La plebe, parte I - 13

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colpa, a tanta sciagura! Tu dèi credere che non la volontà loro, ma un
inesorabil destino fu quello che te da essi disgiunse: dèi compatirli,
invece che accusarli, perdonarli ad ogni modo.
«Quelle miti parole con tanta soavità pronunziate da quel sacerdote di
volto sì benigno, forse per l'ora del tempo, per la solennità del giorno
in cui l'animo novello, appena aperto alla vita, mi sentivo inondato di
sì intima gioia quasi sovraterrena e di un benessere non ancora provato
mai; quelle miti parole mi si stamparono profondamente nel cuore, e
furono la norma invariabile, alla quale, con qualche eccezione per
taluni parossismi di dolore, ebbi informato i miei sentimenti ed i miei
pensieri verso gl'ignoti autori dei miei giorni. No, non li accusai — o
raramente soltanto, e me ne pentii subito, e chiesi perdono io stesso
dell'accusa a quel Dio, a cui mi fu sollievo un tempo rivolgere con fede
la mia preghiera. Non li accuso nemmanco adesso; e per quanto grave mi
torni e conosca la infelicità del destino, a cui mi hanno, per qualsiasi
cagione, condannato, li perdonai e li perdono.
«Poichè il parroco mi ebbe contato per bene tutto quello ch'egli sapeva
di me, cioè come e dove Menico mi avesse trovato, soggiunse che
stimavami oramai degno d'aver io stesso con me il deposito dell'unica
ricchezza che mi appartenesse al mondo, ed aperto il cassettino della
tavola, ne trasse un involto in cui erano la lettera, il bottone ed il
rosario che ti ho detto.»
Qui Maurilio s'interruppe. Levossi dalla sponda del letto di Giovanni su
cui sedeva ed andò ad uno stipo, ove teneva le poche sue robe, dal quale
prese un picciolo viluppo di carta ingiallita dal tempo.
«Eccoli qui questi miei preziosi oggetti:» soggiunse egli di poi,
tornando a sedere sul letto di Selva, dove recò ed apri la carta
ripiegata.
Il rosario d'agata aveva ancora pel medesimo filo appeso il grosso
bottone d'argento, il cui luciore era offuscato da un sottile strato
rugginoso stesovi dagli anni. La carta della lettera cominciava a
tagliarsi nelle ripiegature, ma le parole scrittevi su, benchè
l'inchiostro ne fosse sbiadito, si potevano tuttavia legger benissimo.
Maurilio la porse spiegata a Giovanni e gli disse:
— Leggila.
Non vi erano che le poche parole seguenti, scritte con una calligrafia
ed ortografia degna della cuoca la meno istrutta del mondo.
«_Abiate conpazione per costa povera masnà, che è già batesata, che è
ciamata MAURILIO, che è il nome di suo padre._»
Il rosario era d'agata, come dissi, e le anella per cui un grano si
univa all'altro, e la medaglina appesavi in fondo, su cui l'immagine
della Madonna era impressa, parevano d'oro. Poteva dirsi un ricco
oggetto. Il bottone d'argento era un grosso bottone di livrea. Lo stemma
che vi era scolpito sopra in rilievo era diviso orizzontalmente in due
parti; nella superiore vi era un mezzo leone (per dirla in linguaggio
araldico) rampante in campo azzurro, nell'inferiore tre stelle disposte
a triangolo in campo d'oro; sormontato il tutto da cimiero con corona
comitale, ed intorno una lista ripiegata, in cui scritta in carattere
gotico una leggenda.
Come Giovanni Selva voltava e rivoltava il bottone al lume della lucerna
per dicifrare il motto di quella leggenda, Maurilio gli disse:
— Quelle parole sono: _voluntas ardua vincit_. un bel motto, ma quante
volte smentito dai fatti! Però io l'ho accettato come quello del mio
destino, come un ammonimento, datomi, d'entro l'ignoto, dietro cui si
nascondono, forse di là della tomba, dai miei genitori.
