La plebe, parte I - 24

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diffatti la mente di lei era occupata da mille confusi pensamenti, da
dubbi e paure, da un'incerta temenza e peritanza che parevale un
presentimento. Era come se, affacciandosi alla soglia di un'abitazione
ignota, sentisse ad un tratto una voce gridarle nell'anima: — prima di
avventurarti là dentro, guarda quello che fai!
Ma ogni considerazione era inutile oramai, ogni esitanza non era più che
una follia, quasi una colpa. Affrontò bravamente l'ignoto di quel
destino che le si presentava, e se il suo cuore batteva forte nel
pronunziare quell'irrevocabile _SI'_, la sua voce fu ferma tuttavia.
Uscì della chiesa con passo sicuro ed il viso tranquillo nella sua
pallidezza, la mano nella mano del conte.
I suoi 18 anni erano legati coll'indissolubile nodo del sacramento alla
prematura e corrotta vecchiaia di quel libertino elegante, scettico ed
egoista.
Candida non aveva, come dissi, la menoma lusinga d'una illusione: ma
quanto stette essa prima di accorgersi che s'era chiuso definitivamente
ogni accesso ad una legittima felicità? Fin dal primo entrare nel fosco
palazzo degli Staffarda, cui il conte in omaggio alle tradizioni
famigliari da lui rispettatissime aveva voluto lasciare tal quale nella
sua antica eleganza solenne; la giovane sposa aveva sentito abbattersele
addosso come una fredda cappa, aveva provato una sensazione quasi uguale
a quella di chi venendo dalle calde carezze d'un bel sole d'estate entri
d'improvviso nel freddo ambiente di una stanza umida e scura. Quelle
gran sale in cui regnava eterno il crepuscolo sgomentarono la giovinezza
della ricca figliuola del barone, avvezza al suo salottino di ragazza
color celeste ed al fresco nido della sua camera da letto color di rosa.
Dagli angoli scuri di quegli immensi saloni pareva che il fastidio in
agguato si slanciasse addosso a lei ad assaltarla. E qual difesa poteva
ella fare? La compagnia del marito, dapprima le ispirò una gran
soggezione, poi una indifferenza che piegava più verso la noia che
altro; da ultimo, quando ebbe conosciuto per bene tutto l'arido
scetticismo di quell'anima affatto spoglia d'ogni simpatica qualità,
piuttosto rabbia e disgusto.
Durante il primo anno, la novità del genere di vita, le fastosità del
mondo, la gran bisogna della _toilette_ distolsero alquanto dalla reale
miseria del suo stato la giovine donna; ma poscia un bel giorno ella ad
un tratto intravvide che tutte le feste e le gioie della società erano
una vana scorza sotto cui non c'era sostanza. Il vero diletto, la
felicità della vita erano dunque in altre cose. Dove? Nella famiglia,
per lei, no. Fuori della famiglia? Come? In che cosa?
Frattanto l'influsso deleterio degli esempi osservati in società, quello
delle ciarle e delle mormorazioni che con un velo trasparente, onde
maggiore ancora ricresce la realtà, pongono in mostra tutte le magagne
dei costumi, esercitavano la loro opera corruttrice sulla giovane ed
inesperta anima di quella donna, abbandonata ai suoi istinti. Il conte,
come non poteva essere un marito ammodo, poteva tanto meno farle da
consigliere, ufficio paterno d'uomo che ispira fiducia e rispetto. Il
padre di Candida non parlava che di cortigianerie e di decorazioni.
Candida, rientrando dalle adunanze, in cui aveva visto la sua bellezza
eccitatrice d'ammirazione e di desiderii in tutti gli sguardi degli
uomini — e per l'anima disoccupata d'una donna non c'è seduzione più
perniciosa di questa — Candida si trovava sola col vuoto della sua vita
e del suo cuore, col fastidio delle sue monotone giornate, mentre le
susurravano ancora nell'orecchio, come il ricordo d'una musica soave, le
frasi appassionatamente galanti di cui le si era fatto omaggio; e dietro
le nubi di quell'incenso travedeva splendere affascinatore il sorriso
dell'amorosa voluttà.
