La plebe, parte I - 01

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LA PLEBE

ROMANZO SOCIALE
DI
VITTORIO BERSEZIO

PARTE PRIMA

PROPRIETÀ LETTERARIA
TORINO
PRESSO C. FAVALE E COMP. EDITORI
PIAZZA SOLFERINO, CASA PROPRIA
1869.


PREFAZIONE.

Era mio pensiero dapprima scrivere una lunga prefazione, nella quale,
con rinforzi di citazioni e di dottrina raccattata qua e colà,
manifestare al lettore qual significato io creda si debba oggidì
attribuire al vocabolo =Plebe=, e quale l'obbligo, cui verso questa
parte diseredata del genere umano ha la società moderna; dimostrare il
qual obbligo è lo scopo ultimo di questo mio nuovo romanzo.
Ma una posteriore ispirazione, che credo più felice, me ne sconsigliò
affatto. Appunto per annoiar meno i miei buoni lettori io adotto la
forma del racconto, vestendo della vita del dramma i concetti che voglio
esporre, e sarebbe stato un andar contro del tutto alle mie buone
intenzioni, quella noia cui voglio risparmiare ai miei lettori,
dargliela dal bel principio tutta concentrata nelle pagine pesanti di
una prefazione.
Lascio quindi ogni altro indugio ed entro di botto nel mezzo
dell'argomento, dicendovi soltanto l'idea di questo lavoro essermi stata
primamente ispirata dalle parole del nostro gran filosofo Vincenzo
Gioberti, il quale in quell'aureo libro che è il _Rinnovamento_ scriveva
essere fra i debiti e i bisogni più urgenti dell'epoca nostra quello di
elevare la plebe a grado e dignità di popolo.
L'idea di questo mio scritto è certamente troppo superba ragguagliata
alle mie poche forze; ma se queste riusciranno impari all'argomento,
voi, diletti leggitori, mi userete indulgenza pensando alla rettitudine
della intenzione.


PARTE PRIMA.
I Derelitti.


CAPITOLO I.

