La plebe, parte I - 12

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questa suole pur sempre arrecare. Guglielmo Tell non amava egli la sua
terra e la sua libertà? Ma per deciderlo alla rivolta occorse che il
tiranno lo insultasse nella sua dignità d'uomo ed empiamente lo
trafiggesse nelle sue viscere di padre. Favola o storia, quella è la
verità della natura umana. Tu dunque, come ognuno di questi nostri
amici, sei pronto alla disperata lotta ed alle prove estreme. E sia! Ma
prevediamo un poco quale sarà quel futuro che noi riusciremo a
provocare. Hai tu pensato, in caso di sconfitta, ciò che sarà di te e
della tua famiglia? Noi, ribelli, ci può colpire anche la morte;
sicuramente la carcere lunga e dolorosa o l'ugualmente doloroso esilio.
Io fui sempre solo al mondo, Romualdo non ha più nessuno de' suoi, Mario
Tiburzio e Giovanni Selva hanno ormai, per diversa ragione ma con
identico effetto, spezzato ogni vincolo colla famiglia, e possono
riputarsi soli ancor essi; ma tu, Francesco, ma tu, Antonio, avete un
legame sacro che vi stringe a degli esseri carissimi, cui trascinerete
con voi nella vostra rovina. Vinceremo, voi dite, e Mario, acquistato il
concorso della forza cieca e irresistibile della plebe, è pronto ad
affermare certo il successo. Ma anche di questa vittoria sono terribili
gli effetti. Quella plebe suscitata adescandone i materiali istinti, che
in una parola si traducono in sete di rapina, quella plebe manderà a
soqquadro l'assetto sociale. Immaginatevi quanti eccessi, quanti danni,
quante ruine! Anche in codesto noi non siam tutti in pari condizione.
Che ci ho io da perdere, io che non possiedo nulla? Ma tu, Francesco,
hai pensato che il baratro cui stai per aprire ingoierà molto
agevolmente, e voglio anzi dire sicuramente, le ricchezze di tuo padre,
le fortune della tua famiglia? Quelle vaste officine che tuo padre ora
governa con mente retta e con mano ferma, saranno peggio che deserte,
saranno devastate e distrutte; quegl'immensi capitali cui nella tua
famiglia radunarono i lavori costanti e tenaci di più generazioni
d'uomini attivi ed intelligenti, quei capitali ora investiti in
edificii, in macchine, in magazzini di merci, in prodotti ed in
istrumenti di nuova produzione, quei capitali che ora, mercè il lavoro,
fruttano pane a tanta gente, saranno dispersi; per tuo padre è assai
probabilmente la rovina, per la tua famiglia la miseria fors'anco....
Francesco Benda, in preda ad una viva agitazione, si coprì con una mano
gli occhi e interruppe con febbrile commozione:
— Oh taci! taci!
Tiburzio, che aveva ascoltato colla fronte corrugata le parole di
Maurilio, disse a sua volta con amaro accento:
— Questa è sapienza di troppo prudenti propositi. È legge fatale nella
creazione che nissun bene cospicuo si ottenga senza passare tramezzo ad
una severa prova di mali. Troppo facile appunto sarebbe l'eroismo, se il
fine sublime che uom si propone potesse raggiungersi senza suo danno,
senza suo schianto di cuore. Bisogna, assolutamente bisogna che anche un
popolo, per arrivare un progresso, lo sconti colle lagrime e col sangue.
Quando la meta è santa, è dovere camminare animosamente verso di essa,
non curando se per arrivarci occorra lacerarsi fra i triboli e seminar
qualche rovina. Chi pensa a questa soltanto e s'arresta pel timore di
essa, non ha cuore di patriota.