Di questa e di quella fra le più riverite e le principali dame della
città si raccontavano gli amori, e le vicende e le mutazioni degli
amori: nè mai era che una nota di biasimo suonasse per esse a tali
racconti, sì invece si disegnava sul labbro del narratore e degli
ascoltanti un sorriso quando si pronunziava il nome del marito, e
Candida, senza punto condannarsene, senza nè anco accorgersene, già
usava ella stessa partecipare a quel sorriso.
Quanti onesti non ha egli perduto questa considerazione: — se gli altri
fanno così, e perchè non lo farei ancor io?
La giovane contessa Langosco era pervenuta d'altronde a quello stadio
della vita in cui e cuore e sensi hanno raggiunto il pieno sviluppo ed
imperiosamente domandano. Nel matrimonio nè questi nè quello per lei non
trovavano risposta.
Il conte, qualunque fossero stati i suoi proponimenti nello stringere
quel maritaggio, non aveva tardato a ricascare nelle primitive sue
abitudini, e mentre lasciava alla contessa tutta quella libertà che nel
secolo scorso lasciavano alle mogli i nobili mariti indifferenti, egli
abusava di quella che si riservava piena ed assoluta per sè. I due
coniugi vivevano affatto indipendenti l'uno dall'altro; appena era se si
vedevano alle ore del pranzo, molte volte ancora il conte facendo
annunziare alla contessa che non sarebbe venuto; e la medesima carrozza
non li accoglieva insieme mai, se non quando le esigenze sociali
comandavano che la moglie fosse accompagnata dal marito. D'uscire
insieme a piedi non fu mai nemmanco quistione.
La giovane contessa viveva così infelice ed innocente, quand'ecco uno
sciagurato amore invadere la, sua anima, e ridurla colpevole, e non
certo felice davvero, ma darle almeno certe gioie febbrili, certe
tremende emozioni, certi appassionati trasporti, che se non altro
l'avevano tolta a quel marasmo in cui s'intorpidiva, che se non altro
erano la vita.
La sua natura fino allora era rimasta coperta — era un mistero anche per
lei. Di colpo, al contatto della passione, si rivelò in uno scoppio
potente innanzi a cui ogni forza di resistenza sarebbe stata un
nonnulla. Un'ardenza irrefrenabile la possedeva. Aveva nelle vene del
sangue di Saffo. Amare, essere amata e morire: le parve tutto un
invidiabile destino. Ed amò.
Aveva ella almeno scelto meritamente l'oggetto dell'amor suo?


CAPITOLO XXIII.

Quel dì in cui aveva luogo il festoso ballo dell'Accademia erano già
passati quattro anni dal momento in cui si era presentato la prima volta
allo sguardo della contessa l'uomo fatale che sì funesto influsso doveva
esercitare su tutta la vita della sconsigliata donna.
Era essa in campagna, sola, suo marito preferendo di rimanere in città
alle sue abitudini del circolo, del giuoco, della compagnia delle ninfe
del corpo di ballo.
Si annoiava maledettamente la povera contessa nella monotonia delle sue
giornate senza vicende di sorta. Alcune delle sue amiche erano state a
farle visita, e ripartite, lasciandole un po' di quel profumo storditore
della vita cittadina, di quel fermento nell'anima, che depongono la
mormorazione, la braca, come soglion dire i fiorentini, le ciarle
maliziose della cronaca più o meno scandalosa; aveva ella appreso così
che la marchesa tale aveva un nuovo amante, che la baronessa tal'altra
era sempre fedele a quel suo ufficialetto di cavalleria, che il
brillante contino *** si degnava far girare la testa d'una bellezza
borghese, moglie ad un bravo commerciante della città, che per i begli
occhi della presidentessa *** s'erano scambiati due colpi di sciabola un
capitano delle guardie e un addetto d'ambasciata.