Era una notte d'inverno, ed una fitta nebbia copriva la città di Torino.
Chi ha visto a quella stagione ed a quell'ora le brutte e infangate
stradicciuole di quella parte dell'oradetta città che chiamano Torino
vecchia; quelle stradicciuole in cui stanno raccolte e come a confino le
miserie più gravi, i cenci più logori e le più scandalose turpitudini;
chi le ha viste quando quella caligine nebbiosa le ingombra e depone
sopra ogni cosa, sul selciato, sulle pareti annerite delle case, sui
panni e in volto a chi passa, una specie di rugiada fredda e fastidiosa
che ti punge con piccolissime goccie gelate negli occhi e ti immolla le
vesti addosso e ti penetra sotto a dar freddo sino alle intime midolle;
chi ha visto a quell'ora quei quartieri sa che cosa sia la cupa
tristezza delle abitazioni dei poveri in mezzo allo squallore della
miseria ed al cattivo tempo della stagione.
Se t'avviene di passare per quei luoghi, tu senti quasi una mano di gelo
posarsi adagio e pesar poi sul tuo cuore. Una nuova melanconia t'occupa
l'anima e i sensi; il respiro medesimo da quell'afa nebbiosa, da
quell'umido freddiccio, da quell'angustia di spazio, ti pare impedito;
una strana malavoglia, incerta, vaga, ma potente, piglia possesso di te;
e tu, guardando i cenciosi che sfilano taciti e lenti a randa al muro,
come ombre nel Tartaro degli antichi; ricevendo nei tuoi occhi il
lucicchiar febbrile di quelli delle povere _traviate_ che in
quegl'immondi casamenti hanno loro stanza e s'aggirano, vere anime in
pena, facendo risaltar la miseria inorpellata de' lor panni di color
gaio nello scuro del nebbiume; vedendo tra le imposte d'un uscio di
bottega socchiuso tremolare un raggio giallognolo della lucerna ad olio,
al cui lume misere creature faticano a compiere il lavoro della giornata
che ha da comprare lo scarso pane alla famiglia, tu, anche tuo malgrado,
se non hai cuore d'avaro o di borsiere, ti sentirai le lagrime entro gli
occhi.
Freddo, fame, strappi, sozzure materiali e morali ti stanno dattorno; un
vecchio che tende la mano, un bimbo che piange, una donna che si vende,
e su tutto la tenebra della notte che col gocciolar della sua nebbia par
proprio che pianga.
E tu pensi alle necessità fatali di questa civiltà che mostra di aver
testa soltanto e non cuore, o se cuore, non a sufficienza la mente da
provvedere a questi danni; e il mistero del problema sociale t'afferra,
e ad un tratto ti travolge dall'intelletto all'anima un mondo tumultuoso
di pensieri e d'affetti avversi e pugnaci, mettendo in lotta gl'istinti
e la ragione, il senno e la pietà, il possibile e il desiderio.
E così appunto, quella sera, per una di codeste strade, se ne stava
dell'animo, camminando, un uomo, il cappello a larga falda tirato sugli
occhi, il viso mezzo nascosto nelle pieghe d'un mantello anzi logoro che
no, il quale non lasciava scorgere che il pallore delle guancie e la
fiamma d'uno sguardo acceso, di persona nè alto nè basso, l'andare nè
spedito nè impedito, curvo il petto, e il passo di chi va senza scopo
che lo chiami o cosa che gli prema.
Invano già alle cantonate più d'un'Aspasia da dozzina gli aveva
ammiccato col sorriso contratto; invano un cencioso, trascinandosi colle
gruccie gli era venuto dietro neniando a domandare il quattrino per
l'amor di Dio, al ripago de' suoi _pater ed ave_; invano una vecchia
sbilenca, aggrinzita, sdentata e sciatta e sporca gli aveva susurrato
infami parole all'orecchio; invano era passato innanzi ad una
bettolaccia sconcia, convegno d'ogni peggio bordaglia, immondezzaio
morale, da, cui veniva in istrada un tramestio di cose e di gente, un
acciottolio di rozze stoviglie, un baccano di turpi canzoni sbraitate e
di più turpi parole, e proverbiarsi, e minaccie, e bestemmiari da gole