Maurilio divenne rosso sino sulla fronte e i suoi occhi balenarono d'una
vivissima fiamma. Avreste detto che vivaci parole stavano per prorompere
dalle sue labbra; invece, per una di quelle sue solite e subitanee
riazioni, impallidì nuovamente di botto, si tacque e tornò a sedersi
presso il camino, dove stette un po' accasciato, il petto curvo, gli
occhi semispenti fissi di nuovo nell'agitarsi della fiamma.
Ebbe luogo un istante di silenzio, in cui tutti sei quei giovani
stettero immobili, lo sguardo rivolto a terra, dominati da una
preoccupazione suprema.
Fu Maurilio a riprender primo il discorso, ma colla voce più fievole,
più sorda e sommossa che mai.
— L'uomo forte (disse egli senza cambiare punto di postura), affrontando
il pericolo, deve rendersi conto di tutta l'estensione di esso. L'eroe è
quello che colla coscienza dei danni che gli sovrastano, s'accinge pur
tuttavia all'impresa, il debole chiude gli occhi, non vuol vedere i
pericoli, e poi quando vi si trova avvolto, si pente, si smarrisce
d'animo e vien meno a se stesso. Ho pensato miglior avviso richiamare le
vostre menti alla realtà dei rischi che ci aspettano. Ciò non vi
trattiene? Tanto meglio. Ed io — già ve lo dissi — sono con voi. Fate
arrivare il giorno della battaglia, e vedrete se io, semplice soldato,
non combatterò con tutta voglia e con tutto ardore.
Si strinsero tutti sei intorno al fuoco quegli imprudenti ma generosi
giovani, e gravi decisioni furono prese; quali fossero vedremo in
appresso.
Quindi si parlò eziandio del caso particolare di Francesco. Il duello
col marchesino di Baldissero bisognava assolutamente che avesse luogo.
Uno dei padrini era il sedicente dott. Quercia; l'altro fu deciso che
sarebbe stato Giovanni Selva.
Francesco Benda, coi più affettuosi saluti e strette di mano degli
amici, accompagnato dagli augurii di tutti, se ne partì per andare a
casa, a porre in sesto alcune sue carte, a scrivere un addio alla sua
famiglia; a prepararsi per lo scontro. Selva sarebbe andato da lui
all'ora posta dal dott. Quercia.
Antonio Vanardi si ritrasse nelle sue stanze, dove fece piano più che
potè a coricarsi per non isvegliare la moglie, la quale lo avrebbe
tempestato di mille domande. Ma ciò non gli valse gran fatto, perchè
quando fu a letto ed ebbe spento il lume, la profonda agitazione che
aveva addosso per le cose avvenute nella sera, e specialmente per le
decisioni prese, non gli lasciava non solo chiuder occhio, ma nemmanco
quietar la persona; onde, e gira e rigira fra le coltri, e sospira e
sbuffa, la Rosina fu presto svegliata, ed accortasi dello stato in cui
si trovava suo marito dopo aver vegliato così tardi, cominciò
quell'interrogatorio insistente e fastidioso, frammischiato di collere,
di preghiere, di lagrime, di supposizioni, cui il buon Antonio temeva
cotanto.
Certo il marito si difese bene in questa lotta contro la curiosità e
diciamo pur anche l'affettuoso interesse della moglie, e non una parola
gli scappò dalle labbra che potesse mettere in sulla strada della verità
la Rosina, poco destra d'altronde nello indovinare e specialmente in
questo genere di cose che costituivano un mondo affatto chiuso alla
mente della brava donna; ma una cosa rimase per certa nell'animo della
moglie, ed è che da qualche tempo fra suo marito e gli amici di lui si
maneggiavano dei misteriosi raggiri, che in quella notte si era tenuta
una di quelle conventicole, cui ella aveva già notato altre volte, e che
le cose trattatesi dovevano essere state più gravi del solito, se suo
marito le era tornato dappresso così tardi, così irrequieto, e d'un
umore cotanto alterato che, mentre ella d'ordinario poteva ben vantarlo
come un vero agnello, ora alle interrogazioni di lei si era posto a
rispondere come un basilisco. Ma quali erano questi raggiri? Questo gli
è che le cuoceva sapere. Ora non vi ha nulla di più pericoloso che una
donna ciarliera, la quale sa che vicino a lei esiste un segreto, ed ha
la matta voglia di apprendere questo segreto qual sia.
