La plebe, parte I - 30

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sue acconciature, che erano di quelle chiamate dai Francesi
_tapageuses_, costavano un occhio della testa e abbagliavano tutte le
donne oneste in tutte le città dove recavasi a dare rappresentazioni la
Compagnia. Avrebbe potuto cento volte abbandonare il dorso nudo del
cavallo e le sottanine di garza per darsi di proposito alla rovina di
qualche Creso; ma non si affrettava nella scelta, perchè le piaceva il
lusinghiero tumulto del circo plaudente, la inebbriava il grossolano
incenso dei battimani e delle grida d'entusiasmo della plebaglia stivata
ad ammirarla nell'ultima galleria, le mordeva per così dire con diletto
l'anima la lotta incessante col pericolo sempre affrontato e vinto.
Nessuno era più temerario nel suo ardimento di lei, che le chiome
rossigne abbandonate al vento passava innanzi ai guardi del pubblico
sbalordito, al galoppo furibondo del suo cavallo, come una meteora,
sicura, sorridente, colle sue forme di corpo da statua greca e la sua
faccia e il suo atteggio da cortigiana e da baccante. Essa sapeva che,
se non i cuori, i desiderii di tutti quegli uomini che la saettavano
cogli occhi accesi, la seguitavano in quella corsa sfrenata, e se ne
compiaceva con maligno disprezzo del sesso forte in fondo alla sua
indole così prematuramente corrotta. Quando aveva fatto fremere tutte
quelle centinaia di spettatori pei rischi a cui si esponeva con superba
indifferenza, quando chiamata nell'arena sei o sette volte alle ovazioni
del pubblico in entusiasmo, ella veniva a ringraziare con un sorriso che
si sarebbe potuto dire quello d'una Messalina stanca ma non sazia, ella
ai suoi compagni a mezza bocca soleva dire, mostrando il pubblico con
una occhiata piena di disprezzo: — Massa d'imbecilli! — Ma l'unica cosa
che le facesse battere un pochino il cuore erano tuttavia gli applausi
di quegl'imbecilli.
Gian-Luigi, che appariva fra i giovani più eleganti della città, andava
a prendere lezioni d'equitazione dal direttore di quella compagnia, e in
tal modo aveva stretto conoscenza con tutti gli artisti ed assisteva
alle prove dei loro spettacoli. Colla _Leggera_, egli, fosse calcolo, o
indifferenza, aveva tenuto quel solo contegno che poteva servirgli per
farsene notare: parlatole freddamente due o tre volte, non prestava a
lei un'attenzione di maggior importanza che a qualunque altra. Questo
modo di trattare in un giovane che era così potentemente leggiadro, che
appariva ricco, che aveva dato assai prove di non esser timido, tornò
per Zoe un mistero cui ebbe curiosità di penetrare. Poi la sua vanità fu
punta da questa freddezza che pareva disdegno. Cominciò a lanciare verso
di lui alcuni di quegli strali che tiene la civetteria nel suo turcasso,
a cui Gian-Luigi oppose una corazza adamantina di noncuranza. Il vero è
che si studiavano ambedue a vicenda, e l'uno voleva coglier l'altro
nella rete.
Un giorno Gian-Luigi era presente alle prove e Zoe, forse desiderosa di
eccitare in lui la meraviglia, volle tentare l'addestramento d'un
cavallo indomato, cui temevano di cavalcare i più forti ed audaci degli
uomini della compagnia. Era una magnifica bestia piena di fuoco, colle
gambe asciutte, il collo arcato, la groppa incavata. Strepitava,
scalpitava, s'inalberava, tenuto a mano pel morso dal mozzo di stalla.
