La plebe, parte I - 32

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— Ebbene, dammene una prova, che per me varrà più d'ogni qualunque
dichiarazione e protesta.
— Che prova? domandò Quercia, tornando nella sua aria sbadata.
— Non andar più da quella donna...
— Eh via! Queste le son bambinate.
L'accento di Candida divenne affatto supplichevole.
— Contentami in codesto, diss'ella, mettendo la sua mano su quella di
lui, te ne scongiuro.
Egli tolse via la sua destra e rispose con tono in cui cominciava ad
apparire l'impazienza:
— Ti ho detto che avevo un certo interesse a continuare le mie gite in
quella casa.
— Che interesse?
— Questo non te lo posso dire.
— Luigi, ti prego dal fondo dell'anima, dammi questa prova d'amore.
— Non posso.
— Io sono gelosa, lo sai, tremendamente gelosa di tutto e di tutte.
Vorrei poter occupare io sola intiera la tua vita e la tua anima e il
cuore. Sono gelosa anche del passato. Perchè sei tu venuto a destarmi
quest'amore, se non volevi corrispondergli alla pari? Quando tu
manifestasti alcun desiderio, non mi sono io affrettata ad
acconciarmivi? Non ti domanderò nulla mai più; ma ora consenti a questo
mio desiderio.
La fisionomia di Quercia era degna di nota in quel punto, chi avesse
saputo esattamente osservarne la duplice espressione. Mentre le
sembianze del viso erano atteggiate a quella graziosità un po' leziosa
con cui si ascoltano dai vagheggini le parole di una bella signora, lo
sguardo ch'egli faceva piombare sulla sua interlocutrice, era freddo,
duro, quasi minaccioso.
— Via via, che cos'è questa insistenza? Se ti affermo che non hai nulla
da temere in codesto, non ti basta?
— No. E come puoi tu esitare per sì poca cosa? Non ti ho io dato
l'esempio di cedere a tutti i tuoi desiderii?... Innanzi a quale
sacrifizio ho io indietrato?
— Ah! ci siamo colla famosa parola dei sacrifici; che vuoi tu
rinfacciarmi con essa?
La fronte di Luigi era solcata da quella tal ruga che conosciamo, e il
suo occhio erasi fatto ancora più minaccioso.
— Nulla, nulla: s'affrettò a dire la povera donna quasi sgomentata. Non
ti rinfaccio che una cosa sola... il poco amore che tu hai per me. Se tu
mi amassi com'io t'amo, come forse meriterei, non esiteresti a fare a
mio senno in quella poca cosa che ti domando.
— E lo farei se ne fosse il bisogno o ne valesse soltanto la pena; ma
qui non accade nè l'una cosa nè l'altra.
Erano ancora in questi discorsi, quando il conte Amedeo Filiberto
comparve sulla soglia aguzzando secondo soleva il suo sguardo per vedere
entro la stanza. Vide dapprima la marchesa di Baldissero con intorno la
schiera dei corteggiatori di sua nipote, e si diresse verso quella
parte.
— Eh buon giorno, marchesa: diss'egli stringendole la mano. Voi state
bene? Ne godo infinitamente. Madamigella Virginia, ricevete gli omaggi
della mia servitù... Sapete marchesa che sono in via d'una spedizione da
argonauto?
— Alla ricerca d'un vello d'oro?
— Alla ricerca di mia moglie.
— Ah!
La marchesa si morse le labbra per frenarvi l'epigramma che stava per
iscoccarne.
— Non l'avete per caso veduta, marchesa?
— Sì: disse la marchesa mettendo agli occhi il suo occhialino a doppia
lente per guardare intorno. Siete più fortunato che non vi meritiate.
Eccola appunto là.
Amedeo Filiberto si volse: pose anch'egli nell'occhio il suo disco
rotondo di vetro, che gli serviva da occhialino e guardò.
— Sicuro. La è là. Vi ringrazio, marchesa.
E andò senz'altro presso Candida e Quercia.
— Ah siete qui voi altri? Avevo bel cercarvi nel salone delle danze.
Luigi si alzò in piedi:
— Stia, stia comodo: soggiunse il conte. Siete stanca di ballare,
contessa?
— Sì: rispose asciuttamente Candida.
— Allora non avrete difficoltà di cedermi per un poco il vostro
ballerino.
— Volete lasciarmi qui sola?