Mentre Antonio bisticciava colla moglie, Romualdo andava a letto dietro
il paravento, Mario si metteva al tavolino a scrivere appunto per la
grande impresa; Selva e Maurilio si ritiravano nella stanza vicina, dove
avevano ambidue il loro letto l'uno accosto all'altro.
Non avevano sonno neppure. Erano dominati ambidue da una irrequieta
tristezza di pensieri. Maurilio sedette presso al suo letticciuolo, ci
pose su il braccio ed appoggiò a questo la testa che gli ardeva.
L'avreste detto assopito al vederne gli occhi chiusi e l'immobilità
della persona; ma il contrarsi tratto tratto de' suoi lineamenti
manifestava che una dolorosa meditazione possedeva quell'anima. Ad un
punto, di sotto alle palpebre abbassate comparvero due goccioline,
s'ingrossarono fra i cigli, parvero direi quasi, esitare, poi, come
staccatesene a malincuore, lentamente colarono due lagrime giù per le
guancie. Quando le sentì sulle labbra, Maurilio si riscosse; sorse di
scatto, le asciugò con rabbia, e si pose a passeggiare concitato per la
stanza.
Giovanni, che s'era gettato sul letto vestito come si trovava, per
essere pronto a recarsi fra poche ore presso Francesco; Giovanni gli
disse affettuosamente.
— Vieni a riposare, Maurilio.
Questi al suono amichevole di quella voce si fermò e si volse ratto là
donde era partita. La sua fisionomia era commossa con espressione
affatto nuova, quale nessuno in esso non aveva visto mai. Accorse al
letto di Giovanni e gli prese vivamente la mano.
— Tu non mi disprezzi, non è vero Giovanni? Tu non credi che io sia un
vile?
Selva sorse a sedere sul letto e rispose con caloroso affetto:
— Mai no. Che pensieri sono questi?
Maurilio si strinse con tuttedue le mani la vasta fronte e con voce
soffocata e quasi affannosa proruppe impetuosamente:
— Giovanni, questo è un momento strano nella mia vita, un momento che
forse non si rinnoverà più..... Io che sempre fui chiuso in me stesso,
ho bisogno di espandermi.... Soffro ed ho bisogno di parlare. Tu sei
quello che più m'ami... che io più amo.... A te debbo la vita, a te
debbo d'essere stato chiamato fratello da labbro umano.... vuoi tu
accogliere la piena del mio cuore che trabocca? Nessuno mi conosce,
nessuno mi conoscerà forse mai! Vuoi tu leggermi nell'anima?
— Parla, parla: disse Giovanni con calore, abbracciando Maurilio.
Questi sedette sulla sponda del letto dell'amico, e le mani intrecciate
con quelle di Giovanni, così di subito prese a parlare.


CAPITOLO XV.

«Quello, che ora è finito, è giorno solenne per me: _dies nigra notanda
lapillo_: il giorno in cui ricorre quello dal quale incomincia, se così
mi lasci dire, l'epoca storica della mia vita. Ventiquattro anni or
sono, nella prima mattina di un tal giorno di questo mese, io, bambino
di poche lune, fui trovato in mezzo al fango del selciato in una delle
più luride vie di questa città.
«Era un giorno precisamente come quello che or ora è caduto nel baratro
del passato, scuro, tristo, nebbioso, pieno di freddo e di neve. Me lo
ha detto mille volte quel crudele che ebbe, trovandomi a vagire, la
funesta pietà di raccogliermi.