«Quando il curato mi ebbe posto in mano quegli oggetti, ancor io li
guardai curiosamente, e compitai lettera per lettera le parole della
carta, e mi sforzai ad interpretare questi gotici segni per me allora
inintelligibili. Mi ricordo sempre che il mio animo si trovava in uno
stato strano e così nuovo che nulla saprebbe esprimerlo. In certi
momenti, a vedere, a toccare questi oggetti mi sentivo un'intima
potentissima tenerezza nascermi in cuore e venirmi su, per così dire, e
tutto possedermi, e riempirmi gli occhi di pianto: poi ad un tratto una
subita freddezza subentrare in me; e guardavo queste robe con occhio
asciutto e quasi indifferente, ed ascoltavo le parole del sacerdote come
se di tutt'altri si trattasse che di me, e mi accorgevo che la mia mente
si distraeva per correre dietro ad altri pensieri, ai più puerili, ad
una farfalla che veniva ad aleggiare fuori della finestra, ad un'ape che
veniva a ronzare sui fiori, ad una nuvoletta che traverso le tende
bianche vedevo vogare sul fondo del cielo azzurro, a nulla di nulla.
«Tutto questo ti dico, perchè tu valga a conoscere meglio lo strano
impasto ond'è formato il mio essere.
«I detti che mi rimasero impressi eziandio, furono quelli che mi rispose
Don Venanzio, quando io lo interrogai che cosa volessero significare
quelle cifre che invano mi sforzavo di leggere.
«— Sono parole latine che dicono, l'uomo savio, l'uomo dabbene superare
ogni difficoltà, vincere ogni prova colla forza e colla rettitudine
della volontà. L'uomo è in questo senso il fabbro del suo destino; che
cioè si può costituire da se medesimo l'ambiente della sua coscienza.
Bisogna volere, e rettamente e fortemente volere, e volere il bene; e
poi, qualunque sieno le circostanze dei casi, l'uomo o le dominerà, o
godrà almeno il supremo vantaggio della tranquillità che proviene dal
merito di aver compiti i proprii doveri.
«Molte e molte altre, e tutte sante cose mi disse allora quell'egregio
sacerdote su quella vita in cui da quel giorno, diceva egli,
incominciavo ad entrare conscio di me e però imputabile dei miei atti; e
quando, dopo circa un'ora, mi congedò baciandomi paternamente in fronte
ed accarezzandomi colla mano le chiome, come benedicendomi, io mi partii
da esso col cuore rigonfio e giocondo insieme, con mille confuse idee
nella testa, e senza pur sapere formolare un pensiero. Mi stringevo al
cuore le cose rimessemi dal parroco, e ripetevo meco stesso camminando
frettolosamente le ultime parole pronunciate da Don Venanzio e che mi
suonavano nell'animo come una dolce musica, la cui melodia ci piace
revocare nella memoria.
«— Sono figliuolo di nessuno, ma sono figliuolo di Dio!»
«Non me ne tornai subito a casa. Avevo bisogno d'esser solo. Mi recai
fuori del villaggio, presso a un torrentello sulle cui sponde
inchinavano i loro rami delle acacie in quel tempo già illeggiadrite da
quello splendido verde primaverile che è sì dolce alla vista, già
coronate di bianche ciocche di fiori. Mi sedetti là su quella riva
deserta e stetti lungo tempo così assorto, come se la più profonda
meditazione mi occupasse. Non pensavo a nulla. Guardavo l'acqua che mi
correva a' piedi e sembrava giuocare tra i grossi sassi che ne
occupavano il letto. Di quando in quando, traevo dal seno, dove li avevo
riposti, questi oggetti e li contemplavo attentamente, compitando ad una
ad una le lettere di queste due righe di scritto e piacendomi delle
forme strane di queste cifre gotiche cui non capivo per nulla. Poscia di
colpo mi mettevo a pensare della comunione che per la prima volta avevo
fatta. Il buon parroco m'aveva detto che, fatta bene la Pasqua, la mia
anima sarebbe diventata così pura come quella d'un angelo. Questa pasqua
l'avevo celebrata. In questo momento adunque mi trovavo nello stato
uguale a quello degli angeli. Pensavo al paradiso dove avevo udito dire
si stava così felici in mezzo a tutte le cose belle che vi possano
essere. Perchè non avrei potuto andare tosto tosto, in quel momento
medesimo, insieme con quegli angeli così beati lassù nell'azzurro del
cielo, senza freddo, senza fame, senza battiture, senza dolori fisici
come quelli che a me la mia cagionevole salute e i mali trattamenti
degli uomini mi procuravano con tanta intensità e frequenza? Oh! se il
buon Gesù mi pigliasse seco in compagnia degli altri angeli: pensavo. Mi
sentivo risuonare confusamente ma soavemente all'orecchio le armonie
dell'organo che avevo udito nella chiesa, e le parole del buon curato
dettemi di poi, delle quali non ricordavo più bene il senso preciso, ma
erami rimasto come un'eco aggradevole; sentivo ancora il profumo
dell'incenso cui avevo visto nella mattina innalzarsi alla volta del
tempio in densi avvolgimenti di fumo biancolastro di cui indorava gli
orli il sole, che invadeva co' suoi raggi, dalle alte finestre, la
Chiesa.