Rimasta con non altra compagnia che quella del suo specchio, il quale
facevale i più adulativi complimenti sulla floridezza de' suoi venti
anni, la noia spalancava in lei le porte della fantasia all'invasione
delle più temerarie immagini; sentiva, come dice Alfredo di Musset,
delle frasi di romanzo salirle al cervello. Guardava con profondo
dispetto la calma della campagna, in cui il sole splendeva beatamente
sopra una immutevole medesimezza di cose. Sentiva nascere in cuore
un'uggia inesplicabile, ma viva contro i recessi ombrosi del suo parco,
che non avevano per lei mistero nessuno, contro le amenità di quel
soggiorno, che non dicevano nulla al suo cuore ed alla sua mente, nè una
memoria del passato, nè una speranza dell'avvenire. Pensava di colpo far
riempire le sue valigie e precipitare a Torino al trotto serrato dei
suoi bei cavalli del Mechlenburgo. Perchè in quella sua solitudine il
caso pietoso non avrebbe mandatole alcun avvenimento che rompesse quella
desolante monotonia? Il più straordinario sarebbe stato il meglio
venuto. Sognava da sveglia le più matte ed impossibili avventure
cavalleresche. S'ingolfava nella lettura dei più strani romanzi che
allora la moda voleva impinzati di fatti che non succederanno mai. Poi
questa lettura la stancava, le faceva tanto di capo, le dava una specie
di stordimento in cui la sua immaginazione quasi offuscata faceva
scorrere con vertiginosa ridda tutte le vicende di quelle favole,
aggrovigliandone i fili, complicandone gl'incidenti, riuscendo ad una
faticosa confusione. Allora gettava il libro incollerita, serrava gli
occhi, e faceva di per sè il suo romanzo, e lo vedeva incarnarsele
dinanzi, come sopra le tavole d'un palco scenico, sotto le sue palpebre
richiuse. Anche codesto finiva per irritarla. Sorgeva di scatto, faceva
attaccare i cavalli alla carrozza frettolosamente, impazientandosi
d'ogni indugio, come se la più importante cosa le premesse. Gettatasi
sulle ricche treccie una cappellina qualsiasi, la prima che le
capitasse, volava giù delle scale, si slanciava nella carrozza e
comandava al cocchiere:
— Corri.
— Dove, signora contessa?
— Dove vuoi. Purchè tu vada lontano e presto!
L'aria che percoteva il suo viso parevale darle sollievo. Il moto che ne
cullava la persona, il rumor delle ruote entro le orecchie, il sibilo
del vento non le lasciavano più agio a formarsi ai suoi pugnaci e
turbativi pensieri. L'intimo tumulto del suo spirito si calmava a poco a
poco. Chi la vedeva in tali occasioni avrebbe detto per sicuro che un
gran dolore occupava quell'anima, che una grande sciagura s'era
precipitata su quella esistenza. Le ciglia aggrottate, le labbra
pallide, serrate, lo sguardo profondo degli occhi neri fisso dinanzi a
sè parevano indizio d'una preoccupazione dolorosissima. Se qualcheduno
le avesse domandato in quella:
— Per amor di Dio, a che cosa pensate, contessa?
Ella avrebbe dato in uno scossone come persona sorpresa d'improvviso, ed
avrebbe risposto in tutta buona fede:
— Niente!
Quando l'effetto di quella corsa concitata sul suo animo era ottenuto,
Candida si passava la sua bianca manina sulla fronte e gridava al
cocchiere:
— A casa!
E giuntavi risaliva nelle sue stanze per riprendere con più accanita
perduranza la lettura dei nuovi romanzi francesi.
Quante volte, in quelle sue gite senza ragione e senza scopo, non prese
ella a fantasticare che i suoi cavalli togliesser la mano, che la
conducessero ad imminente pericolo di vita, che un eroe da novella
saltasse fuori a salvarla con estremo suo rischio, cadendo vittima del
suo bel tratto, gravemente ferito fors'anco! Cogli occhi della mente
essa lo vedeva, questo incognito generosissimo e valorosissimo. Non era
nessuno fra quanti giovani aitanti, leggiadri, aveva essa veduto fare
sfoggio d'eleganza nelle sale della società più forbita, ma aveva un po'
di tutti coloro; aveva specialmente quel non so che onde gli occhi della
donna son presi, onde la sua fantasia è dominata. Pareva alla contessa
che quest'individuo doveva esistere, che a un dato momento doveva
comparire nella vita di lei, lo domandava alla fortuna, s'impazientava
che tardasse.
I cavalli troppo ben guidati non ruppero mai il freno; il caso non si
compiaceva mai di lasciar cadere il seme d'un'avventura in quel troppo
ben disposto terreno.
Candida guardava sdegnata il bel sereno di quel cielo monotono sotto la
cui volta non ispuntava nessun avvenimento, nessun pretesto di passione.