— Ecco la marchesa di Baldissero con un cerchio di cavalieri. Vi
lasciamo in buona compagnia.
Candida si alzò ancor essa. Aveva una nube di tristezza e di contrarietà
sulla fronte, parve voler soggiungere alcune parole, ma poi non disse
nulla: gettò uno sguardo di indefinita espressione verso Gian-Luigi di
cui il conte pigliava famigliarmente il braccio per trarlo seco e
s'accostò lentamente alla marchesa di Baldissero.
— Caro Quercia, disse il conte, io non ho mai avuto la disgrazia che mi
perseguitasse tanto quanto stassera. Ho perduto con una pertinacia
impossibile. Ho bisogno d'una rivincita.
— E la viene da me per farsela dare: disse Gian-Luigi mezzo ironico,
mezzo scherzoso.
— Vengo a domandarle aiuto e consiglio.
— Aiuto? In che modo?...... Vuol forse domandarmi in imprestito?...
Il conte non lasciò che finisse. Tolse via da quello del dottore il
braccio che vi appoggiava su e disse con un vivo sentimento d'alterigia
vestito però della massima cortesia:
— Oibò! Per cotesto so bene a cui rivolgermi. Il consiglio è questo.
Devo io ancora ostinarmi ad affrontare questa _diablesse_ d'una fortuna?
Se sì, Lei che ha d'ordinario sì prosperi successi al giuoco....
— Fuorchè contro di Lei, che mi guadagna sempre: interruppe Gian-Luigi,
guardando il conte con una cert'aria scrutativa e piena d'una finezza
indescrivibile.
Il conte fece un cenno grazioso d'assentimento, e continuò:
— Vorrebbe Ella ammettermi socio nel suo giuoco, accettando come messa
di fondi la mia parola? Ecco l'aiuto. _Ma foi_ le ho detto tutto.
— Molto volentieri: rispose Luigi. Vado a far banca durante un'oretta e
non più. I guadagni saranno a metà.
— Vado ad assisterla.
— No: disse vivamente il giovane. Preferisco esser solo a tagliare. Che
vuole? È una superstizione da giuocatore. Se qualcheduno, anche un socio
del mio giuoco, mi sta presso o tocca le carte, queste mi tolgono ogni
loro favore.
— Starò colà come spettatore soltanto.
— Anzi, faccia a mio senno, punti contro di me. Se la perde ne sarà
compensato nella divisione dei guadagni; se vince... tanto meglio per
Lei.
Entrarono nella stanza dove si giuocava. Gian-Luigi scelse un tavolino,
a cui il banchiere aveva le spalle al muro, così che nessuno poteva
venirgli dietro, e recandosi colà, disse al signore il quale stava
tagliando:
— Signore, avrei desiderio di succederle nella banca. Ha Ella intenzione
di continuare ancora, o si acconcerebbe a rimettere il posto?
Il banchiere alzò il capo per guardare chi gli parlava a questo modo.
— Ah! gli è Lei, dottore. Se perdessi sarei pronto a lasciarle la mia
seggiola per farle piacere: ma siccome sono in guadagno debbo a questi
signori la loro rivincita.
— Non si dia pensiero di ciò. La darò io a suo luogo a chiunque voglia
farmi l'onore di giuocare contro di me.
— Non ne dubito: disse alquanto seccamente il banchiere; ma ci tengo a
far da me quel che mi tocca.
— Allora non c'è che un mezzo per aggiustarla: disse con un cortesissimo
sorriso il dottore Quercia.
— Quale?
— Giuoco tutta la posta del banco e lo faccio saltare.
— Ah sì? E se invece la perdesse?
— Ripeterei il giuoco finchè mi riesca. Vuol Ella?
Il banchiere esitò un momentino: e poi la paura si dicesse aver egli
indietrato per poco coraggio innanzi a questa sfida, lo fece
acconsentire.
— Sia pure: diss'egli prendendo due nuovi mazzi di carte e rompendone
l'involto.
Gli spettatori che attorniavano quel tavolino, interessati a quella
specie di duello, fecero posto a Gian-Luigi, il quale venne a piantarsi
in faccia al banchiere e non sedette neppure, ma puntandosi con una mano
al tappeto verde, chinò alquanto la sua bella ed aitante persona e disse
con tanta semplicità:
— Ecco due mila lire in oro e otto mila in biglietti di banca
francese[13]. Li vuole accettare?
