve studiare un momento la risposta da farsi, e poi disse:
— Se Ella sa la ragione per cui io mi trovava colà, è inutile ch'io glie
la ripeta, se poi non la sa stimo niente affatto di mio dovere il
dirgliela.
Tofi proruppe, sbuffando, in una esclamazione di collera.
— Oh oh! Crede Lei di poter far qui il bello spirito ed il capo ameno?
Probabilmente Lei non conosce ancora bene chi sia il commissario Tofi.
Il giovane chinò leggermente la testa e fece un ironico sorriso come per
significare che lo conosceva appuntino.
Tofi si volse allo scrivano:
— Scrivete che interrogato se si fosse recato là dove venne arrestato
col criminoso proposito di cimentarsi in duello contro il marchese
Ettore di Baldissero, rispose affermativamente.
— Io non ho detto così: esclamò Francesco.
— Vorrebbe forse negare ciò che sappiamo perfettamente?
— Io non nego, ma.....
— Dunque?.... (E allo scrivano) scrivete come vi ho detto.
— Protesto.
— Protesti quanto vuole, e tiriamo innanzi.
— Sul terreno si trovavano il dottor Quercia e l'avv. Selva?
— I carabinieri che ci sorpresero scrissero il nome di tutti coloro che
eran colà.
— Quelli che ho or ora nominati erano suoi padrini?
— Mi accompagnavano.
Tofi gettò sopra il giovane uno sguardo feroce che avrebbe potuto
paragonarsi a quello d'un animale di preda sopra la vittima che sta per
isbranare.
— Qui si vuole schermire di finezza con me. Cattivo partito, signore,
cattivo partito, glie lo dico io..... Risponda franco, sincero, la
verità, e tutta la verità: e ne avrà maggior vantaggio. Quei signori
sono suoi amici?
— Sì.
— Specialmente il Selva?
— Siamo stati compagni fino dalla prima adolescenza.
— Ella conosce le idee e le opinioni di questo suo intimo amico?
— Io so che quello è il più onorato e più dabben giovane che sia al
mondo.
Il Commissario ruppe in uno scoppio di quella sua voce aspra e vibrata.
— Ah onorato? Ah dabbene? Gridò egli incrociando le braccia al petto ed
atteggiando sul cravattino duro il suo mento quadrato con mossa
minacciosa. No signore che non è un giovane onorato; no signore che non
è un giovane dabbene.....
Francesco ebbe il coraggio d'interrompere il signor Tofi, parlando ancor
egli di forza:
— Signor Commissario, io non soffro smentite, e tanto meno soffro che si
oltraggi con esse l'amico che ho più caro e che stimo di più.....
Il Commissario gli troncò le parole con esclamazione violenta,
venendogli presso, la faccia contratta dall'ira, lo sguardo più acceso
che mai sotto le folte sopracciglia:
— Lei non soffre?! Ma dove si crede Ella di essere? Con chi si crede di
parlare?... Sono io che non soffro di queste arie in chi mi viene
dinanzi, sa!... Badi che io fo presto a levar la superbia ai pari suoi.
Ne ho domati di più audaci. Se la mi stuzzica la faccio cacciare al
_crottone_ a pane ed acqua, finchè le sia passato il ruzzo di fare il
bell'umore. Il suo amico non è un giovane onorato, non è un giovane
dabbene, perchè chi è onorato e dabbene ha rispetto ed obbedienza per le
legittime autorità, non osa censurare il Governo del suo sovrano, non
isparla de' suoi superiori e dei ministri della santa religione
cattolica, non desidera e non cerca sovvertimenti nello Stato, non
congiura contro il trono del principe di cui ha la fortuna e l'onore di
essere suddito. E questo suo amico fa tutto ciò e peggio. E Lei lo sa, e
Lei partecipa a questi empi intendimenti.