Zoe in un salto leggiero gli fu sopra e raccolse nel suo pugno piccolo
ma nervoso le briglie, e la lotta fra il quadrupede e l'amazzone
cominciò di botto. Ogni fatta scambietti, e corvette, e salti, e svolti,
e sparar di groppa fece l'animale imbizzarrito, fremente, bianco di
spuma la bocca, rosse come di fuoco le froge; ella stette salda,
tranquilla, col suo sorriso quasi disdegnoso. Sì, Gian-Luigi l'ammirava:
e chi non l'avrebbe ammirata? Tanta forza unita a tanta grazia, tanto
coraggio in tanta leggiadria! Ad un tratto il cavallo, stanco,
indispettito di quella pugna in cui la debolezza aiutata
dall'intelligenza e dall'arte prepoteva sopra la sua forza, volle
finirla ad ogni modo anche con suo danno. Prese la corsa e si precipitò
verso uno dei pilastri che sostenevano le gallerie dell'anfiteatro, per
isbattervi contro la sua nemica e se stesso. Fu un grido solo di
spavento dalla bocca di tutti gli spettatori che miravano con vivissimo
interesse quella contesa e che videro impossibile all'amazzone il
frenare la bestia furibonda. Gli uomini si slanciarono tutti a quella
parte, ma col timore pur troppo di non raccogliere più che un corpo
sfracellato. Fra tutti giunse primo Gian-Luigi che in un salto fu ad
abbrancare alla vita la fanciulla, la trasse violentemente di sella e
potè recarsela via fra le braccia nell'istante appunto in cui il cavallo
precipitava contro il pilastro.
Zoe era diventata pallida, il suo cuore le parve cessar di battere un
istante, gli occhi le si appannarono e si chiusero. Ma non fu che un
fugacissimo minuto. Tosto tosto si trovò pienamente padrona di sè e
provò una specie di dolcezza che le riusciva affatto nuova, nel sentirsi
appoggiata e sostenuta al petto potente di quel bel giovane, la cui
faccia così splendidamente bella era tanto vicina alla sua che l'alito
delle loro bocche si confondeva.
— Ah! Lei mi ha salva la vita: diss'ella al _medichino_, a voce bassa,
come se si vergognasse di confessare la sua obbligazione, quasi che una
sua sconfitta.
Poscia si sciolse dalle braccia di lui; si fermò sopra i suoi piedini,
si riscosse come fa chi vuol torsi dalle spalle un peso che lo
infastidisca, guardò fissamente in faccia i suoi compagni che le si
serravano intorno ancora spaventati, e disse loro col suo sorriso
impertinente:
— Ebbene? Gli è nulla..... E quel povero cavallo, che male si è fatto?
Nemmanco il cavallo non s'era fatto gran male. Ei si levò ancora
sbalordito, fremente in tutte le membra. Zoe gli passò sul collo la sua
mano piccola ed asciutta.
— Che matto cattivo! Vorresti accopparmi anche a costo di rovinarti
te..... E sarebbe peccato, perchè sei una troppo bella bestia..... Ma
sta che fra noi la non è finita, e un altro giorno ti vorrò dir io
un'ultima parola.
Stette seguendo attentamente collo sguardo l'animale che veniva
ricondotto a lento passo nella scuderia, e parve che questo soltanto la
occupasse. Poi ad un tratto si rivolse a Gian-Luigi e guardandolo
fissamente entro gli occhi gli disse con una certa bruschezza:
— La vorrebbe farmi anche il favore di accompagnarmi a casa?
Il _medichino_ si inchinò senza pronunziar parola.
Giunti nella sontuosa dimora della saltatrice, Gian-Luigi stette dieci
minuti in compagnia di lei con tutto il riserbo che avrebbe potuto avere
per una verginella, mentr'essa lo guardava sempre fiso con curiosa
insistenza che poteva anche sembrare contrarietà. Il giovane si alzò,
strinse la mano leggermente alla donna che stava sdraiata sopra la sua
poltrona, e prese commiato dicendo:
— Avrete bisogno di riposo e vi lascio.