roche a voci squarrate; a nulla ei pareva badare, nulla sturbarlo dai
suoi pensieri.
Sul passo d'una porticina scura, sopra la motriglia sozza ed
attaccaticcia che a piastre copriva la pietra dello scalino, a metà
seduto, a metà sdraiato, il capo contro uno degli stipiti umidicci, le
mani nascoste nelle tasche de' calzoni a brandelli, tremante e battendo
i denti pel freddo, pel bisogno, per la debolezza, piagnucolava un
bambino.
Quell'uomo gli passò innanzi, come aveva oltrepassato tutti quegli altri
oggetti, persone e cose, in cui si era abbattuto; ma quando fu in là due
passi, quel piagnucolio giunse a ferirgliene le orecchie; ristette, si
volse, vide un fanciullo, gli fu accosto sollecito.
Il poverino sentì che gli stava appresso qualcuno: cessò
dall'infrignare; alzò gli occhi e la testa, trasse di tasca una manuccia
livida come le sue guancie, colla quale teneva duo mazzi di fiammiferi,
e colla vocina esile e rotta dal batter dei denti, disse in tono di
preghiera e di pianto:
— _Brichett!_ buoni _brichett_! due mazzi al soldo.... Oh! ne pigli,
signore.
L'uomo non rispose al fanciullo, ma gli stette sopra a guardarlo con
occhio fiso, intenerito, compassionoso, amorevole.
Era un marmocchio da sette ad otto anni, sudicio, cencioso, brutto come
la miseria.
— Povero bimbo! Disse quell'uomo a mezza voce parlando a sè stesso.
Povero bimbo!
E questi, stato un poco, rizzatosi della persona a sedere, ripetè
insistendo:
— Buoni _brichett_. La ne compri per carità!
Quell'uomo gli pose sulla testa carezzevolmente una mano, poi gli
chiese:
— Perchè piangi?
— Ho fame: rispose il bambino.
— Chi t'ha insegnato a dar questa risposta? Tu non parli con tale che
non conosca i misteri della miseria. Tuo padre e tua madre ti hanno
comandato di piangere e di rispondere così.
Il bambino guardò il suo interrogatore cogli occhi larghi, larghi, e
ripetè:
— Ho fame. Da questa mattina non ho più mangiato niente. E non avevo
mangiato che una crosta di pane.
— Hai tu padre?
— Signor no.
— Madre?
— Signor no.
— Sono morti?
— Non li ho mai conosciuti.
Quell'uomo parve intenerirsi.
— Un derelitto: mormorò egli parlando di nuovo a se stesso; al pari di
me!... E in questa medesima strada!...
Guardò quel fanciullo con occhio più benevolo e compassionoso di prima.
— Tu non hai nessuno al mondo?
— Ho la nonna che mi aspetta a casa.
— Ah!
L'uomo ritrasse la mano dal capo del bimbo.
— Perchè ti lascia ella andare attorno a questa ora e per questo tempo?
— Me ne manda per guadagnar qualche soldo.
— È tardi, fa freddo, tornatene a casa.
— Non oso.
— Perchè?
— Se non le porto almeno dieci soldi la nonna mi batte...
— E te ne mancano?
— Sei.
— Menami a casa tua. Darò alla nonna i dieci soldi per te.
Il fanciullo non mostrò stupore nessuno, nè gioia, nè riconoscenza:
s'alzò e si pose a camminare a costa dello sconosciuto, ma tutto
ingranchito ed intirizzito com'era, co' piedi irrigiditi e dolorosi per
la gonfiezza, mal potè farlo, onde mossi appena alcuni passi, si fermò e
ruppe in pianto.
Lo sconosciuto fermessi pure e gli domandò:
— Che cosa hai?
Il bambino rispose della solita guisa:
— Ho freddo, ho fame.
— A casa la nonna non ti darà da cena?
Il fanciullo scosse la testa.
— Una crosta di pane se la è di buon umore e non lo è mai.
E seguitava a piangere, e batteva i denti.
Nell'oscurità della via, poco lontano brillava il rosso chiarore che
gettava per l'uscio a vetri la bettolaccia che ho già accennato.
Lo sconosciuto guardò verso quella porta, sopra i cui sucidi cristalli
stavano scritte le classiche parole: BUON VINO E BUON RISTORO e parve
esitare un momento; poi, come se subitamente si decidesse, prese per
mano il bimbo e gli disse:
— Vieni: te ne darò io da cena.
E col fanciullo s'introdusse nell'osteria piena in quel punto di rumore
e di gente.