«Non ho nome, non ho famiglia, non sono figliuolo di nessuno. Un fatal
giorno, certo non desiderato, forse paventato, oggetto fin da prima del
nascimento di rammarico e di odio, me ne venni al mondo per incontrarvi
od una subita morte o l'abbandono. La mia nascita forse fu un peccato,
forse un delitto, o venne accrescimento di miseria a miserissimi;
vollero togliersi via dagli occhi con me un rimorso od una vergogna, o
semplicemente una bocca di più da alimentare.
«Fui abbandonato! Là nelle immondizie d'una immonda strada, alla ventura
d'essere schiacciato da un carrettiere incauto, o lasciato morire da
insensibili passeggieri, o da qualche pietoso raccolto.
«Fui abbandonato! Forse di me nulla sapevan che fare! A me nessun
affetto legava l'anima di qualcheduno! Per me la natura non parlava al
cuore di nessuno!
«Non ebbi forse una madre?... Madre! Questo nome che fin dai primissimi
anni mi suona così dolce nell'anima..... Questo nome che quando, ancora
nell'infanzia, udivo pronunciato da' miei compagni mi venivano, e non
sapevo perchè, le lagrime agli occhi!.... Oh forse la povera donna morì
sopra parto e mi lasciò solo: o forse fu collo schianto dell'anima che
dovette cedere alla mano di ferro della necessità che mi staccava dal
suo fianco..... Ah! l'avrei amata cotanto mia madre!.....
«Questa sera mi piacque aggirarmi colà, per quella scura e sconcia
strada in cui vagii neonato in quella cupa notte d'inverno, e scorsi il
miserabile quartiere con lento passo, il cuor palpitante, la mente
commossa, come se uno di que' sassi del selciato, una di quelle
scalcinate ed annerite pareti, una delle anguste, umidiccie porticine,
l'aria stessa che respiravo, mi dovesse ad un tratto miracolosamente
rivelare il mistero, forse infame, della mia origine.
«Quante volte non ho io già fatto quel doloroso pellegrinaggio, e sempre
con quanto spasimo dell'anima segreto, soffocato, dolorosissimo!
«Questa sera, la sorte, là su quella motriglia che a me fu culla, mi
pose innanzi un bambino che piangeva. A quel suono di pianto in tal
luogo, tutta la mia penosa esistenza, accompagnata di disprezzo e di
vergogna, mi sorse innanzi spiccatamente ad un tratto. Se fosse stato un
lattante quel bimbo, l'avrei preso fra le mie braccia, l'avrei recato
meco, avrei voluto essergli padre, avessi dovuto vendere, per nutrirlo,
il sangue delle mie vene. Rivissi in pochi minuti la sintesi intiera di
tutti gli anni che ho travagliosamente trascorsi; ripiansi, per così
dire, tutte le mie lagrime, imperocchè nella corta mia vita passata non
ci sia nemmanco il ricordo d'un sorriso di gioia.
«Oh! perchè fui raccolto se non mi si voleva dar che tormenti? E può Dio
ascrivermi a peccato se io desiderai come fortuna d'essere morto
nell'abbandono, se più volte ho maledetto meco stesso chi seco mi prese
e il momento in cui mi rinvenne?
«Era uno di quei venditori di latte che vengono il mattino per
tempissimo a recare questa derrata ai fondachi di rivendita nella città.
Correndo col suo carro, su cui saltavan le bigoncie, al trotto del suo
cavallo, passò nella strada dov'io era, e il cavallo nell'istante di
schiacciare quel corpicino colla sua zampa ferrata, atterrito forse dal
vedersi innanzi ad un tratto quell'involto biancolastro, fece uno scarto
che diede un fiero sobbalzo all'uomo seduto sul carro.
«— Che cos'è codesto? Disse Menico il quale travide in quello scuriccio
nebbioso qualche cosa per terra. E venuto giù, si chinò e prese tra mano
quel viluppo.