La _Leggera_ non rispose a tutta prima, abbandonò freddamente la sua
mano a quella fredda stretta, e con un solo cenno di capo rispose al
saluto del giovane. Ma quando questi fu sulla soglia dell'uscio, mossa
da un subito avviso, ella sorse di scatto, e fu in un salto innanzi a
lui a contendergli il passo.
— Che strano uomo siete voi? Diss'ella piantando in faccia a Gian-Luigi
i suoi occhi smaglianti, color del mare. Voi non cercate alcuna
ricompensa al servigio che mi avete reso?
Il _medichino_ fece un misterioso sorriso.
— Che ricompensa potrei domandare? Temerei essere indiscreto, o che a me
stesso avesse a costar troppo caro quella che desidererei ottenere.
Zoe lo prese per mano e lo ricondusse a seder presso di sè sopra un
sofà.
— Perchè non mi avete fatto mai la corte, voi? Diss'ella sfacciatamente,
prendendo una delle sue mosse le più seduttive e procaci.
Il _medichino_ rispose brutalmente:
— Perchè non sono abbastanza ricco per comprarvi, e mi accorsi tosto che
voi non avete nè cuore, nè sensi da potere essere sedotta dall'amore.
La _Leggera_ fece un miracolo, arrossì.
— Voi avete ben trista opinione di me..... E s'io ci tenessi a provarvi
che avete torto?
— Non domando di meglio.
Alcuni mesi dopo questi due, da amanti — se si può dar loro tal nome per
la relazione che avevano insieme — erano diventati confidenti e direi
quasi complici nella prosecuzione d'uno scopo comune, che era una guerra
nascosta, ma accanita e implacabile contro i favoriti dell'attuale
assetto sociale. Si erano intesi compiutamente, le loro anime, i loro
odii, le loro invidie, i rancori, le avidità s'erano affatto
compenetrati e camminavano di conserva assecondandosi.
Zoe, dietro le splendidissime offerte d'un alto personaggio che teneva
un posto dei primi nella gerarchia dei potenti della terra, aveva finito
per abbandonare la sua carriera artistica, a ciò consigliata eziandio da
Gian-Luigi; e nella sua dimora, la più sontuosa che si potesse
immaginare, accoglieva tutta la gioventù mascolina elegante che avesse
denari da gettare nelle matte spese, negli sfarzosi regali, nelle
sciocche futilità del lusso il più sfrenato e nel giuoco, a cui sorgeva
non mai abbandonato l'altare nelle sale della _mantenuta_.
In queste sale entriamo dunque sulle orme di Gian-Luigi, il quale dopo
il teatro vi si recò insieme con quei due che aveva scelto a suoi
padrini pel duello intimatogli dal conte San-Luca.


CAPITOLO XXVI.

Le sale della _Leggera_ erano piene di luce e di uomini fedeli di tutto
punto ai dettami del figurino. Ad un tavoliere di _Faraone_ sedeva per
tenerci banco Gian-Luigi. A mezzo d'un _taglio_, i due ufficiali ch'egli
aveva condotto seco, i quali s'erano accontati in un salotto vicino col
marchesino di Baldissero e col conte Langosco, vennero a dirgli in
un'orecchia:
— Tutto è inteso.
— Va bene: disse con tutta indifferenza il _medichino_. Dopo il giuoco i
ragguagli.
E continuò con tutta scioltezza e col più allegro umore del mondo a trar
giù le carte, le quali, come se obbedissero alla volontà da lui
manifestata in teatro alla Zoe, quella sera gli erano avverse
inesorabilmente e lo facevano perdere a rotta di collo.
Ma nello stesso tempo che il giovane appariva in una vena di tanta
disgrazia, mai non s'era mostrato tuttavia in tanta vivacità ed allegria
di spirito; di guisa che i giuocatori che si stringevano al tavoliere da
lui tenuto, tra per la contentezza del guadagnare, tra per la felicità e
il brio dei motti che schioppettivano sulle labbra del _medichino_,
avvicendavano le parole del giuoco colle più franche risate in una
conversazione animatissima e burlona.