«Non so perchè quelle ore di meditazione infantile mi rimasero di guisa
impresse nella mente che di spesso le mi tornano innanzi così fresche di
ricordo che mi par quasi di vivere in esse. Quando torno a rileggere
quelle righe, a ricontemplare questi oggetti, raro è che io non mi
riveda pure là in quel riposto luogo del torrente, sotto alle acacie
fiorite, fruscianti colle frondi sotto il venticello della primavera.»
Maurilio tacque un istante, curvò il capo sul petto, come assorto
appunto in quella interna visione del tempo trascorso che le sue parole
eran tali da evocare.
Fece scorrere tra le sue dita i grani del rosario e volse e rivolse al
raggio della lucerna il bottone d'argento.
— Questo rosario era forse la salvaguardia cui credeva affidarmi la
religione di mia madre........ Certo ad essa appartenne questo simbolo
d'una fede poco illuminata..... Mia madre adunque era forse ricca?......
E questo bottone di livrea?...... Forse appartenne a mio padre.... Gli è
forse il segno della sua vil condizione di servo... Oh! se tu sapessi
come e quante volte mi sono affannato in matte induzioni ed in
congetture impossibili!..... E se mia madre era ricca, perchè fui
abbandonato?..... Si vergognava forse di me, del mio nascimento, di
avermi avuto figlio chi sa di qual padre!...... Oppure questo rosario
loro non apparteneva, l'avevan tolto chi sa dove, chi sa da chi; non
l'avevan posto tra le mie fasce che per compensare in alcun modo col
valore di esso le prime cure di chi mi avrebbe raccolto.... Appena fui
più grandicello, questo mistero della mia nascita mi tormentò con
angustia incessante. Quante volte nella solitudine della campagna, dove
conducevo al pascolo le giovenche di Menico, io obliai tutto il mondo
per affondarmi in questi pensieri! Una velleità ambiziosa mi sentivo
spuntare nell'animo, che mi pareva indizio di meno ignobil sangue. Stavo
delle ore e delle ore, in me raccolto, collo sguardo della mente, per
così dire, fisso in me stesso nel mio interno a scrutarmi con una
minutezza inesorabile d'analisi per giudicare da me stesso quali istinti
avesse posto nella mia natura il sangue paterno. Talora mi pareva che le
generose aspirazioni e l'intelligenza, che superbamente riconoscevo in
me superiore a quelle ond'ero circondato, fossero prova di non abbietto
lignaggio; un'altra volta poi sentivo alcun che di basso ne' miei
istinti, un'acquiescenza, direi quasi vigliacca a quella condizione in
cui mi aveva precipitato il destino onde m'arrabbiavo dolorosamente meco
stesso, e che conchiudevo esser sicuro indizio della volgarità della mia
origine.
— No, codesto non può essere: disse Giovanni Selva. Il tuo solo
desiderio di appartenere per sangue alle classi superiori, mi pare
argomento da far credere che non eri nato per essere un povero
mandriano. Del resto, poco importa chi e quali e che cosa fossero i
genitori tuoi. Noi camminiamo verso un tempo, e ci siamo oramai giunti,
in cui all'uomo non si domanderà più da cui sia generato, quali i meriti
ed i titoli de' suoi padri, ma sibbene che cosa valga e quali meriti
sieno i suoi. E questa dev'essere di noi liberali l'opinione immutevole.