«Visto che gli era un bambino mezzo intirizzito che non aveva nemmen più
la forza di piangere, rimase lì un istante perplesso, non sapendo a qual
partito appigliarsi. Poi, siccome in fondo quell'uomo non era cattivo, e
quando non era ebbro aveva a sufficienza cuore e ragionevolezza, gli
parve troppa crudeltà il lasciar lì quella creaturina e tirar dritto per
la sua strada. Risalì sul suo carro tenendosi fra le braccia il bambino,
e lasciò che il cavallo riprendesse l'andare, mentre egli si diceva: —
Il diavolo mi porti se so che cosa fare di questo marmocchio.
«Siccome il bimbo pareva lì lì per basire senz'altro, Menico intanto
cominciò per porre sulle labbra di esso una bottiglietta che aveva
allato di latte munto di fresco al momento prima di partirsi di casa e
ancora caldo. Glie ne fece colare in bocca a poco a poco alcune goccie,
cui il bambino affamato assorbì avidamente e che di subito alquanto lo
ristaurarono.
«Menico si recò qua e colà a fare gli affari suoi, e sempre teneva sul
carro quel bambino cui aveva adagiato sovra un po' di fieno che ci aveva
per ventura, e sul quale, per tenerlo caldo, aveva gettato la pesante
coperta di lana del cavallo.
«Ad ognuno dei lattivendoli con cui parlava, Menico diceva il caso
intravvenutogli e domandava se di quel piccino se ne volessero
incaricare. Ognuno lo motteggiava e crollando le spalle lo mandava con
Dio.
«— Ma che cosa ho io da fare di questo coso? seguitava a chiedere a sè
stesso Menico sempre più imbarazzato.
«— Menatelo alla Maternità: gli disse qualcuno di coloro a cui egli
recava la provvista del latte.
«— Dovreste recarlo al palazzo di città: diceva un altro: ma a
quest'ora è troppo presto e troverete tutto chiuso.
«— Mettetelo sulla porta d'una chiesa: gli consigliò per ultimo un
cotale. Lì sarà sotto la protezione di Dio, e potete esser tranquillo
che capiterà bene.
«Menico adottò questo consiglio, e quando ebbe terminato tutte le sue
faccende, siccome nella sua strada aveva da passare innanzi alla chiesa
di San *****, determinò di porre sulla soglia di questa il trovato
bambino.
«Non era ancora diradata la tenebra della notte dall'alba, che in quella
nevosa giornata d'inverno tardava a venire. Un semispento lampione
gettava una luce fievole e giallastra sulla neve che si rammentava sopra
gli scalini di San *****, Menico, giunto all'altezza della chiesa fermò
il cavallo, saltò giù del carro e prese su questo l'involto in cui era
il bimbo, allo scrollar del veicolo addormentatosi. La strada era
silenziosa come un sepolcro; nulla si muoveva, nel sonno generale di
tutta la città. Menico si disse non senza soddisfazione che gli era
affatto solo. Ma quando fu per salire gli scalini della chiesa, ecco
dalla soglia di quest'essa staccarsi un'ombra nera, la quale si avanzò
con sollecitudine verso il villano, ed una voce d'uomo pacata, benigna,
soave, dirgli:
«— Giusto voi che aspettavo, Menico.
«Questi, per la sorpresa, poco mancò non lasciasse cadere in terra il
bambino; ma, riavutosi tosto, riconobbe in chi gli parlava il parroco
del suo paese.
«— Lei, Don Venanzio! Esclamò il paesano.
«— Sono venuto ieri a Torino per alcune mie bisogne: disse il prete; ma
stamattina conviene che io torni al villaggio; e siccome il far tutta
quella strada a piedi comincia a stancarmi di troppo, sono venuto ad
aspettarvi qui, dove so che passate sempre, per pregarvi se volete
usarmi la carità di prendermi con voi sul vostro carro e condurmi sino a
casa.
«— Oh si figuri! Disse Menico imbarazzatissimo col suo fagotto in mano.