Il conte di Staffarda era venuto ancor egli ad aggiungersi a quel
cerchio e guadagnava ancor egli, anzi guadagnava più ancora degli altri,
quantunque avvezzo ordinariamente a perdere di molto: le carte sotto le
mani di Gian-Luigi parevano metterci una certa galante insistenza a
farlo vincere. Anche il conte rideva delle uscite e dei motti del
_medichino_, e, fra se, ammirava più che gli altri quella libertà dello
spirito, quell'agiata noncuranza, egli che sapeva il giuocatore alla
vigilia d'un giuochetto non affatto scevro di pericoli.
Dopo un'ora Gian-Luigi depose le carte e si alzò senza pure una moneta
più innanzi a sè nè in tasca.
— Basta: diss'egli. Lascio altrui il vantaggio del _banco_.
Aveva pagato tutte le vincite a contanti, eccetto il conte Langosco al
quale rimaneva ancora debitore d'una cinquantina di _marenghi_ su
parola.
— Signor conte: gli disse, passandogli vicino nell'allontanarsi dal
tavoliere: le rincrescerebbe venir meco per cinque minuti di là?
Il marito di Candida nulla rispose, ma si alzò e si mostrò pronto a
seguire il giovane, il quale, entrando innanzi, andò sino ad una
galleria che guardava verso il cortile, nella quale, chiusa a cristalli,
erano tenuti come in una stufa arbusti e fiori vagamente disposti.
Lampade frammesse alle frondi e pendenti dalla volta entro cestellini
vestiti di piante erratiche fiorite, illuminavano vagamente quel luogo
in cui appena era se giungeva il mormorio delle voci di tanta gente
raccolta nei due salotti.
Gian-Luigi incominciò senz'altro:
— Il debito che ho verso di lei, sono in obbligo di pagarglielo
domattina....
Il conte fece un atto, come per dire: — Di che cosa mi venite a
discorrere ora?
— E lo farò senza fallo io stesso, se il conte San-Luca me ne lascia la
possibilità: ma siccome è tra le cose possibili — quantunque però io non
la creda probabile — che il signor conte mi mandi all'altro mondo con
due dita di lama o una pillola di piombo in corpo, perchè io non so
ancora se ci batteremo alla spada o alla pistola....
— Alla pistola: disse il conte Langosco.
— Va benissimo. Siccome, dico, in tal caso non potrei adempire io stesso
a quel mio dovere, non voglio per ultimo saluto lasciar lei
defraudandola di ciò che le spetta.
— Eh via! Di queste cose non occorre parlare: disse superbamente il
conte di Staffarda, accennando volersi partir di là per metter fine a
quel colloquio.
— Signor sì, che gli occorre: soggiunse con voce ferma il _medichino_,
senza punto muoversi.
Trasse di tasca un portafogli ed appoggiando ad una mensola carica di
vasi di fiori un fogliolino di carta vi scrisse su poche parole, in cui
si dichiarava debitore al conte della somma testè perduta al giuoco,
quindi porgendo al marito di Candida quella carta ripiegata, riprese a
dire:
— Se io soccombo, si troverà fra le mie carte un testamento. L'esecutore
testamentario, che in esso ho nominato, è un buon sacerdote, un parroco
di campagna: a lui abbia la compiacenza, signor conte, di recare questo
foglio, ed egli, che conosce la mia scrittura, si affretterà a
soddisfare per me il mio debito.
Il conte s'inchinò in segno d'acquiescenza e di ringraziamento. Egli non
poteva a meno che riconoscere la delicatezza del tratto ed encomiarla
fra sè, come aveva sin'allora ammirate la libertà e la vivacità di
spirito di quel giovane, vero indizio di un coraggio reale, non
millantatore, nè artefatto.