— Verso questo tempo camminiamo, è vero. Ci siam presso... forse!...
come tu dici... Ma non ci siamo ancora giunti. Ah! dei lunghi anni
passeranno ancora, sta certo, prima che nella società non sia più una
nota di vergogna la parola bastardo!
— Poichè tanto desiderio — e giustamente — ti possedeva e possiede di
conoscere qualche cosa intorno a' tuoi genitori, od almeno intorno a
coloro che ti posero addosso quegli oggetti abbandonandoti, non avresti
potuto cercar modo di scoprire di qual famiglia sia questo stemma?
— Bene ci pensai... Anzi fu Don Venanzio medesimo che ci pensò, e volle
incaricarsi egli stesso delle ricerche. Un giorno si fece consegnare da
me e rosario e bottone, e venne a Torino con essi.
— Ebbene?
— Tornò dicendomi che quell'arma gentilizia apparteneva ad una famiglia
affatto estinta, il cui ultimo rampollo era morto nelle guerre
dell'impero. Più tardi volli cercare anch'io, e meno felice ancora di
Don Venanzio, non potei raccapezzare da nessuna parte la menoma cosa.
D'altronde, ancorchè scoprissi tuttavia esistente siffatta famiglia, che
induzione si potrebbe trarre riguardo ad essa da un oggetto così poco
significante, come un bottone di livrea? No, no, non bisogna ch'io pensi
a nulla di codesto; lo so bene; ma che cosa vuoi? Un intimo senso, una
pazzia forse mi spinge, non dico a sperare, ma a fantasticarci sopra in
una assurda aspettazione di impossibili avvenimenti...... Ma lasciamo
ciò per ora, e ascolta il racconto della mia povera vita.
— Ti ricordi tu, Giovanni, così proseguì Maurilio dopo un istante; ti
ricordi il primo momento che la tua intelligenza si destò alla vita? Io
me ne ricordo. Fu sotto l'impulso del dolore, in un'ora di patimenti.
Prima di quel punto la notte era stata sempre in me; l'anima mia non
s'era scossa dal torpore. Certamente avevo sofferto di già, avevo di già
pianto di molte lagrime, ma non ne avevo coscienza. Ad un tratto... ti
dico che me ne ricordo, come se si trattasse d'un avvenimento accaduto
da poco tempo soltanto..... una specie di luce si fece nel mio spirito,
ebbi conoscenza dell'esser mio, della mia personalità, e mi diedi conto
nel mio cervello della mia esistenza e delle cose che mi circondavano.
«Mi ci vedo ancora, là, dove e come mi trovavo a quel punto. Avevo da
quattro a cinque anni. Era d'inverno come adesso, ma una bella giornata,
benchè freddissima. Il fango del lurido cortile era tutto ghiacciato e
faceva un pavimento irto di punte e rugoso come la vecchia corteccia
d'una grossa quercia. Le galline razzolavano in un po' di fimo. Un sole
giallastro indorava la paglia annerita del tetto della casa. Io era
seduto sopra lo scalino della porta che metteva nella stalla, e l'uscio
richiuso separavami dal benigno calore di essa. Ero vestito di una
misera ciopperella di stoffa di cotone, il cui colore doveva essere
stato rosso, ma che allora, per l'uso, per l'immondezza raccattata su
nell'arrabattarmi comechessia entro il brago di quel cortiluccio che
poteva dirsi tutto un truogolo, aveva una tinta bruna, ributtante come
l'impiastratura nericcia di sporco che mi copriva la pelle delle mani e
del viso, e queste e quello vergini di ogni lavatura. Tenevo i piedi
nudi entro vecchi zoccoli di legno della Giovanna, che avrei perso ad
ogni passo che avessi voluto fare. Tutte le membra mi erano intirizzite.
Avevo fame — quella fame che dovevo provar tante volte! — soffrivo molto
e piangevo con quanta voce e con quante lagrime mi restavano in corpo.
«Quella era una delle punizioni usate, e mi toccava ogni qualvolta la
mia presenza diventasse un po' più uggiosa del solito alla Giovanna. La
mi batteva, poi mi cacciava di fuor della stalla a macerare battendo i
denti dal freddo, poi, il più delle volte per intromissione del marito,
meno di lei crudele, si decideva a ripararmi di nuovo entro la casa, ma
non senza prima avermi ribattuto.