[13] Allora non eravi ancora la Banca Sarda.
Il banchiere fè cenno di sì colla testa, sbirciando i rotoli di marenghi
e i pacchetti di polizze di banca che il suo avversario schierava
innanzi a sè.
— Non so neppure, diss'egli, se il fondo della banca giunga a tal somma.
— Non importa; rispose con indifferenza Gian-Luigi. Se perdo, conteremo
dopo; se guadagno io prendo senza contare.
Intanto il banchiere batteva le carte, e le sue mani tremavano un
pochino, quantunque la sua faccia tenesse un buonissimo contegno.
Quercia teneva fisso sul banchiere e sulle carte ch'egli maneggiava uno
sguardo intento, vivo, imperioso, che pareva doverne imporre
all'azzardo, cui non era possibile sostenere senza un certo disagio.
Dopo due minuti passati nel più alto silenzio, il banchiere pose innanzi
al puntatore le carte perchè tagliasse.
Luigi fece attendere un momentino, perchè aveva ancora da levarsi il
guanto paglierino che calzava la sua mano poco meno aristocratica che
quella del conte Langosco. Poi la destra di Quercia, al cui annulare
brillava uno splendidissimo diamante in una verga d'oro, si abbassò sui
due mazzi di carte battuti e raccolti insieme, e ci stette alquanto,
quasi come fa la mano d'un magnetizzatore che voglia far penetrare in un
oggetto il misterioso fluido; quindi come per subita ispirazione prese
il mazzo, lo battè alquanto egli stesso affrettatamente con tutta l'arte
d'una mano esercitatissima e lo ripose sulla tavola. Il banchiere tornò
a mescolare a sua volta le carte egli stesso: poi le ripose innanzi
all'avversario: Luigi vi battè sopra con un colpo secco della mano e
disse:
— Dia.
— Vuole che ne _brucii_?[14].
[14] Si dice _bruciar carte_ il levarne dal mazzo una certa
quantità che si gettano in mezzo a scarto e non si
distribuiscono ai giuocatori.
Luigi fece un cenno negativo col capo.
Il banchiere esitò un momentino, come riflettendo a ciò che più gli
convenisse, poi, tenendo il mazzo colla mano sinistra, prese colla
destra un'alzata di carte e la gettò sul tappeto.
Poi gli occhi suoi interrogarono quelli dell'avversario, il quale rimase
impassibile. Allora il banchiere diede le due carte al puntatore e ne
prese due per sè. I giuocatori presero ambidue le loro carte raccolte
nel concavo della mano in guisa che nessuno le potesse vedere e
recatesele all'altezza dei loro occhi guardarono la prima e poi fecero
scorrere la seconda lentamente oltre la compagna, per iscoprirne a poco
a poco il numero dei punti, che è quello che chiamasi _filar la carta_.
Nè l'uno nè l'altro manifestò la menoma impressione che questo esame
avesse in loro prodotto. Quercia il primo posò sul tappeto le sue carte
ricoperte e si diede a guardare con quel suo occhio penetrativo la
faccia del banchiere. Questo eziandio depose le carte distribuitesi e
prese in mano il mazzo. Stettero così mezzo minuto ad osservarsi.
— Son disposto a passare: disse poscia il banchiere.
— Io no: rispose freddamente Gian-Luigi; e rovesciando le sue carte
scoprì un otto da fiori e un asse da quadri.
Il banchiere frenò un movimento di rabbia che gli fece sgualcire il
mazzo che teneva in mano; sforzò le sue labbra ad un sorriso e si alzò
tosto.
— A lei dunque, signor Quercia, il campo e le spoglie.
Gian-Luigi andò ratto a sedersi su quella seggiola che lo sconfitto
aveva abbandonata.
— Signori: diss'egli togliendo dal taschino l'orologio colla catenella e
i pendagli d'oro, e mettendolo innanzi a sè. Premetto che sia che io
perda, sia che guadagni, non terrò la banca più d'un'ora giusta da
contarsi cominciata in questo momento. Non rifiuto nessuna posta, ma
pregherei a non volerne fare di minori d'un napoleone d'oro; quanto più
grosse sieno, tanto meglio mi converranno. Il fondo di banca è di circa
venti mila lire.