Un giorno la si era proprio decisa a partire per Torino. Gli ordini
erano già dati; essa, col pretesto di vestirsi da viaggio, aveva fatta
una _toilette_ del miglior gusto che sia possibile immaginare, elegante
insieme e modesta, di colori, di taglio, di stoffe i più atti a farne
valere le forme bellissime e tutta la grazia della persona, e tutta
l'efficacia delle sue attrattive. Avreste detto che la si era preparata
per ricevere incognito il _Prince charmant de ses rêves_.
Quando fu pronta del tutto, si compiacque, secondo il solito, fermarsi
innanzi allo specchio. Fece a se medesima un sorriso, per cui un poeta
avrebbe detto la stanza tutta riuscirne illuminata. Un istante la
compiacenza di se medesima diede alla sua fisionomia l'espressione della
contentezza. Ma poi tosto scrollò le spalle e la solita nube di noia
discese sulle sue sembianze.
— A che pro? Mormorò essa; e colla solita sua irrequieta impazienza
corse al balcone a vedere se già era in ordine la carrozza.
Il garzone di scuderia teneva i cavalli per mano, ma il cocchiere invece
di attaccarli, guardava in su nel cielo con aria dubitosa.
— Fate presto: gli gridò la contessa che calzava affrettatamente i suoi
guanti.
— Credo che sia più prudente l'aspettare: disse il cocchiere.
— Perchè?
— Guardi lassù, signora contessa.
E il cocchiere additava il cielo.
Candida volse gli occhi in alto, e il bel sereno che i giorni scorsi
l'aveva irritata cotanto vide sparito dietro grossi nuvoloni scuri e
minacciosi che s'avanzavano rapidamente. In quel punto stesso un lampo
abbagliante correva in essi e fragoroso rimbombava il tuono ad
annunciare prossimo lo scoppiar del temporale.
Se non altro era quella una variazione, e Candida non ne fu scontenta.
— Fate rientrare i cavalli, e riparate nella rimessa la carrozza.
Partirò dopo il temporale.
I servi ubbidirono mentre larghe gocciolone di piova cominciavano a
cadere qua e colà con un rumor secco.
La contessa, vestita com'era, trasse una poltrona presso al balcone
aperto, vi si gettò sopra abbandonatamente, e seguitando con elegante
trascuranza a calzare i suoi guanti, stette a contemplare lo spettacolo
del temporale che ad un tratto era furibondamente scoppiato.
Il terreno su cui guardava il balcone dov'era la contessa, terreno
battuto che serviva da cortile, era chiuso dalla parte che si trovava in
prospetto al palazzo, da una folta siepe alta un metro, al di là della
quale si stendevano le praterie della vasta tenuta patrimoniale dei
conti di Staffarda.
La pioggia veniva giù impetuosamente scrosciando, mista a un po' di
grandine, e in un momento ebbe allagato tutto il cortile. Non più un
essere vivo vedevasi per la campagna, la quale per le fitte righe della
piova appariva all'occhio della contessa, come traverso un velo. Il
fresco vento del temporale battendo sulle guancie di Candida parevano
rinfrescarle il sangue. I lampi che tratto tratto squarciavano le nubi,
rompendo la tenebria che aveva invasa la terra illuminavano uno strano
sorriso sulle labbra di quella giovane donna. A che pensava ella? Non
l'avrebbe saputo dire. Guardava lo stupendo spettacolo dell'uragano con
molto più interesse di quanto avesse guardato mai splendida
rappresentazione sulle massime scene della città. Sentiva mosso da più
concitazione il rifiato, sentiva sotto un apparente languore rifluire
più potente nelle vene la vita, il sangue le scorreva con rapidità quasi
febbrile, pulsando alle tempia. L'elettricità ond'era satura l'atmosfera
le scuoteva i nervi con vivo sussulto che non le tornava sgradito. Si
sentiva ad un punto il cuore più palpitante, come se fosse per avvenirle
qualche gran fatto. Danae solitaria pareva aspettarsi che nella pioggia
di fuoco d'un lampo scendesse a lei e le si rivelasse il Dio dello
sconosciuto.