CAPITOLO II.

La bettola si trovava in una bassa casipola che ora fu distrutta affine
di allargare la strada. Per entrarvi bisognava scendere due scalini.
Lo sconosciuto apri l'uscio a vetri e si trovò in uno stanzone più lungo
che largo, colle pareti affumicate, col pavimento composto d'assi
inchiodati, tutto ronchioso pel fango recatovi ed appiccatovi qua e colà
dai piedi degli avventori, con un'atmosfera grassa, densa, impregnata di
acri odori, in cui il fumo faceva con pieno successo le funzioni che per
la strada adempiva la fitta nebbia di quella sera invernale.
Dal trave del soffitto annerito, insieme con infiniti arazzi di
ragnateli, per una cordicella ripiegata da tirarsi su e giù passando in
mezzo ad una colomba di piombo, pendeva una lampada a tre becchi, di cui
due soli avevano acceso il lucignolo, con certi tubi di vetro
affumicati, e con una vernice rossa che era mezzo staccata dalla latta.
Lunghesso le pareti eran poste, ad uguale distanza l'una dall'altra,
delle tavole oblunghe, e ai lati di esse delle panche di legno lunghe
quanto le tavole medesime; nelle pareti, al di sopra di ciascuno di
codesti deschi, era scritto in nero con cifre alte un palmo un numero
diverso e progressivo.
In fondo allo stanzone, da una parte c'era un banco a mezzo ripieno di
fiaschi e fiaschetti, e dietrovi seduto l'oste, con davanti un libro di
conti dalla copertina sucida e strappata e un calamaio di piombo con un
mozzicone di penna piantato nella bambagia immollata d'inchiostro:
dall'altra parte si apriva una botola, con una cateratta che stava
sempre sollevata ed appoggiata contro il muro, per la qual botola si
scendeva nella cantina sotterranea, dove si custodivano i vini e si
cucinavan le pietanze consumate in quell'orribile stamberga.
Nella parete, alla destra di chi entrava, presso al banco a cui sedeva
l'oste, aprivasi una porta che metteva in un'altra stanza; ma questa era
una stanza riservata, in cui non s'avventurava la comune dei bevitori,
ed entravano soltanto alcune brigatelle di soliti accorrenti che, per la
conoscenza avutane dal bettoliere, e per la vistosità dei guadagni che
gliene recavano eran meritevoli di siffatto privilegio. I misteri di
quella camera erano difesi dallo sguardo dei profani per certe cortine
di stoffa di cotone di color rosso tirate accuratamente ai vetri
dell'uscio. Al momento in cui lo sconosciuto col fanciullo per mano
entrava nella bettola, quest'uscio misterioso si era aperto, per dar
passo alla fante dell'oste, giovane grassotta e belloccia, con aria
sfacciata, la quale portava colà dentro un vassoio e sopravi parecchi
bicchieri e due boccali colmi di vin rosso. Chi si fosse trovato in
quella di prospetto all'uscio avrebbe potuto vedere nella stanza di cui
si tratta un allegro fuoco fiammare in uno di quei caminetti che
pigliano il nome da Franklin, e intorno ad esso seduti cinque o sei
uomini di varia età e di vario aspetto, che dalle vesti però apparivano
appartener tutti alla classe degli operai, tutti, tolto uno, con figure
risentite, e come si suol dire con di quei certi ceffi che non fa
piacere incontrare nel nostro cammino, la sera.
Quasi tutte le tavole dello stanzone erano occupate dalla folla dei
bevitori. Di questi tutti portavano la livrea della miseria, molti
quella della abbiezione. Alcuni giuocavano alle carte, altri alla
_morra_; gridavasi da ogni banda in un disarmonico concerto, nel quale
più disarmoniche suonavano tratto tratto le voci e le risa roche di
luride donnaccie di mala vita.
Lo sconosciuto personaggio, il quale primo ci apparve in questo dramma,
di cui siam dietro a svolgere le scene, entrò colà dentro colla medesima
sicurezza che avrebbe avuto un uomo avvezzo a quei luoghi ed a quelle
cose. Quell'afa impregnata di acri odori e di ingrati vapori,
percotendogli sul viso non parve destare in lui il meno del mondo quella
ripugnanza, da cui non avrebbe potuto difendersi, e cui non avrebbe
saputo al certo dissimulare una persona all'atto nuova a
quell'atmosfera.
Egli guardò intorno per cercare un posto a cui assidersi, e, da parte
loro, il maggior numero dei bevitori, nell'udire il campanello della
porta che suonò all'aprirsi dell'uscio, levarono la testa e si volsero a
guardare chi entrasse.
Lo sconosciuto aveva tirato giù dal viso la falda del mantello, onde si
copriva per la strada, e potevano vedersene i lineamenti alla rossigna
luce della lampada di latta appesa al soffitto.
È una figura originale. In tutta la sua persona, come nei tratti del
viso, un misto di forza e di debolezza, di bontà e di malizia, di
sentimento e di noncuranza. Al primo vederlo mal sapreste dirne al