Francesco tacque un istante, sbalordito a codesta sfuriata; poi
superando la trepidazione che quelle parole gli avevano fatto nascere —
trepidazione naturale, perchè in quei tempi la Polizia non era
menomamente impacciata da nessun ostacolo di legalità a mandare a
Fenestrelle chi le paresse suddito non abbastanza devoto — disse colla
calma che potè maggiore:
— Credevo d'esser qui per cagione della mia contesa col marchese di
Baldissero, e non pensavo mai più di aver da rispondere per altre cose e
pel fatto di altri.
— Ella è qui per tutto quello su cui mi piacerà interrogarla... Crede
Lei che la Polizia non sappia appuntino ciò che lor signori fanno e
dicono e pensano? Da molto tempo abbiamo gli occhi su di loro e ne
seguitiamo i passi e le gesta. Noi sappiamo _tutto_, signore..... TUTTO!
Ripetè pesando sulla parola.
Fece una piccola pausa e poi riprese:
— Ella conosce di molto anche il pittore Vanardi?
— Sì.
— Va spesso a casa di lui?
— Qualche volta.
— Spesso. E colà vi si tengono delle conventicole che durano fino a
notte inoltrata.
— Ci troviamo in alcuni amici e stiamo insieme a discorrere.
— Vorrebbe dirmi di che cosa si discorre?
— Mah! Di mille cose e di nulla... di arte e di letteratura sopratutto.
— E per discorrere di codesto si chiudono in istanza ed impiegano parte
della notte? Mi parli un po' di coloro che prendono parte a questi
discorsi?
— Siamo in parecchi amici, quasi tutti compagni di Università.....
— I nomi, i nomi. Dica su come si chiamano.
Benda esitò.
— Ecchè? Disse il Commissario con perfida ironia. Per una cosa cotanto
semplice ha forse scrupolo a dire il nome dei suoi compagni? Be': ve lo
aiuterò io. V'è prima quel Selva; poi il padron di casa, poi un certo
Maurilio Nulla... Appunto! Parliamo un momentino di codestui. Lei lo
conosce bene?
— Sì.
— È suo amico?
— Sì.
— Sa che questa la è strana? Ella che è ricco ed appartiene ad una
famiglia di ricchi commercianti, come va che si trova in intima
relazione con quel cotale, che viene dalle più basse regioni del volgo?
Conosce Ella bene il passato di quel giovane?
— Lo conosco.
— E ciò nulla meno Ella non ha avuto il menomo ribrezzo di stringere
tanta attinenza con un trovatello, che fu accusato del più orribile dei
delitti, che passò varii mesi in carcere, che non possiede nulla al
mondo e si guadagna la vita non si sa ben come? Una simile amicizia non
è degna di Lei e non è affatto naturale.
— Ho avuto campo di conoscere che in quell'infelice vi è un'anima
nobilissima ed un'intelligenza superiore, e ciò mi basta per farmelo
amare e stimare. L'essere povero e trovatello non è cosa di cui egli
abbia colpa, e soltanto il pregiudizio può crederlo un disdoro; ch'egli
sia rimasto in carcere accusato d'un orribile delitto non l'ho mai
saputo, e non lo credo così di piano....
— Cospetto! Quando glie lo dico io!....
— Ad ogni modo io, giudicando da quello che conosco di lui, debbo
credere ch'egli sia stato innocente.....
— Parliamo un poco d'un altro: voglio dire Medoro Bigonci. Anche di
costui non so vedere alcuna ragione perchè partecipi a così stretti e
confidenti colloquii da amico.
— Egli abita con Vanardi..... Del resto non prende parte quasi mai alle
nostre riunioni.
— Ah no? A me le mie informazioni mi dicono diversamente. E le mie
informazioni mi dicono molte cose, sa, che altri crede affatto
nascoste..... Vuol saperne una, per esempio?
Si accostò ancora più presso a Francesco e gli disse con voce sommessa,
ma piena di forza:
— Mi dicono che Medoro Bigonci non è il vero nome di quel tale, ma
ch'egli chiamasi Mario Tiburzio.
Benda non fu tanto padrone di sè che non desse indietro d'un passo e che
non impallidisse nel volto.