— Del resto, continuò Gian-Luigi, non occorrerà nulla di tutto ciò e
sarò io a portarle domattina, prima di mezzogiorno, la somma dovuta a
casa sua.
— Cospetto! Disse sorridendo il conte. Lei è molto sicuro del fatto suo.
— Sicurissimo. Il conte San-Luca mi sbaglierà, ed io lo ferirò dove mi
parrà e piacerà.
— San-Luca tira bene.
Gian-Luigi crollò le spalle e fece un sogghigno.
— Al tiro del Valentino, con una pistola _à double détente_ può darsi;
ma in aperta campagna, in faccia ad un uomo che lo guardi entro gli
occhi, così....
E fulminò addosso al conte uno sguardo così imponente ed imperioso che
anche quest'esso lo sentì come una minaccia atta a turbare l'animo d'un
uomo anche non pauroso.
— Le dico io, continuava il _medichino_, che non avrà più tutta quella
fermezza della mano che si richiede per mandare all'altro mondo una
creatura a lui simile e — mi permetta quest'orgoglio — uguale.
— E Lei? Disse Langosco. Crede che non farà alcun effetto anche a Lei il
trovarsi dinanzi per bersaglio un uomo?
— No, signor conte. Anzi tutto io sono convinto d'aver la ragione dalla
mia, e che il signor di San-Luca fu meco villano e screanzato. Ho quindi
per me lo sdegno dell'orgoglio offeso e la coscienza del mio buon
diritto. Inoltre, avessi anche torto, le confesso che non credo sia nato
ancora l'uomo che possa incutermi un timore od una soggezione.
Gian-Luigi diceva codesto con tanta semplicità e con una sicurezza così
spoglia di jattanza che il conte avvertì quella essere la pura e
semplice verità.
— Quanto poi alla sicurezza del mio polso....
Adocchiò sopra il tavolino che era in mezzo alla galleria una di quelle
piccole pistole a solo cappellozzo, che si dicono di salon, colla quale
la _Leggera_ si divertiva a tenersi la mano e l'occhio esercitati al
tiro, e fu a prenderla.
— To', continuò Gian-Luigi, ecco che posso dargliene tosto una prova.
Caricò la pistola d'uno di quei cappellozzi colla pallina di piombo,
ond'era piena una scatoletta che trovavasi su quel medesimo tavolino,
poscia fattosi ad un capo della galleria guardò verso l'estremità
opposta qual oggetto potesse prendere per punto di mira.
— Guardi: riprese additando colla pistola un gruppo di fiori in fondo
alla galleria; guardi quella ciocca di azalee; la vorrebbe farmi il
favore d'indicarmi quale di quei fiori ho da abbattere col mio colpo?
Il conte, miope com'esso era, pose a cavalcioni sul naso il suo
occhialetto a molla e guardò attentamente quel ramoscello fiorito.
— Questo qui: diss'egli poi additando uno di quei fiori che pendeva
frammezzo a due fogliuzze.
— Bene!
Gian-Luigi chinò la pistola, e parve non aver nemmanco il tempo di
mirare, si tosto sparò.
Il conte s'accostò frettolosamente al cespuglio. Il fiore da lui
additato era sparito, senza che nè l'una nè l'altra delle due frondi in
mezzo a cui si trovava fosse menomamente scalfitta.
— Bel colpo! Diss'egli approvando anche con un cenno del capo. Bel colpo
davvero!
Il _medichino_ gettò là quell'arma da giocattolo e si riavvicinò al
conte.
— Credo poter dare per sicuro di colpire nove volte su dieci.
— Cospetto! Esclamò il conte guardando coll'occhialetto la faccia
tranquilla di Gian-Luigi. Ed a quel povero San-Luca, gli vorrà Ella fare
molto di male?