giusto l'età. Vi è qualche cosa di giovanile nello sguardo, nella
fronte, nella rara lanugine di barba scura che appena gli vela le
guancie: vi è alcun che di vecchio e direi quasi di logoro nella curva
del petto, nel floscio delle carni giallognole, nella mestizia abituale
dell'aspetto infermiccio.
S'ei tiene spianata la spaziosa e pallida fronte su cui pare abbia
impresso un segno il dito di Dio, quella fronte coronata da corti
capelli d'un nero lucido ed azzurrigno, i quali irti e ribelli ad ogni
ravviatura, danno alla sua testa una meravigliosa apparenza di
risoluzione e di forza; se egli, i suoi occhi, che hanno il colore del
mare, e ti appaiono come questo profondi, fa brillare d'un lampo di
letizia o d'affetto; se sulle smunte gote gli corre un istante a
colorarle il sangue, e sulle sottili e scialbe labbra erra un sorriso,
tu nol diresti giunto per anco ai vent'anni; ma se egli, qual è suo
costume, tiene aggrottate le sopracciglia e turbata come da incessante
lotta di pensieri la fronte, dimesso lo sguardo, serrate le labbra,
curva la testa, tu lo crederesti presso ai quaranta, e ti appare per
soprappiù roso da una di quelle interne infermità degli organi vitali
che distruggono lentamente la vita.
Avreste detto che la natura lo aveva creato per essere il più forte e
robusto degli uomini, e che le circostanze e la sciagura lo avevano
ridotto ad essere debole e miseruzzo. Un capo grosso stava sopra un
corpo non a sufficienza cresciuto nè sviluppato, il quale pareva aver
difficoltà a portare un tanto peso; il petto incavato pareva concedere a
stento l'agio di respirare ai polmoni; delle mani grosse, nodose e da
gigante si annodavano a braccia esili, piccole, forse troppo lunghe a
paragone della corporatura, poco meno che da rachitico; una macilenza
malaticcia gli ammenciva, per così dire, tutte le membra e lasciava
apparire più che non convenisse l'ossatura grossa e sformata.
Eppure, a malgrado, e forse anche a cagione di tutto ciò, la sua era una
di quelle figure che ti sorprendono e ad ogni modo non puoi trovare
indifferenti; di certo era tutt'altro che bella, ma pure chiamava
l'attenzione del riguardante e non si sapeva perchè. Quella faccia
stranamente impressa ti destava tutt'insieme una qualche simpatia, quasi
direi un senso di rispetto, eppure una certa diffidenza; per poco tempo
tu guardassi quelle sembianze, le ti si stampavano nella memoria, ed o
ti attraevano o ti ripugnavano, o ti consigliavano a farti amica l'anima
che vestivano od a sfuggirla; o eri disposto ad amarla, o la temevi come
un pericolo.
Quest'uomo volse tutt'intorno uno sguardo sicuro, e visto che un'unica
tavola era disoccupata quasi in capo allo stanzone presso la botola e di
prospetto all'uscio a vetri della stanza vicina, si avviò verso quella,
seguito dal ragazzo.
Era evidente che la venuta di costui non avea fatto una aggradevole
impressione in quelli dei frequentatori della bettola, che al suono del
campanello d'entrata avevano alzato la testa e guardato chi venisse.
Certo non era che i panni dello sconosciuto fossero signorili ed
eleganti; molto anzi ci correva, e si rimanevano all'essere puliti,
colle traccie appariscenti d'un uso lungo e continuato senza
intermittenze, ma erano alla foggia che è propria del ceto dei ricchi, e
da essi agli strappi che portava la maggior parte degli uomini raccolti
là dentro correva una infinita distanza.
— Oh oh! Aveva incominciato uno dei bevitori ammiccando cogli occhi: un
_muscadino_ con tanto di guanti alle mani.
— E che vien egli a fare qui, questo bel coso? Aveva detto un altro.
— Che sì ch'ei si mena dietro il nipotino della _Gattona_: soggiunse un
terzo che conosceva il piccino da cui lo sconosciuto era accompagnato.
— Un milorde che viene a cenare colla frittata alle cipolle di mastro
Pelone.
— Gli è proprio il piccin della _Gattona_ quel marmocchio: disse un
altro. Sta a vedere che sto bastarduzzo ha trovato finalmente suo padre,
che è questo milionario, il quale viene a pagargli il buon arrivo con un
quintino di quel brusco di quest'oste della malora.
E sghignazzavano seguitando coll'occhio beffardamente insolente lo
sconosciuto che s'avanzava senza darsene per inteso, come se quello non
fosse fatto suo.
Per arrivare al desco disoccupato, convenne al nostro personaggio
passare accosto a due uomini che stavano cioncando e discorrendo seduti
alla tavola immediatamente prossima a quella verso cui camminava il
nuovo venuto. Costoro erano due tipi curiosi e degni di fermar
l'attenzione dell'osservatore; e siccome avremo da trovarli attori non
degli ultimi nelle scene del nostro racconto, non è fuor d'opera che ci
fermiamo alquanto ad esaminarli.