Tofi vide l'emozione del giovane e ne conchiuse fra sè issofatto che
Barnaba non s'era ingannato e che Francesco Benda era istrutto del vero
essere di quell'individuo. Col proposito di atterrire l'arrestato e di
ottenerne in questo modo alcuna confessione od almanco una più
imprudente risposta, il Commissario continuò colla medesima voce
sommessa ma fremente di minaccia:
— Ora Ella capirà agevolmente che la sua condizione non è così buona e i
carichi che pesano su di lui non sono così lievi da permetterle tanta
temerità e tanta sicurezza. Mario Tiburzio è un agente di Mazzini. Il
solo essere in rapporto con lui è gravissima colpa, è delitto di Stato.
Siffatte audacie dei mandatari di quello scellerato rivoluzionario che
vengono a sedurre e sommuovere la gioventù nel nostro Stato sono oramai
troppe. Il Governo di S. M. è deciso di porvi fine e di tagliare il male
dalla radice. Qualunque siasi che abbia intinto in siffatta pece si è
deciso di deportarlo senz'altro in Sardegna.
— In Sardegna! Esclamò Francesco, il quale non potè nascondere il suo
sgomento. Egli pensò alla sua famiglia, al dolore che i suoi cari
avrebbero provato, all'oggetto dell'amor suo che forse non avrebbe
potuto veder più, ed uno spasimo indicibile gli strinse il cuore.
— Sì signore, in Sardegna: ripetè il Commissario, il quale s'accorse e
fu lieto dell'effetto prodotto dalle sue parole. E primi di tutti i
caporioni e i più pervicaci. Il Governo fu finora troppo magnanimo,
troppo tollerante: è gran tempo che alla fine eserciti tutto il suo
rigore. Nessuna pietà, nessun riguardo per i nemici dell'ordine e del
Sovrano. Se si farà qualche distinzione fra essi, se si potrà essere più
miti verso alcuni, sarà soltanto per coloro i quali col loro contegno
dimostreranno come da illusione giovanile, da inconsideratezza meglio
che da perversità d'animo furono tratti a fallire, per coloro che
proveranno colla sincerità delle loro dichiarazioni il proprio
pentimento. Mi capisce?
Le parole del Commissario erano troppo chiare per non essere capite.
Francesco che colla forza della volontà aveva rinfrancato il suo animo
si disse con disdegno:
— Costui tenta e spera di avere in me un delatore.
E la indignazione riagì sulla nobile di lui natura così da
restituirgliene calma e fermezza.
Tofi continuava:
— Ella, signor avvocato, a quale di quelle due schiere vorrà ascriversi?
Non di certo, io spero, a quella dei pervicaci nemici di S. M. l'augusto
nostro Sovrano. Ella di certo ripudierà i scellerati propositi di chi
non tende che ad abbattere la legittima autorità; Ella vorrà meritarsi
il generoso condono alla leggerezza — non la chiamerò altrimenti — alla
leggerezza della sua condotta, colla sincerità delle sue confessioni.
Fece una pausa, tenendo sempre que' suoi occhi grifagni fissi in volto
al giovane. Francesco volse altrove lo sguardo con tutta indifferenza.
— Or dunque: riprendeva a dire il Commissario: poichè Ella conosce ed è
in istretti rapporti con questo Mario Tiburzio, la mi saprà spiegare
perchè quell'individuo è venuto a Torino con falso nome e sotto mentita
qualità...
— Signore: interruppe Francesco, non senza manifestare nel suo accento
il disprezzo e lo sdegno che in lui destavano i tentativi del suo
interrogatore: io non so spiegarle niente affatto. Mario Tiburzio non
conosco chi sia. Ho visto alcune volte in casa del mio amico Vanardi il
signor Medoro Bigonci cantante, il quale non ha altro pensiero che
quello delle sue crome e biscrome. Se mi sono legato qualche poco con
lui, nulla è più naturale, essendo egli artista ed io dilettante di
musica. E non ho altro da dire.