«Don Venanzio lo vide e domandò che cosa avesse costì, e il villano, non
potendo altrimenti, contò tutto; come avesse trovato quel bimbo e come
volesse lanciarlo in quel luogo.
«Il parroco scosse la testa.
«— No: diss'egli con quella voce così insinuante e persuasiva, di cui
dovevo ancor io sentire cotanto l'influsso di poi: no, ciò non istà
bene, Menico. Iddio vi ha posto innanzi una buona azione da fare e un
gran merito da acquistarvi, e non dovete rigettare ingratamente l'uno e
l'altra. Voi non avete giusto figliuoli; ed ecco che la Provvidenza ve
ne manda perchè possiate godere di tutte le gioie della famiglia ed aver
quindi un sostegno nella vostra vecchiaia.....
«Insomma seppe parlare tanto bene che Menico, il quale pure non era di
cuor tenero, si lasciò convincere essere suo dovere ed anzi suo
vantaggio il tenere presso di sè quel rinvenuto bambino.
«— Quanto a me son già bello e persuaso: finì egli per dire al buon
sacerdote; ma gli è mia moglie che sarà un affar serio a fargliela
entrare. Lei sa che razza di animale essa è.....
«— Vostra moglie, spero che si lascierà muovere ancor essa dalla voce
della pietà che è quella di Dio. Se non glie la fa sentire il suo cuore,
proverò fargliela suonare io all'orecchio; e la Provvidenza mi dia la
grazia, come spero, di convincerla. E se poi ella non vorrà a niun
conto, ebbene allora sarò io che prenderò meco il bambino.
«— Oh! se la si assume lei, sig. Prevosto, di parlare a mia moglie,
disse Menico il quale non osava rifiutare, ma in realtà avrebbe voluto
farlo, allora acconsento di venire innanzi a quella benedetta donna con
questo bel regalo.
«— Dunque andiamo: conchiuse Don Venanzio; e fate correre più che
possa, senza soffrirne, il vostro cavallo, perchè questa povera
creaturina prenda il men di freddo possibile.
«Salirono sul carro, e il buon sacerdote tolse me in grembo e mi tenne
caldo, chiuso nel suo ferraiolo. Menico frustò il cavallo e lo cacciò al
trotto serrato. Un'ora dopo, che tanto ci voleva di tempo a fare il
cammino alla corsa del cavallo, giungevasi al villaggio di X., e il
carro s'arrestava innanzi ad una porta ad arco in un muro di cinta, la
quale metteva in uno sporco cortiletto entro cui la casupola abitata da
Menico e dalla moglie.
«Il parroco discese ed entrò egli prima nel cortile, poi nella stanza a
pian terreno che serviva alla coppia di cucina, di tinello, di camera da
letto, di tutto. Io non seppi mai bene quel che avvenisse e si dicesse
fra quelle tre persone. Ebbi ad apprendere di poi, perchè la Giovanna
medesima, la moglie di Menico, me lo gettò migliaia di volte in sulla
faccia, ch'ella aveva ricisamente e per assai tempo rifiutato il nuovo
carico e resistito a tutte le belle parole e ragioni che le veniva
dicendo il buon curato: e se cedette finalmente, fu certo per la
promessa di qualche soccorso e di qualche vantaggio, che, quantunque la
non ne avesse bisogno, Don Venanzio ebbe fatta a quella donna taccagna
ed avida di denaro.
«Ah! non avesse ella ceduto! La mia infanzia sarebbe certo stata più
lieta, e forse migliore e più felice tutta la mia esistenza.
«Don Venanzio mi lasciò nelle mani loro con mille raccomandazioni a mio
riguardo, e promettendo che avrebbe sempre vegliato su di me; come di
fatti non mancò di fare; ma che poteva egli mai?
«Un giorno, quando già grandicello, un giorno in cui avevo sofferto più
che l'usato — e quanto soffrii sempre, te lo dirò — osai movere
rimprovero a Don Venanzio di avermi fatto entrare in quella famiglia, la
quale al mio bisogno d'affetto non doveva corrispondere che coll'odio,
col disprezzo, coi più crudeli trattamenti.