Nel maggior strepitare del temporale, ecco presentarsi al suo sguardo la
vista d'un uomo che al di là della siepe, sotto i torrenti d'acqua che
piovevano dal cielo, correva precipitosamente verso il castello. Dietro
quel velo della pioggia fittissima, a quella dubbia luce che rimaneva,
ella non potè scorgerne che in di grosso le forme, ma dalla leggerezza
con cui correva, appariva esser giovane, e da una certa grazia di
movenze, si mostrava aitante di persona. Giunse alla siepe, correndo,
spiccò un salto che avrebbe fatto onore al più abile ginnastico, e si
trovò in mezzo al cortile. Colà vide la contessa al verone che per
curiosità si era sporta alquanto a guardare, salutò gentilmente,
scoprendo una ricca capigliatura inanellata ed una fronte giovanile
sotto cui splendevano due sguardi accesi, e diviato si gettò sotto
l'atrio.
La contessa al saluto di quel giovane si trasse vivamente indietro. Quel
tanto che aveva visto di lui le aveva fatto conoscere ch'era un bel
giovane e non vestito da contadino. Ecco invero un avvenimento
straordinario nella monotonia di quella vita. Chi era mai codestui? Come
e per qual caso in quelle regioni deserte, dove ella non aveva mai visto
ombra d'uomo fuori dei villani delle sue fattorie? Una gran curiosità la
colse. Lo stato nervoso in cui la si trovava era acconcio precisamente a
dar maggiore vigoria e quasi direi importanza a questo che, se non
altro, era un sentimento che rivelava la vita. Si levò da sedere con
mossa irrequieta, e si avviò per andare a suonare il campanello con cui
si chiamavano i servi.
Ma prima che ella giungesse al cordone che pendeva allato al camino, una
mano discreta grattò all'uscio.
— Entrate: disse la contessa fermandosi e voltandosi a quella parte
colle sopracciglia leggermente aggrottate.
Il battente s'aprì e comparve la cameriera tenendo in mano un piccolo
vassoio d'argento.
L'occhio di Candida vide tosto in mezzo a quel piattello il bianco
quadrato d'una polizzina di visita e avvisò tosto che la era quella
dello straniero: ma, senza saperne essa stessa la ragione, credette bene
dissimulare.
— Che cos'è?
— Un signore, sorpreso dal temporale in questi dintorni, rispose la
cameriera, si riparò nel castello e prega la signora contessa a volergli
permettere di aspettare qui che la pioggia abbia cessato. Perchè la
signora contessa sappia a chi farebbe l'onore di accordargli questa
momentanea ospitalità, le manda la sua carta.
— Va bene: disse Candida con isvogliata indifferenza che non era punto
sincera, e presa la cartolina, con superba noncuranza vi gettò uno
sguardo fugace.
In mezzo alla polizza eravi impressa una corona che pareva comitale, e
sotto stava scritto:
LUIGI QUERCIA DOTTORE.
Il labbro della contessa fece una lieve smorfia che significava:
— Non conosco costui e non mi cale di conoscerlo.
Gettò essa con mossa affatto superba quel biglietto in un'elegante
paniera di porcellana di Sèvres con ornamenti di bronzo dorato, la quale
stava per questo ufficio sopra il ricco tappeto della tavola, e disse
alla cameriera:
— Stia pur quanto vuole. Offritegli tutto ciò di cui possa aver bisogno.
E fece un cenno di congedo, per cui la fante si affrettò a partire.
Quando fu sola, Candida si riaccostò lentamente al balcone. Il temporale
imperversava più che mai, ed aveva l'apparenza di durare tutto il
giorno.
— Per quest'oggi è inutile pensare a recarsi in Torino: disse a se
stessa la giovane donna. Il cattivo tempo non cesserà più fino a questa
sera, ci scommetto. E questo cotale dovrà star qui tutta la giornata?
Certo non lo caccierò mica dal castello. Ma che ci farà egli tutte
quelle ore che saranno eterne?
Sorrise lievemente.
— Poverino! Lo compatisco. E' gusterà una dose di quel bel divertimento
che io ho ciascun giorno a tutto pasto... Giusto! Egli è dottore. Se
avesse nella sua scienza medica qualche farmaco per guarire dalla noia.
Bah! Questi farmaci non è da un medico che bisogna andarli a cercare,
sibbene da un uomo di spirito. Veramente l'esser medico non esclude
l'aver dello spirito. E da quel poco che ho visto di costui, egli
dev'essere così poco medico che quasi nulla, perchè mi pare un
giovinetto forse appena appena uscito dall'Università. Se la sua
compagnia fosse dilettevole!...