CAPITOLO III.

Questi due uomini appartenevano l'uno e l'altro alla classe degli
operai, ed al vederli poteva dirsi che contavano fra i più miseri di
essi. Erano presso a poco della medesima età, fra i quaranta e i
cinquant'anni; ma uno recava nelle sembianze tutti i segni dei patimenti
fisici e morali cui conduce seco la miseria, onde pareva troppo più
invecchiato che l'età non volesse, mentre l'altro, quantunque nei panni
fosse strappato e sordido al pari e più del suo compagno, aveva nelle
guancie rubizze, nella corporatura piena e robusta un certo aspetto di
floridezza e di benessere che contrastava affatto col suo vestire da
accattone.
A dispetto di questa differenza, chi li mirasse aveva da sentire più
fiducia verso il primo che non verso il secondo. Quello, nella sua aria
di sofferenza e di scoraggiamento, e diremo anche di degradazione, aveva
pure alcuna traccia di bontà, e un resto di quel non so che onde si
svela all'apparenza l'anima onesta; mentre il suo compagno nella sua
faccia grassa e colorata portava l'espressione dei più bassi istinti, e
nello sguardo degli occhi piccoli e nascosti sotto folte sopracciglia di
color fulvo, aveva qualche cosa di losco, di falso e di feroce.
In questo momento, di cui stiamo discorrendo, il primo de' due era
seduto contro il muro appoggiandovi le spalle e il capo, mentre il
braccio sinistro gli cascava inerte lungo la persona, e il braccio
destro s'appoggiava alla tavola tenendo in mano un bicchiere quasi pieno
di vino. La testa che gli si dimenava lentamente di qua e di là contro
la parete, lo sguardo incerto e semispento, le labbra allividite nella
faccia pallida, la parola balbuziente indicavano abbastanza com'egli si
trovasse in uno stato di ebbrezza assai inoltrata. Riscaldato di molto
dal vino altresì, ma più padrone di se stesso, appariva il suo compagno,
il quale sedutogli dinanzi, si curvava verso di lui, parlandogli con
molta vivacità, come chi vuol persuadere alcuno di cosa che gli prema.
Sul desco, in mezzo a loro, quattro fiaschi vuoti rendevano chiara
ragione dello stato in cui si trovavano ambedue.
Per giungere alla tavola a cui aveva posta la mira, lo sconosciuto dei
capitoli precedenti doveva passare precisamente dietro quell'uomo dalla
figura malvagia fra lo scanno su cui egli sedeva e il braciere che,
pieno di carboni spenti e di cenere, faceva le mostre di scaldare lo
stanzone; e siccome quel cotale, stando curvo verso il suo compagno a
discorrergli, si teneva seduto in bilico sullo scanno pencolato, da
tenere le due gambe posteriori in aria, avvenne che lo sconosciuto,
passando, urtasse in una di queste gambe. L'uomo si volse bruscamente,
ed al vedere in chi l'aveva scosso gli abiti d'un ceto sociale superiore
al suo, aggrottò le sopracciglia, contrasse la bocca ad un sogghigno di
scherno e mandò una specie di grugnito minaccioso.
— Perdonate: disse gentilmente il nuovo venuto, continuando il suo
cammino e andando a sedersi alla tavola vicina.
— Eh! fate attenzione in vostra malora, cazzatello d'un _muscadino_
delle mie ciabatte: borbottò quell'uomo coi denti stretti, guardando a
stracciasacco lo sconosciuto.
Questi fece come se non avesse udito quelle parole, e quando fu seduto
ed ebbe seduto del pari innanzi a sè il ragazzino raccattato per via,
battè sulla tavola colla palma della mano per chiamare l'attenzione
dell'oste.
— Che razza d'animale è costui? Disse ancora l'uomo dall'aspetto di
scellerato, guardandolo di traverso con infinito sospetto ed avversione.
Non mi piace vedere a svolazzare qui dentro di questi uccelletti dalle
belle piume. Che sì che glie ne levo io il ruzzo, po' po' che mi
tocchi!...
Lo sconosciuto, avvertisse o non avvertisse gli sguardi e le parole di
quell'uomo, teneva gli occhi bassi e mostrava non udir nulla. Il
popolano, stato ancora a guardarlo così un poco, scuoteva poscia le
spalle, come per dire che non era cosa da dovergli importare, e
riprendeva il discorso col suo ubbriaco compagno.
La venuta di quell'incognito in panni quasi signorili non pareva esser
di gusto nemmeno dell'oste, il quale stava dietro il suo banco in fondo
alla stanza.
Una curiosa figura e degna del Callotta era quest'oste, diverso affatto
da tutti gli osti che voi trovate d'ordinario nella realtà entro le
osterie, e nelle finzioni dei romanzi. Mentre per ordinario il
bettoliere è una persona prosperosa, rubizza, grassa, dall'aspetto ilare