«— Perchè non mi lasciaste abbandonare sul passo d'una chiesa, dissi al
buon prete, come aveva intenzione di fare l'uomo che mi raccolse?
Qualcun altro più veramente pietoso mi avrebbe forse preso seco di poi;
o sarei stato recato all'ospizio dei trovatelli, e sarebbe stato meglio
per me; e fossi anche morto di freddo, sarebbe stato meglio ancora.
«— Non ribellarti ai decreti della Provvidenza: mi rispose il curato
con quella sua semplicità grave e quell'affettuosità mezzo di padre,
mezzo di maestro in cui sentesi quasi un'ispirazione superiore e la fede
d'una coscienziosa persuasione. Io non fui che lo stromento della
Provvidenza divina. Menico e sua moglie erano soli, e l'avarizia e
l'egoismo li facevano piegare verso il male e la durezza di cuore;
sperai — e che ciò avvenisse pregai internamente, sallo Iddio — sperai
che un nuovo affetto, quello paterno, che nuovi dolcissimi doveri e
nuove gioie famigliari, cui la natura aveva loro rifiutato, avrebbero
esercitato un benigno influsso su quelle anime per avviarle verso il
bene. Così non fu pur troppo; e tu ne hai da soffrire. Non mi pento
tuttavia di quanto feci; e non ti so dare altro miglior consiglio nè
altro maggior conforto, fuor quello di dirti: rassegnati a quelle prove
che Iddio ti manda, e benedici quella mano che ti percuote, se per essa
può aquistare pregio maggiore e merito innanzi a chi la creò quell'anima
immortale che in te alberghi.
«Ma ch'io ti narri le cose per ordine.
«Quando Menico mi raccolse, le mie piccole membra erano avviluppate in
misere fascie senza puntiscritto nessuno. Su di me una lettera su carta
grossolana, scritta da mano inesperta, ed un ricco rosario d'agata, a
cui legato per un filo un bottone stemmato d'argento da livrea di
domestico di nobil casa.
«Li conservo preziosamente questi oggetti: e molte, molte volte li
guardo, li riguardo a lungo a lungo, leggo e rileggo quelle poche righe
di scritto, li interrogo con affanno, come se mi potessero parlare e
dirmi donde vengo, chi sono, chi furono i miei. Essi rappresentano per
me il mistero del mio nascimento, che una folle speranza mi sta
lusingando ancora nell'animo io possa scoprire un giorno. Essi furono i
segreti confidenti delle mie pene d'infanzia, lo sono tuttavia degli
attuali tormenti della mia giovinezza.
«Se li possiedo ancora ne vo debitore a Don Venanzio. Menico me li aveva
tolti, e l'unico pensiero che gli avesse potuto suggerire l'avara
moglie, in proposito, era quello di vendere il rosario ed il bottone, e
beccarsene i denari. Per fortuna il curato indovinò il brutto loro
disegno, e tanto bene e con tanta forza seppe parlare, che indusse
Menico a consegnare quel sacro deposito nelle mani di lui, il quale
avrebbe rimesso quegli oggetti a me, a cui spettavano, quando
grandicello così da poterne capire l'importanza e custodirli colla
voluta devozione.
«Ah! mi ricordo sempre il giorno in cui Don Venanzio mi fece entrare
nella sua cameretta alla _canonica_, ed eravamo soli egli ed io, per
consegnarmi quelle per me vere sacrosante reliquie. Avevo allora otto
anni, ed avevo fatto in quel dì medesimo la mia prima comunione.