Il Commissario stette alquanto in silenzio e fece colle sue labbra
grosse uno strano e minaccioso ghigno.
— Questo, disse poi con ironia grossolana, è il sistema di difesa che il
signor avvocato crede bene di adottare?
— Io non ho bisogno di difesa nessuna, perchè non ho colpa.
Tofi tacque di nuovo un istante facendo sempre piombare sopra il giovane
quel suo sguardo penetrativo, ironico e minaccioso.
— Sa una cosa? Proruppe quindi ad un tratto. In questo stesso momento si
fa una perquisizione a casa sua.
In quella specie di scherma che aveva luogo fra l'interrogante e
l'interrogato, fu questa una botta bene assestata che colpì il giovane
in pieno petto.
— Ah! Esclamò egli con una scossa, ricordando di botto come nella sua
camera, entro i cassettini della scrivania ci fossero l'_Assedio di
Firenze_ di Guerrazzi, i libri cinque sull'_Italia_ di Tommaseo, la
_Giovane Italia_ di Mazzini, e peggio ancora di tutto questo una
istruzione sul modo di ordinare e guidare la rivolta del popolo nelle
città e di organare bande d'insorti nelle campagne, istruzione per sommi
capi fatta e scritta tutta di pugno di Mario Tiburzio.
— Che cosa ne dice eh signor avvocato? Domandò il Commissario colla
medesima insultante ironia.
— Dico che quella è una violazione di domicilio che non avverrebbe in
paesi retti civilmente.
Tofi si abbandonò ad uno scoppio di collera.
— Come sarebbe a dire? Gridò egli con violenza. Forse che questo paese
non è retto civilmente? Che insolenza la è questa? Come osa Ella, me
presente, offendere così il Governo del nostro augusto Sovrano? Sappia
che gli Stati di S. M. il Re di Sardegna non hanno nulla da invidiare a
nessun altro; e non mi dica di queste bestialità che sono quasi un
crimenlese, perchè altrimenti saprò ben io ricacciargliele nella gola e
farnela amaramente pentire. Per conchiudere, pensi bene ai casi suoi; è
Ella decisa a rispondermi schietto la verità su ciò di cui la interrogo?
— Ciò che avevo da rispondere, ho risposto. Ripeto che non ho nulla da
aggiungere.
— Sta bene. Vedremo se dopo i risultamenti della perquisizione Ella
seguiterà a tenere simile linguaggio.
Volse villanamente le spalle a Francesco e disse ai carabinieri:
— Traducetelo in cittadella.
Venti minuti dopo il giovane sentiva chiudersi alle spalle le serrature,
i chiavistelli e catenacci dell'uscio di quella stanza che doveva
servirgli da prigione.


CAPITOLO X.

Barnaba era entrato sotto il portone di casa Benda, seguito da quattro
carabinieri.
— È Lei il signor Giacomo Benda? Domandò al padre di Francesco che gli
veniva all'incontro.
— Signor sì.
— Ella avrà appreso come suo figlio sia stato arrestato.
— Vennero or ora due amici di Francesco a darmene la infausta novella.
Spero ch'Ella vorrà dirmene la ragione, ch'io non posso a niun modo
immaginare.
— Io non ho nessuna istruzione di darle informazioni a questo riguardo.
Ho invece l'ordine di perquisire minutamente tutta la casa.
— Non mi vi opporrò menomamente, sottomesso cittadino qual sono alle
autorità, ma farò i miei richiami presso il signor Governatore, presso
S. E. il Ministro medesimo, se occorre.
— Ella farà poi quel che crede. Intanto la prego, ed ove d'uopo le
impongo di volere acconciarsi a quanto sto per dirle.
Il signor Giacomo curvò la testa per accennare che era pronto ad
obbedire.
— I signori che vennero a comunicarle l'arresto di suo figlio sono il
dottor Quercia e l'avv. Selva?
— Sì.
— Essi sono ancora in sua casa?