Gian-Luigi mosse le labbra ad una smorfia quasi disdegnosa:
— Peuh! diss'egli, il meno possibile. Lo colpirò nell'avambraccio. Io
non avrei voluto fargliene affatto di male; ed è perciò che dapprima fui
così rimesso con Lei che Ella signor conte me ne avrà stimato fin troppo
pacifico. Ma poichè, dal contegno che Ella ha tenuto con me, ho dovuto
accorgermi che il signor San-Luca aveva le fiere intenzioni d'un
gradasso ho deciso di lasciargliene un ricordo che lo ammonisca per
l'avvenire ad essere meno insolente prima e meno tenace di poi nella sua
prepotenza....
In questa un'ondata di voci allegre ed un rumore di stoviglie e posate
giunse sino alla galleria dove stavano i due nostri interlocutori.
Il _medichino_ s'interruppe:
— Ve' che gli altri sono già a cena; andiamoci anche noi senza altro
indugio.
Passò il suo braccio sotto quello del conte con una certa famigliarità
da compagnone, che in quel punto non fu trovata sconveniente
dall'orgoglioso aristocratico, non disposto a tollerarla da chicchessia,
e s'avviarono di conserva verso la stanza da mangiare.
Il programma che Gian-Luigi s'era prefisso fu eseguito appuntino in ogni
sua parte. Il domattina il povero San-Luca riceveva una palla nel
braccio, che lo condannava a venti giorni di malattia; il _medichino_
diventava più famigliare di prima con i due padrini del suo avversario,
il conte Langosco e il marchesino di Baldissero; un mese più tardi si
faceva una specie di festino di riconciliazione cui pagava il conte
San-Luca, il quale così la pagò in tutte le maniere. Nessuno più dei
nobili frequentatori del salotto e del palchetto della contessa, ebbe la
menoma velleità di mostrar disprezzo o fare pure una sembianza
d'oltraggio al dottore Luigi Quercia.
E Candida? Quella sera medesima in cui aveva luogo la contesa fra
San-Luca e il suo amante, ella si struggeva dal desiderio di ritrarsi
presto a casa, affine di leggere quel biglietto che Gian-Luigi le aveva
detto essere nella scatola di dolci. Lo spettacolo, la compagnia e la
conversazione dei visitatori, il rumore ed il caldo della sala, tutto la
impazientava maledettamente. Avrebbe voluto andarsene tosto: ma non
l'osava. Dopo ciò ch'era intravvenuto nel suo palchetto, che cosa
avrebbe detto il _mondo_ del suo sollecito ritirarsi? Quel complesso di
persone indifferenti e maligne, all'autorità delle cui sentenze tutti
vanno soggetti, agli strali delle cui ciarle tutti sono bersaglio, quel
mostro indefinibile di mille lingue che chiamasi il _mondo_, che tutto
vuol sapere, che tutto vuole indovinare, che si piace sciorinare ad
oggetto di maldicenza i più riposti segreti; che all'uopo anche li
inventa per generosamente regalare a questi ed a quelli le morali
magagne ond'egli si diletta; il _mondo_ avrebbe fatto le più maliziose
induzioni; ed essa che aveva il coraggio di fronteggiare i giusti
richiami e i legittimi rimproveri che potrebbe farle il marito, come ne
avrebbe affrontata anche la collera, se il conte fosse stato uomo da
dare in escandescenze, ella si arrestava intimorita ed esitava innanzi
al susurrio delle ciarle mondane.
Finalmente, come a Dio piacque, giunse l'ora in cui ella poteva levarsi
dal suo palchetto senza fare stupire i cannocchiali degli abbuonati e
destare le non caritatevoli induzioni delle signore. Rispose con nervosa
rapidità alle strette di mano, ai saluti, ai sorrisi dei suoi
corteggiatori; avvolta nel suo mantelletto impellicciato, fece di volo
quel po' di scale, si precipitò nella carrozza di cui un lacchè le
teneva aperto lo sportello sotto l'atrio, e rincantucciatasi in un
angolo, trovò che i cavalli camminavano troppo lentamente, quantunque
col loro trotto serrato in meno di cinque minuti la conducessero sotto
l'ampio portone del palazzo di Staffarda.