Prese in mano i mazzi abbandonati dal suo precessore e ne raddrizzò le
carte state alquanto sgualcite: in quest'operazione pochissime carte gli
scivolarono di mano e caddero in terra. Egli si chinò in fretta a
raccoglierle.
— Io preferisco di molto tagliare con mazzi di carte non adoperati
affatto, e benchè questi non sieno stati battuti che una volta sola, se
loro signori lo desiderano, faremo portare degli altri mazzi, chè qui di
intatti non ce n'è più.
— Quei lì possono servire benissimo: disse uno che per la passione del
giuoco mal tollerava ogni indugio.
— Eh! se piace loro, piacerà anche a me: disse sollecitamente
Gian-Luigi; e il giuoco incominciò.
La banca ebbe una fortuna costante. Pochi vinsero fra i puntatori; fra
questi pochi il conte di Staffarda.
Trascorsa l'ora assegnata Gian-Luigi depose le carte, ricordò la
promessa che aveva fatto, raccolse le vistose somme che aveva dinanzi a
sè e lasciò intorno al tavolino i merli che gli era riuscito di
bellamente spennare.
Il conte Langosco gli tenne dietro quasi subito.
— La serata è stata buona: gli disse Gian-Luigi che lo attendeva, e lo
condusse seco nel vano d'un finestrone. Ecco dodici mila lire che le
spettano come sua parte.
Amedeo Filiberto si trasse in là e non porse la mano a ricevere i rotoli
di monete d'oro che l'altro gli porgeva.
— Un momento: diss'egli. Abbiamo da levarne quel tanto che ho guadagnato
puntando.
— Eh via! Si ha manco da discorrere di queste cose. Abbiamo fatto metà
dei guadagni, eccole la metà.
— Bene! Disse il conte con qualche malavoglia. Come la vuole. Ma se le
tornasse più comodo, invece di darmi tutta la somma in numerario, mi dia
pure di quelle polizze di banco.....
— No: interruppe il giovane, il cui occhio si piantò entro quelli del
conte con istrana acutezza scrutatrice: dei biglietti ne ho bisogno io
per certe mie faccende.
Il conte prese i denari che Gian-Luigi gli offriva, e poi si partì da
quest'esso per andar tosto a pagare alcuna di quelle perdite che aveva
fatto su parola. Ma la sua fronte era alquanto annuvolata, e quei denari
pareva che gli pesassero oltre il dovere nelle tasche. Aveva egli
vergogna di aver acquistato in quel modo un capitale relativamente
vistoso? di avere stretto quella società? C'era un po' di codesto, ma
c'era anche in fondo in fondo un'ombra indefinita di sospetto, che per
la prima volta gli si era affacciata, che la fortuna dell'elegante
dottorino era stata troppa e troppo costante.... un sospetto a cui non
sapeva trovare fondamento di ragione, che si condannava esso stesso di
avere, che se fosse mai stato manifestato da altrui, egli avrebbe
vivamente combattuto, ma pure non poteva discacciare dall'animo.
Quei denari gli facevano veramente pena. Quando li ebbe dati a quelli di
cui n'era debitore, si trovò più libero, ma non più soddisfatto. Mai
denari vinti al giuoco gli avevano prodotto un simile effetto. Deliberò
quando Quercia giuocasse di non prender parte mai più al giuoco nè
contro a lui, nè dalla sua parte, ma di esaminarlo attentamente.
La superba marchesa di Baldissero fece appena un piccol saluto alla
contessa Candida che venne a sedersele dappresso, e continuò la sua
conversazione che aveva avviata con due vecchi militari pieno il petto
di insegne cavalleresche, e piena l'anima di boria aristocratica, mentre
vicino a lei la nipote era il centro d'un piccolo gruppo di cavalieri,
fra i quali il solo Benda non era titolato.
La conversazione della marchesa pareva intesa a bella posta per ferire
la moglie del conte di Staffarda. La si aggirava intorno alla
sconvenienza di certe relazioni, che obliando il loro decoro, alcuni
titolati consentivano a stringere nel mondo con gente da meno. La
marchesa parlava a voce un po' più alta di quello che forse sarebbe
stato strettamente necessario: e le sue parole avevano la fortuna di
colpire due delle persone presenti: la contessa Candida e il borghese
Francesco Benda.