Fisicamente ero indietro assai, debole, piccolo, miseruzzo come Dio tel
dica; perchè d'ogni fatta stenti ne avevo sofferti; ma intellettualmente
ero innanzi a tutti i miei coetanei non solo, ma a quelli ancora che mi
sopravanzavano di più anni in età; onde il buon parroco che mi aveva
preso ad istruire e ad amare — fu il solo che mi amasse! — aveva voluto
che celebrassi quell'anno medesimo la mia prima Pasqua, e venissi
insieme in possesso delle uniche cose che io di mio possedessi al mondo.
Era di festa, una domenica, ed una bella giornata primaverile rallegrava
la natura. La cameretta imbiancata di calce del curato, modesta e
pulita, povera e gaia, era tutto profumata dei fiori delle siepi di
biancospino che gli avevan recati le ragazze del villaggio. Una
vivacissima striscia di sole correva sull'ammattonato e si rifletteva in
tinte rosee su tutti gli oggetti circostanti; un'arietta fra tepida e
fresca entrava per la finestra aperta, faceva gonfiare le tende di
semplice cotone e passava come una carezza sui fiori e sulle guancie del
sacerdote e di me.
«Mi era avvenuto parecchie volte di entrare in quella camera o per
domandare il parroco, o per cercare, mandatovi da lui, uno di quei pochi
libri che schieravano a costa l'un dell'altro la loro legatura di pelle
nera, sulla piccola scancìa di legno d'abete che si drizzava allato alla
finestra, sopra una tavola nuda di tappeto; e ad ogni volta che io aveva
messo il piede là dentro, non sapevo perchè, mi ero sempre sentito
occupare da una soggezione reverenziale, come non m'ispirava neppure la
venerabile figura del buon prete già tutto incanutito. La nudità di
quelle pareti mi tornava solenne più che qualunque suntuosità
d'apparato: la gran croce nera al di sopra del piccolo letticciuolo di
abete, sulla quale un Cristo d'avorio tendeva le sue braccia magre e
stecchite m'incuteva un'ombra di terrore. L'espressione di dolore che
c'era sul volto di quel Cristo, invece di intenerirmi, facevami quasi
paura; parevami che quell'appeso dovesse al mio avvicinarsi staccare uno
di quei suoi bracci inchiodati e respingermi da quella stanza.
«Quel giorno invece, che ci entrai tenuto per mano da Don Venanzio, la
mia impressione fu tutt'altra. Lo splendido sole che la invadeva le dava
una giocondità inesprimibile. Colla mia nella mano del prete mi sentivo
sicuro, come se il genio di quel luogo mi dovesse accogliere con benigna
compiacenza. Volsi lo sguardo alla gran croce nera, e mi parve che anche
la bella faccia del Cristo di avorio, illuminata dal riflesso di quel
sole che batteva sullo spazzo, avesse acquistato più dolcezza nel suo
patimento, e di dietro alla sua suprema rassegnazione al dolore,
m'incoraggiasse ad avanzarmi con un benigno sorriso.
«Il parroco mi aveva detto che mi avrebbe parlato di cose assai gravi, a
cui dovevo porre tutta la mia attenzione e che avrei dovuto rammentare
per tutta la vita; onde, quando egli si fu assettato sul suo seggiolone
impagliato a bracciuoli di legno non imbottiti, e fu in atto di parlare,
io, aspettando ciò che fosse per dirmi, avevo il cuore che batteva forte
nel petto.
«Che io fossi figliuolo di nessuno già lo sapevo pur troppo. Me ne
avevan chiarito gl'improperii della Giovanna, accompagnati dalle
percosse nelle sue frequentissime collere, nate per ogni più futile
motivo e sfogate tutte addosso me; me lo veniva rammentando con
dispregiosa insistenza il nome di bastardo gettatomi in volto come una
maledizione da tutti i ragazzi miei compagni d'età che, in codesto già
uomini, si compiacevano del mio soffrire e della mia vergogna.
«— Tuo padre e tua madre: mi disse Don Venanzio: non condannarli. Chi
sa qual tremenda necessità, forse, fu quella che li costrinse a tanta
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