Salì correndo sino al piano superiore, s'affrettò a recarsi nel suo
camerino da acconciarsi. Pose sopra la sua _toilette_ la scatola di
dolci che s'era portata seco, e gettò uno sguardo nello specchio, dove
le apparve la sua figura commossa colle sopracciglia corrugate. Gettò
via il mantelluzzo che teneva ancora sulle spalle e si portò ambo le
mani a quella bella fronte che le ardeva e doleva.
La sua cameriera le si avvicinò in quella, e Candida levando il capo ne
vide l'immagine riflessa entro lo specchio. Si rivolse di scatto e disse
con accento corrucciato:
— Che volete? Che fate costì?
— Sono qui per ispogliarla...
— No.... non voglio nessuno... Lasciatemi... farò da me... voglio esser
sola.
La cameriera uscì di stanza, ma ch'ella si astenesse dall'ascoltare alla
porta non oserei affermarlo, imperocchè la ci tenesse molto a soddisfare
i desiderii manifestatile da Gian-Luigi.
Candida, quando la cameriera fu uscita, s'affrettò ad afferrare la
scatola de' confetti e la rovesciò sopra il marmo della _toilette_, poi
con mano agitata frugò fra i dolci fin che trovò ed ebbe preso il
biglietto di Gian-Luigi. Lo aprì sollecita e lo lesse palpitando alla
luce delle candele che la fante aveva accese innanzi allo specchio. Il
primo sentimento in lei fu di sdegno.
— Gli è così che osa parlare a me? Alla contessa di Staffarda? Così
potrebbe adoperare con quella sua vile creatura tolta dal trivio, ma con
me? O Dio! Che ho mai fatto amando quell'uomo! Mi dice, come una
minaccia da spaventarmi, che si allontanerà per sempre da me... E
s'allontani!..... Sarà finita una volta! Avrò cessato di soffrire.... e
di arrossire per lui.... Si allontani....
Ma questa parola — non ostante lo stato d'eccitazione in cui la si
trovava — la seconda volta che essa la pronunciò le parve pungerla come
una spina al cuore. Lasciò cadere sul piano della _toilette_ la
letterina che teneva ancora fra le dita e si diede a passeggiare
concitatamente per lo stanzino tutto specchi e intagli di legno dorato.
La sua immagine riflessa alle due pareti dagli specchi, a quella poca
luce delle candele, apparivale come due spettri che l'accompagnassero
nelle sue mosse agitate. Si stracciò i guanti che aveva ancora alle mani
e li gettò per terra; si tolse rabbiosamente di capo i fiori che
l'adornavano e li buttò via. Si sentiva addosso come un malessere
materiale di cui le pareva avrebbe dovuto trovar modo a liberarsi. Andò
a sedersi alla _toilette_, appoggiò il bel braccio denudato al freddo
marmo di essa e guardò lungamente nello specchio la sua faccia pallida e
conturbata, la bella forma del suo busto scollacciato, l'eleganza delle
sue vesti da festa che stranamente contrastavano col rodimento che aveva
entro sè, colla commozione dolorosa delle sue sembianze.
— S'egli almeno mi amasse! Esclamò ella: ma no: sento ne' suoi modi,
anche ne' suoi detti più caldi che manca l'amore. Oh essere pareggiata a
quelle ignobili donne!..... Ah! se m'amasse davvero, come tutto il resto
gli perdonerei!...
Riprese in mano la lettera e la lesse di nuovo. Un subito rimutamento si
fece in essa.
— Egli ha ragione, proruppe. Non ho io ascoltato più la mia boria che
l'amore? Non ho ceduto al timore del _mondo_?... Egli si afferma degno
di me... Oh! se potesse persuadermene....