— Sì, barone, diceva la marchesa continuando nel suo discorso: la
massima dei nostri antichi è pur sempre quella che si deve seguire, chi
vuole vivere dignitosamente e secondo le esigenze del suo stato:
conviene stare ognuno coi pari suoi. Io, per me, _j'enrage_, quando vedo
alcuno dei nostri farsi famigliare con tali che dovrebbero stare nelle
nostre anticamere o poco più: o peggio poi quando vedo qualche dama così
_oublieuse_ del suo sangue da lasciarsi avvicinare e corteggiare da
qualche figliuolo di non so chi, o notaio, o mercante, o va dicendo.....
Candida sentì a suo dispetto una vampa di rossore salirle alla fronte;
gettò sulla vecchia marchesa dalla faccia di pergamena uno sguardo che
l'avrebbe voluta incenerire, e si diede ad annasare il mazzo di fiori
che teneva in mano.
Le parole della marchesa di Baldissero erano arrivate anche alle
orecchie di quei giovani che attorniavano madamigella Virginia, e
profondamente avevano commosso uno di essi, il nostro amico Benda,
ricco, ornato d'ogni maggior vantaggio dell'educazione, colle più
eleganti e signorili apparenze, ma figliuolo d'un fabbricante. In quella
società aristocratica, nella quale a forza di tentare e insistere era
pur riuscito, se non a mettere stabile piede, a potervi fare delle
incursioni, aveva pur sempre sentito presso tutti verso di lui, quel
certo tono e quel fare che colla massima urbanità sa nulla meno
chiaramente esprimere a colui col quale si usa: — Badate che io sono il
tale de' tali e voi siete un nulla! — E molte volte aveva provato un
ribollimento interno, che se non era tale da farlo inalberare
violentemente contro quei modi, lo spingeva almanco a tutta forza ad
abbandonare quell'ambiente e ritrarsene per sempre. Ma una catena troppo
salda era quella che lo riconduceva, ancorchè riluttante, ad ogni volta:
l'amore immenso, violento, al di sopra d'ogni possibil freno della
ragione, una vera passione che gli aveva ispirata la impareggiabile
bellezza di madamigella Virginia.
La sera di cui discorriamo, quella offensiva superbia aristocratica era
già stata trovata maggiore ancora del solito dal povero Benda, il quale,
malgrado la contraria risoluzione che prendeva ad ogni momento, non
poteva trattenersi dal capitare presso la giovane aristocratica ed
aggirarvisi sempre dintorno, proprio come intorno all'ardente fiammella
fa la mal cauta farfalla.
Le parole della marchesa suonarono alle sue orecchie come un congedo sì
evidente, che suo primo pensiero fu di allontanarsi senz'altro —
beninteso per non ricomparir mai più, diceva egli fra se stesso. Ma non
osò farlo di botto: quelle parole dette in un discorso particolare a cui
egli non pigliava parte, dovevano passare come non udite da lui; e poi,
fosse caso, o benigno proposito della nobil fanciulla dall'animo
generoso, in quella la signorina gli rivolse la parola, e non glie ne
parve un'illusione una maggiore gentilezza, quasi potrebbe dirsi
dolcezza ch'ella aveva nell'accento e nello sguardo. Rimase; ma col
cuore ulcerato e desiderando fra sè che uno di quei giovani sprezzanti
gli desse una buona occasione di prendere la sua rivalsa.
Fra questi giovani nobili, il più acconcio a questo uopo era il cugino
di Virginia, il marchesino di Baldissero. E con lui diffatti, come già
sappiamo, avvenne la scena che interrottamente narrò ai suoi amici Benda
medesimo.
I suoni d'un'aria di danza giunsero sino a quella più riposta camera ad
avvisare i personaggi del nostro dramma, che si cominciava a ballare una
polka.
Benda porse la destra inguantata alla giovane e le disse con un inchino:
— Ecco la polka che Ella mi ha fatto l'onore di favorirmi.
Virginia rispose con un sorriso, e sorse in piedi.
Il marchesino di Baldissero, fece un passo innanzi, come per mettersi
frammezzo a sua cugina ed al cavaliere che le tendeva la mano.
— _Pardon!_ Diss'egli con accento che nella sua apparente cortesia
conteneva un'indicibile sprezzatura verso il Benda. Il signor avvocato
avrà la compiacenza di aspettare un'altra polka perchè questa ha da
esser mia.
Francesco volse verso il nobile uno sguardo che mostrava non domandar
egli di meglio che trovare in quell'incidente l'occasione d'un
conflitto.