e giovialone, questo cotale, che già abbiamo sentito chiamarsi mastro
Pelone, era invece la più secca, allampanata, brutta persona che possano
fare quattro ossa d'uomo ricoperte di pelle d'alluda. Lungo lungo, magro
magro, scarna la faccia in cui dominava un naso mostruosamente
voluminoso, pelato il cranio del colore dell'avorio ingiallito, su cui
una berretta nera a fiocco, unta e bisunta; in mezzo al mostaccio una
squarciatura che serviva di bocca e quando la si apriva pareva quella
d'un forno, gli occhi infossati al di sotto di una arcata sopracciliare
protuberantissima, lo stampo dei sette peccati capitali nei bernoccoli
della testa, certe mani a dita adunche da parer le graffe di un animale
di rapina; braccia e gambe lunghe, dinoccolate, ridotte alla sola
ossatura grossa e deforme; la voce rauca, velata che usciva
faticosamente dal petto, una tosse profonda e cavernosa che di frequente
gli scuoteva i precordi; tal era il taciturno e poco aggraziato e per
nulla simpatico mastro Pelone. L'avreste detto, piuttosto che un
ostiere, un becchino, ed anzi la morte medesima vestitasi sopra il suo
scheletro di panni d'uomo.
Di dietro il suo banco, dov'egli stava meglio che seduto, accoccolato
sopra una seggiola, le nodose ginocchia quasi sotto il mento, avendo
ripiegate le lunghissime gambe, così da tenere le zattere che gli
servivan da piedi appoggiate al piuolo che univa le due gambe anteriori
della seggiola, mastro Pelone aveva veduto entrare lo sconosciuto e in
mezzo a due sbruffi di tosse aveva borbottato fra quei pochi denti che
gli rimanevano nelle pallide gengive:
— Uhm! Una faccia nuova.... Un nuovo agente del signor Commissario, ci
scommetto.... La Polizia mi vuole un bene a me!..... Uhm! Che il fistolo
li colga tutti quanti.
Ed aveva seguitato collo sguardo sospettoso e diffidente il nuovo venuto
nel suo cammino sino al desco a cui aveva preso posto. Quando lo
sconosciuto aveva picchiato sulla tavola, l'oste, non cessando mai di
fissarlo con quel suo sguardo semispento, aveva tirato giù lentamente
una gamba, e poi l'altra, aveva drizzato ancora più lentamente il petto
incurvato, e poi puntando al banco una delle sue manaccie s'era levato
in piedi colla medesima lentezza. Era uno strano spettacolo vedere
quella magra figura sgomitolarsi, per dir così, a poco a poco ed
allungarsi, allungarsi dietro il banco. Quando tutto fu diritto, mastro
Pelone tentennò un pochino, come fa l'albero d'una nave che sta per
mettersi in via, e poi uscì con piede riguardoso, e che non faceva
rumore, di dietro il suo banco, e venne a passi misurati verso la tavola
dove lo avevano chiamato.
Colà puntò sul desco le sue manaccie ossee senza carne, curvò la lunga
persona da far pendere il suo naso enorme sopra la testa dello
sconosciuto, e domandò colla voce rauca e soffocata:
— Che cosa comanda?
— Ci avete del buon brodo caldo? Disse lo sconosciuto.
L'oste accennò di sì col capo, e poi seguitò a dondolare la testa, come
per significare: — Diamine! Si figuri, se nella mia osteria non si ha da
trovar di questa roba!
— Ebbene, riprese lo sconosciuto, portateci una scodella di brodo con
del pane, formaggio ed una mezzina di vino.
Mastro Pelone si tirò su del corpo, e facendo piombare il suo sguardo
offuscato sul viso dello sconosciuto, disse interrogativamente:
— Una sola scodella?
— Sì.
— E il vino, quale? Quel da dodici?
— Quel da dodici.
Allora l'oste si rivolse sui suoi talloni e mandò in giro i suoi occhi
infossati.
— Uhm! Borbottò egli fra sè tossendo; quella pettegola di Maddalena è
ancora di là; quando si caccia nella stanza di quei sciagurati demonii,
che Dio li confonda, la non sa più venirne via, figliuola di una mala
femmina che la è..... Bisogna chiamare quell'imbecille di Meo.
Andò alla botola che metteva nelle stanze di sotto e curvatosi su di
essa, gridò con quanta voce gli rimaneva nella magra cassa dello
stomaco: — Meo! Meo! — sforzo che gli eccitò un accesso non indifferente
di tosse. Nulla rispose, nè alcuno comparve. Pelone sembrò esitare un
momento intorno al da farsi; ma poi gli mancò il coraggio di rinnovare
quella prova infelice, andò all'uscio a vetri della camera vicina, e
picchiò colla nocca delle dita in un certo modo particolare: Quando ebbe
ripetuto due o tre volte questo picchio, l'uscio finalmente si aperse, e
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