Il domani a mattina la contessa, vestita modestamente di scuro con una
fitta veletta sulla faccia, recavasi sollecita in un'umile casa posta in
una viuzza remota della parte più antica della città, e per una scaletta
deserta saliva ad un primo piano dove intromettevasi per un uscio
socchiuso, cui serrava sollecitamente dietro di sè.
In quella camera, ove così di celato recavasi la contessa di Staffarda,
stava ad attenderla Gian-Luigi, istrutto già quella stessa mattina dalla
cameriera dell'agitazione e delle emozioni che, la sera innanzi, il suo
biglietto aveva prodotte nella misera donna.
Il _medichino_ era trascuratamente sdraiato sopra una poltrona presso il
fuoco che ardeva nel camino. Al vedere entrare la contessa si alzò, ma
non le mosse incontro, non le tese la mano, non fece atto alcuno di
gioia, non le diede altrimenti la benvenuta che inchinandosi con un
cerimonioso saluto, mentre il suo occhio la squadrava freddamente con
una fierezza accusatrice.
Candida, quella notte, che aveva dolorosamente vegliato, quella mattina
nel decidersi a venire colà, lungo la strada, che in fretta percorse
combattuta l'anima fra la speranza ch'egli pur venisse al convegno e fra
il timore che secondo quanto aveva scritto non ci si recasse; Candida
aveva pensato mille modi, e tutti diversi, di contegno da tenersi con
esso lui; ora un orgoglioso disdegno, ora una benignità da superiore,
ora una indifferenza da umiliarlo, ora una dignità di generoso condono;
ma quello che tenne in realtà fu il contegno a cui non aveva pensato e
che era il più naturale: fu quello d'un'amante appassionata che teme,
l'uomo da essa amato, voglia rompere il nodo che li stringe.
Da parte dell'uomo fu l'orgoglio, la superiorità, la freddezza: ella,
appena entrata, appena visto l'aspetto severamente contegnoso di lui,
dimenticato ogni altro suo proponimento, erasi gettata al collo del suo
diletto e diceva in preda al suo commovimento, più forte della volontà
d'ogni preconcetto disegno:
— Tu sei pur venuto, Luigi, e siine benedetto... Se qui non ti avessi
trovato, sarei corsa a casa tua... Avrei insistito in ogni modo fin che
avessi potuto giungere presso di te... E se tu mi avessi inesorabilmente
respinta... Dio mi perdoni!... Non so qual peggior pazzia non avrei
fatta!
— E il mondo? Disse Gian-Luigi con un crudele sogghigno.
Candida scosse il capo ed arrossì come persona cui si rinfaccia un suo
fallo.
— Il mondo? Riprese ella, quasi con isdegno. Che mi importa di esso mai?
È il tuo amore che voglio.
Passò di nuovo il braccio intorno al collo di Luigi e soggiunse con
appassionato abbandono:
— Vuoi tu ch'io lo lasci — e per sempre — questo mondo maledetto? Vuoi
tu ch'io sia tutta per te e solo per te?
Gian-Luigi si tolse d'intorno al collo quel braccio leggiadro che lo
cingeva:
— No: diss'egli: chè forse codesto avresti da rimpiangere un giorno.
Le prese le mani e glie le strinse forte sul suo petto, guardandola con
quella potenza, ond'erano dotati i suoi occhi neri, di far penetrare in
altrui la sua volontà.
— Voglio che tu non mi sacrifichi a questo mondo, che in presenza di
esso non ti vergogni di me, che non faccia comunella coi miei nemici per
umiliarmi della supposta inferiorità della mia condizione.
Candida fece un atto come per protestare; ma egli, stringendole con più
forza le mani, non lasciò che parlasse.
— Io mi sento dappiù di tutti quei burleschi gentiluomini della tua
società che non hanno oramai nulla del cavaliere fuor che i titoli e la
superbia. Voglio che tu non solo riconosca in te stessa che così è: ma
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