— Questa compiacenza: diss'egli con tono in cui mal si celava il
risentimento: questa compiacenza sarebbe veramente troppa, e non mi
sento la forza di averla.
— _Qu'est-ce à dire?_ Domandò il marchesino levando il capo e inarcando
le ciglia.
La ragazza s'intromise colla sua dolce voce così melodiosa e col suo
sorriso così soave:
— Veramente questa polka la ho promessa all'avvocato Benda.
— Ah benissimo! Esclamò Baldissero con impertinente indifferenza. Ciò
non toglie che io non domandi di ballarne teco una parte.
La ragazza si volse verso il giovane borghese con un legger cenno del
capo, come per dire che in lui stava l'accordare o il rifiutare codesto.
Benda ebbe un istante la tentazione di negare asciuttamente ciò che il
marchesino domandava: ma mentre esitava nella risposta, il nobile si
affrettò a prendere il suo silenzio come un consenso.
— Siamo dunque d'accordo. Dopo il primo giro, l'avvocato mi farà il
favore di cedermi il tuo braccio.
Il borghese non seppe trovare altra risposta fuori quella di chinar
lievemente la testa. I giovani si avviarono tutti alla sala da ballo,
eccetto la contessa Langosco che si disse stanca e non volle accettar la
mano che le offriva un cavaliere. La marchesa si volse e le disse sotto
voce col suo accento mordente ed incisivo:
— Come? Ella preferisce star qui con me a tutti i trionfi della gioventù
e della bellezza che le spettano?
— Preferisco gli ammaestramenti dell'esperienza che potrei attingere
dalla sua conversazione s'Ella me la favorisce.
La marchesa la guardò d'alto in basso con aria sovranamente orgogliosa e
fece frusciare il ventaglio aprendolo e chiudendolo colla mossa elegante
con cui usava civettare leggiadramente venti anni prima.
— Ah sì! Ecco un sentimento che le fa onore. E difatti potrei dargliene
parecchi di questi ammaestramenti di cui mi pare la contessa Langosco
abbisogni.
— Nè v'ha chi sia meglio in caso di darli della marchesa di Baldissero.
— Senta, cara contessa. Non facciamo guerricciuola a ripicchi, che fra
noi non è il caso. Io provo un grande interesse per lei. La famiglia
Langosco e quella di Baldissero sono congiunte in parentela. Ogni
giovane donna d'altronde della nostra classe m'interessa..... e quando
vedo alcuna commettere delle imprudenze, vorrei poterla amichevolmente
ritrarre dal mal passo.
Candida si turbò, ma interruppe con accento offeso:
— Come crede Ella potere a me volgere ed applicare simili parole?
— Come? E non crede Lei che sia un'imprudenza il manifestare apertamente
l'impazienza e il cattivo umore d'una protratta aspettazione. E poi,
cessata quest'attesa, lasciare così facile il varco a interpretazioni
che si dovrebbe fare in ogni modo da escluderle circa certe attinenze?
Candida fece un moto. La vecchia marchesa le pose con gesto famigliare
l'estremità del suo ventaglio sopra il braccio.
— Permetta. Io non le parlo come una madre, nè come un confessore. Le
parlo da amica... una vecchia amica che non è molto severa... _Allez_. E
_mon Dieu!_ non è il male che si fa quello che merita maggior condanna,
ma quello che apparisce... Non dico già che vi sia il male, ma è molto
peggio che si mostri senza esservi, di ciò che sia quando esista e si
nasconda; _comprenez-vous?_ E poi, se una donna può disporsi ad
affrontare con coraggio certe permalosità sociali, alcune _pruderies du
monde_, conviene ancora che la cagione per cui la si espone a questo
modo sia tale da meritarlo.....
Candida era per rispondere alcuna parola quando Virginia entrò
frettolosamente, pallida e commossa, esclamando:
— Ah zia! Usciamo, torniamo a casa, ne la prego.
La marchesa si alzò non senza qualche sgomento.
— _Bon Dieu!_ Diss'ella. Che cosa è dunque capitato, _ma petite?_
Ed ecco quello che era avvenuto.
Benda e la signorina Virginia avevano appena finito il primo loro giro
di danza, quando il marchesino di Baldissero si presentava a farsi
cedere il braccio della sua nobile cugina, secondo l'ottenuta promessa.