Scrollò le spalle, come fa chi vede presentarglisi alla mente una idea
assurda.
— Io di certo non vedrò questo signore per poterne giudicare. Un
medico!... Peuh!
Tornò presso la tavola e riprese in mano la polizza di visita di quel
cotale.
— Oh oh! esclamò. Qui c'è una corona da conte... almeno mi pare... È
dunque un nobile?... Un nobile che fa il medico! È egli possibile?.....
Forse qualche _cadetto_..... qualche rampollo di famiglia rovinata.....
Ma come non aver scelto la carriera militare? E' mi pare giusto che quel
giovane starebbe a meraviglia colla montura di cavalleria d'artiglieria
addosso.
Le parve rivederlo in quel punto, come lo aveva visto poc'anzi nell'atto
di saltare con tanta agilità la siepe del cortile.
Un'idea matta, balzana, ma piacevole alla sua immaginazione, l'assalse.
Le sembianze di quel giovane potevano corrispondere benissimo a quelle
dell'essere ideale che da tempo era l'eroe delle sue strane
fantasticherie. Non aveva potuto veder bene quella faccia risoluta e
leggiadra, ma pur le pareva che non avrebbe potuto disdire all'eroe de'
suoi sogni. Si diede a ridere di sè stessa, ma nemmanco quelle risa non
erano sincere. La preoccupazione curiosa si era impadronita fortemente
della sua anima.
— Luigi Quercia! Ripeteva fra sè la contessa tenendo l'occhio fisso nei
caratteri stampati su quel pezzetto di cartoncino. È un nome affatto
ignoto per me. Non ho mai sentito a nominare un simil casato nella
nobiltà torinese. In questo paese non esiste famiglia di tal nome.
Ch'egli sia un qualche medicuzzo venuto da poco a stabilirsi nel vicino
villaggio. Se io interrogassi codestui? Che male ci sarebbe? Ci
occuperei se non altro un dieci minuti di tempo.
Si avvicinò vivamente al cordone del campanello, ma si fermò poi tosto.
— Può darsi che io mi trovi a fronte uno zotico campagnuolo..... Ebbene
allora servirà per farmi ridere. Ah! in una solitudine come la mia, non
bisogna guardarla tanto pel sottile nelle distrazioni che ci si
presentano.
E diede una tirata al campanello.
Aveva appena suonato che si era pentita, non avrebbe voluto averlo
fatto. Studiò di chiedere qualcun'altra cosa alla cameriera che si
sarebbe presentata. Quando udì il solito grattar dell'uscio si gettò a
sedere abbandonatamente sul sofà e prese l'aria più indifferente che
seppe.
— La signora contessa ha suonato? Domandò la cameriera, entrando.
— Sì..... Per oggi non si parte..... Riponete la mia roba.
— Signora sì.
Quando la cameriera fu presso all'uscio:
— E quel signore, disse la contessa sbadatamente giocherellando con un
fiocco d'un cuscino, è egli ancora al castello?
— Sì signora. La vede bene: fa un tempaccio da non metter fuori un cane.
— E che fa egli?
— Guarda la piova a cadere e canterella fra i denti.... Ha domandato se
non avrebbe potuto presentare i suoi omaggi e fare i suoi ringraziamenti
alla padrona.
— Ah sì? E che aspetto ha egli?
— È un bellissimo giovane.
— Non vi domando questo: disse con voce severa la contessa, come se la
giovane avesse pronunziato una sconvenienza. Vi domando se le sue
maniere sono d'uomo ammodo.
— Per l'affatto. E' mi pare un perfetto gentiluomo.
— Qualcheduno dei famigli lo conosce?
— Signora no.
— E dei contadini?
— Neppure.
— Non è dunque abitante di questi dintorni?
— No signora; ma il cacciatore della signora contessa dice averlo già
visto altra volta gironzare per queste parti. Una sera poi incontrò un
elegante _cabriolé_ che trottava sulla strada per a Torino, e in esso
giurerebbe che c'era questo signore.
— Un _cabriolé_ elegante?
— Sì signora con un cavallo di gran prezzo.
— È dunque un signore?
— Certo! L'aria lo dice a prima vista, e poichè è venuto a ripararsi qui
al castello ha già dato tre o quattro scudi di mancia.
— Come? Esclamò la contessa dirizzandosi della persona con aria
corrucciata.