Giacomo esitò un istante; ma poi pensò miglior consiglio rispondere
affermativamente. Barnaba notò quell'esitazione.
— Dove si trovano? Domandò egli fissando il volto del signor Benda.
— Nel salotto con mia moglie: rispose questi.
— Bene: riprese il poliziotto; noi comincieremo la perquisizione dal
luogo più importante, dalla camera di suo figlio, ed Ella avrà la
compiacenza di venir con me. In questo frattempo tutte le persone onde
si compongono la sua famiglia e la servitù si raccoglieranno nel salotto
in cui già si trovano la signora Benda e quei due signori, e nessuno se
ne muoverà che dietro mio ordine.
Si volse ai carabinieri, e designandoli gli uni dopo gli altri,
soggiunse:
— Voi due starete a guardia del salotto; voi due verrete meco.
Fu fatto a seconda ch'egli aveva detto; e senza altro ritardo Barnaba,
il sig. Giacomo e i due carabinieri a ciò prescelti n'andarono nella
camera di Francesco senza passar punto pel salotto.
Selva, troppo persuaso che non c'era affatto tempo da indugiarsi, aveva
in tutta fretta arraffato e libri e carte pericolosi, dove sapeva che si
trovavano, e senza darsi cura di chiudere cassettini e tiratoi erasi
partito di corsa. Barnaba, appena entrato, vide i mobili aperti e le
carte disordinate sopra il piano della scrivania. Andò vivamente a
guardare in que' cassettini, fece scorrere sotto il suo sguardo linceo
le carte abbandonate, tutte della più innocente indifferenza, e fu
chiaro di tutto.
— Ah ah! Diss'egli volgendosi al padre di Francesco. Qualcheduno è
venuto a toglier via il corpo del delitto, e probabilmente questo
qualcheduno avrà cercato di salvarsi con esso.
In quel momento veniva frettoloso a cercar di Barnaba uno dei
carabinieri che erano stati incaricati di custodire la famiglia e la
servitù del signor Giacomo.
— Signore: disse il carabiniere; della famiglia non si trova in casa la
signorina.
— Diavolo! Uscita a quest'ora, e sola, una ragazza! Esclamò Barnaba,
guardando fisamente il signor Benda, che stette impassibile senza nulla
rispondere.
Il carabiniere continuava:
— Di quei due signori che dovevano essere nel salotto non ce n'è che
uno: il dottor Quercia.
— È naturale: disse Barnaba. L'avvocato Selva è amico intrinseco
dell'avvocato Benda. Nissun altro era meglio di lui adatto a questo
còmpito. Madamigella Benda potrebbe bene aver guidato l'amico di suo
fratello ad uscire per qualche porticina riposta.
Il padre di Francesco, maravigliato e sgomentito dalla penetrazione del
poliziotto, rispose pur tuttavia freddamente:
— Ella può fare tutte le supposizioni che vuole; a me per distruggerle
bastano le mie negative.
— Ha ragione, ha ragione: disse Barnaba sorridendo. La non è mal
giuocata; ma il guadagnare la prima bazza non vuole ancora dire partita
vinta.....
Si volse ai carabinieri:
— Udite voi altri! Disse, e come i tre armigeri si furono serrati
intorno a lui, egli diede loro sottovoce alcune brevi istruzioni,
parlando specialmente a quello tra di essi cui i galloni alle braccia
indicavano per brigadiere.
— Ed ora andiamo nel salotto: riprese Barnaba ad alta voce. Signor Benda
ci mostri la strada.
Quando fu per entrare colà dove sapeva trovarsi il dottor Quercia,
l'agente di Polizia si tirò di nuovo il cappello sugli occhi, si avvolse
di nuovo nelle pieghe del mantello la faccia, di guisa da nascondere
affatto i suoi lineamenti. Del viso non gli si scorgevano che gli occhi
sguscianti fra il tabarro e la tesa del cappello.
Maria non era ancora ritornata, e la madre non istava senza ansietà
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