Il giovane borghese, benchè assai a malincuore, si affrettò a lasciare
il luogo all'insolente blasonato; e mentre la nuova coppia s'avviava a
prender posto nella schiera dei danzatori, Benda udì il marchesino dire
a sua cugina:
— Fai molto male tu ad accordare delle danze a chiunque venga a
domandartene....
Ma non potè intendere la risposta che diede la signorina a bassa voce,
allontanandosi.
Quelle parole erano fatte per offendere profondamente un uomo che
sentisse la sua dignità, che avesse sangue giovanile nelle vene;
figuratevi poi un innamorato che le oda dette a suo scorno in presenza
della donna che ama! Francesco aveva capito che il ripigliarla subito
per quei detti non era prudente nè conveniente; ma se aveva dovuto usare
forza non poca per contenersi, erasi tuttavia proposto di averne ragione
dal signor marchese col primo pretesto che gli si presentasse.
Era stato inteso fra i due giovani che il nobile avrebbe restituito la
dama al primo di lei compagno, colà stesso dove egli l'aveva presa; onde
Francesco stette piantato a quel luogo ad aspettare. Ma ebbe invano
aspettato un poco che a lui parve assai, e nessuno venne. Guardò nel
salone e vide il marchesino continuare a ballare colla cugina, anche
dopo il giro che solamente gli era stato concesso. Benda si disse che
quella era una indiscrezione che meritava i più vivi richiami. Ma vi fu
peggio, perchè ad un punto, mentre la coppia si riposava, le si accostò
un ufficialetto di cavalleria, e confabulato un poco, il povero borghese
vide che il braccio della nobile danzatrice passava su quello
dell'ufficiale, e che con costui la signorina si slanciava nel vortice
del ballo senza che il meno del mondo si pensasse più a lui, il quale
pel concessogli favore credeva di aver diritto a ballare tutta quella
polka colla segretamente adorata ragazza.
Sapete che gl'innamorati hanno innanzi agli occhi certe lenti che
ingrossano a dismisura o svisano le apparenze degli oggetti. All'amore
qui si aggiunse l'amor proprio ferito. Parve a Francesco che quello
fosse il peggior tratto che gli si potesse usare, e che bisognasse, per
non averne avvilimento e disdoro, una buona e sollecita vendetta. Se
quella non era un'irrepugnabile ragione per ammazzarsi in duello,
Francesco non sapeva più vedercene altre. Stette covando, per così dire,
la coppia che ballava sotto i suoi occhi, a dispetto de' suoi dritti,
con isguardo pieno di collera e di minaccia. Pensava sfidare e il
marchese e l'ufficiale e mandarli addirittura tuttedue all'altro mondo.
Egli, che pure aveva la più mite natura, immaginava senza orrore qualche
tremenda opera di sangue.
Quella polka, che parve eterna al nostro giovane amico, ebbe pur termine
finalmente! Le ultime note dei violini tremolavano ancora per la volta
della vasta sala, quando Francesco si venne a piantare presso alla porta
da cui, per tornare presso alla vecchia marchesa, dovevano passare il
marchesino e madamigella Virginia. Il suo aspetto era fieramente
corrucciato; il solo suo sguardo era una provocazione. Il marchesino che
lo vide, pose l'occhialino sul naso e rispose a quella minacciosa del
giovane con una sua guardatura impertinente e beffarda.
Francesco Benda fece un passo verso la giovane, e inchinandosi con quasi
umile urbanità, le disse:
— La ringrazio, madamigella, di questa polka ch'Ella mi volle favorire,
quantunque l'indiscrezione altrui mi abbia impedito di godere, come
avrei dovuto, di tal favore.
Virginia volle pronunziare alcuna parola, ma il cugino non glie ne
lasciò il tempo.
— Di quale indiscrezione, e di chi intende Ella parlare? Domandò egli
con fiero cipiglio.
Benda lo guardò bene entro gli occhi e rispose con accento provocativo:
— Della sua.
— Signor avvocato: disse il marchese con beffardo disprezzo
nell'accento, uno dei primi doveri del suo mestiere è quello di parlar
convenientemente; ora Ella deve imparare che ad un pari mio non si parla
in quel modo nè con quelle parole.
— Signor marchese: disse Benda di ripicco senza lasciar tempo in mezzo;
uno dei primi doveri d'ogni uomo di garbo è di trattar bene; ed Ella
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