— Sì signora: uno al domestico che gli ha fatto una fiammata, per
asciugarlo, nel camino della sala della caccia; un altro al guattero che
gli ha portato una scodella di brodo; un altro al lacchè il quale gli
prestò una vesta da camera del signor conte perchè si potesse toglier di
dosso il soprabito immollato... Oh! si vede subito che gli è una persona
come si deve.
— Ne parli con troppo entusiasmo... Ha dato uno scudo anche a te? La
cameriera diventò rossa e fece a schermirsi dal rispondere.
— Non dir bugia; anche tu hai preso la mancia?
— Poichè la signora contessa vuole saperlo... Il signor Dottore lo seppe
fare con tanta grazia, che il rifiutarlo mi parve una inutile scortesia.
— Signor Dottore! Come sai tu ch'egli sia dottore?
— Il valletto mi ha data la carta di visita da portare alla signora
contessa...
— E tu l'hai letta?
— Senza volerlo.... I miei occhi ci son caduti sopra.....
— Va benissimo. Mi piacerebbe soltanto sapere con qual pretesto quel
signor dottore potè darti lo scudo.
— Mi pregò di fargli compagnia; mi disse che a star solo s'annoiava, che
la mia compagnia gli era amenissima.
— Davvero! E a te la sua?
— Oh! Egli è il più gentile fra quanti signori io abbia visto, e sa dire
di certe cose!... Di tutti quei giovani conti e cavalieri che fanno
visita alla signora contessa non ce n'è uno che passando non si fermi
alcun po' meco a barzellettare; ma le assicuro in verità che nessuno di
essi può stare a petto di questo dottore.
La contessa prese un'aria sempre più severa:
— Mi dispiace che i miei famigli accettino così delle mancie dal primo
venuto; e tanto più mi dispiace di voi che siete più specialmente
addetta alla mia persona. Ne parlerò al maggiordomo perchè ci metta
ordine, e ciò non accada mai più. Andate.
La cameriera si avviò a capo basso, ma quando fu per metter piede fuori
della stanza, lanciò un'ultima domanda, come il Parto ritirandosi
lanciava un'ultima frecciata.
— Se il dottore domanda ancora di presentarsi alla signora contessa, che
cosa abbiamo da rispondere?
— Che non ricevo: disse asciuttamente la contessa, ma poi tosto
correggendosi: cioè..... alla campagna si può vedere senza tratto di
conseguenza certe persone che non si riceverebbero in Torino... anche
senza che sieno presentate. Se domanda ancora d'essere introdotto presso
di me, mi verrete ad avvertire e lo riceverò.
La fante partì. La contessa stette aspettando con certa impazienza.
Trascorse circa mezz'ora, che parve lunga assai alla curiosità di
Candida; prese uno dei suoi volumi di romanzo in mano e ne lesse una
pagina: si accorse che non capiva, che gli occhi avevano seguitato a
scorrere materialmente di parola in parola, ma che lo spirito era
altrove.
Si disse che erano gli scoppi di tuono sempre frequenti, a disturbarla.
Nella sua testa si insinuavano le idee più bizzarre. Quel giovane che
gettava via gli scudi con tanta larghezza era egli un medico secondo la
comune? Mai più! Certo era un ricco che aveva voluto ornarsi di un
inutile diploma. Era stato visto altre volte in quei dintorni. Che ci
veniva egli a fare? Sarebb'ella stata un'assurdità il supporre che
venisse per una donna? Quale? In quei dintorni ella non sapeva vi
esistesse altra donna — eccetto che una di bizzarri costumi e di dubbia
riputazione, che dicevasi un'antica artista da ippodromo. E perchè
Candida sentiva ella ripugnanza cotanto a pensare che quello sconosciuto
giovane venisse nel paese per quella donna? Che cosa gliene doveva
importare? Aveva ella già visto altre volte il sedicente dottore? Si
affaticava a consultare i suoi più segreti sovveniri per cercare se in
qualche cantuccio della memoria non avesse trovato allogata quella
virilmente leggiadra figura. Intanto guardava l'indice dell'orologio.
— Egli ha rinunciato a presentarmisi. Tanto meglio. Teme certo di non
ottenere presso me il successo che gli valsero presso la cameriera
alcune volgari frasi di complimento. Diffatti, che cosa avrebbe da
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