«I miei pianti finirono per seccare la malvagia donna. Aprì l'uscio e mi
gridò con quella voce che sola essa mi faceva tremare:
«— Vuoi finirla, bastardo del demonio?
«Mi rammento — tanto da quel punto in poi i miei sovveniri cominciarono
ad essere, e furono sempre spiccati e precisi! — mi rammento che da
quell'uscio semiaperto, da cui veniva la voce minacciosa della Giovanna,
passava pure una ondata d'aria tepente, la quale venne quasi ad
avvolgermi come una carezza. L'una e l'altra cosa fecero che io mi
tacessi; ma attratto da quel dolce tepore, onde abbisognavo cotanto, io
mi trascinai verso l'apertura per isgusciar dentro fra lo stipite
dell'uscio e le gambe della donna. Ma questa duramente mi respinse con
un calcio che mi mandò a rotolare nel cortile.
«— Sta in là, scimiotto! Diss'ella. Chi ti ha dato licenza di
rientrare?
«E chiuse l'uscio inesorabilmente. Io rimasi là dov'ero caduto; non
piangevo più, ma un singhiozzo mi usciva di quando in quando dal petto.
— Che scellerata megera! Esclamò Selva indignato.
— Passò allora un uomo, riprese Maurilio, e vistomi a quel modo, e
uditomi, entrò sollecito e si curvò con interesse su di me a chiedermi
che avessi, perchè fossi lì. Era Don Venanzio. Io non seppi, non potei
rispondere altro colla voce interrotta che quelle crude parole cui mi
rispose stassera un povero ragazzo: — Ho freddo, ho fame!
«Don Venanzio non ebbe schifo della mia lurida sporcizia; mi prese tra
le sue braccia, e tenendomi in grembo andò all'uscio e picchiò forte. La
Giovanna, domandato e udito chi fosse, venne ad aprire, e il parroco
entrò recandomi seco. Con autorità ed amorevolezza insieme fece alla
donna quei rimproveri che aveva già dovuto far prima e che ebbe da fare
ancora mille volte di poi sul modo onde ero trattato, e per sua opera
ebbi allora rifocillamento di pane e di calore.
«Non ti dirò tutto quanto m'intravvenisse di simile, che sarebbe una
troppo lunga e monotona filza di maltrattamenti d'ogni genere. Stenti,
improperi e percosse ne avevo senza interruzione, con raddoppiamento
d'intensità, di quando in quando, che alla Giovanna la luna era più di
traverso del solito, e che a Menico l'ebbrezza giornaliera aveva un
grado maggiore. Mi ricordo, fra le altre cose, che più tardi mi facevano
dormire sopra un impalcato d'una tettoia senza riparo ai lati, e per
letto un po' di strame sminuzzato e sporco più che uom possa immaginare.
Colà passavo la notte state ed inverno senza copertura sempre,
avvolgendomi per riscaldarmi in quel tritume che poteva quasi dirsi
letame. Per salire colassù non volevano nemmanco scomodarsi a pormi
all'uopo una scala a piuoli; e siccome io non aveva forza bastante da
mettermela a posto, mi industriavo ad arrampicarmi, aiutandomi dei
crepacci e di alcuni vuoti che c'erano nel pilastro onde il tetto era
sostenuto. Infermiccio e deboluccio com'ero, sovente non me ne sentivo
da tanto, e restavo sotto quell'impalcato spargendo lagrime impotenti,
anelando a quella lurida paglia a cui non potevo arrivare, come ad un
piccolo paradiso. Una volta mi mancarono a mezzo dell'ascesa le forze,
caddi e mi ruppi gravemente il capo. Menico udì per mia fortuna il colpo
ed il grido, venne fuori, mi raccolse, e d'allora in poi mi fece
partecipare del giaciglio che aveva sotto il carro il cane di guardia.
«Se io non sono morto, convien dire che un fortissimo organismo mi
avesse dato la natura...
— Ma Don Venanzio, interruppe a questo punto Giovanni Selva, come
tollerava egli codesto? Piuttosto avrebbe dovuto toglierti a quei
manigoldi ed allogarti altrove, anco prenderti seco.
— Don Venanzio, rispose Maurilio, non poteva veder tutto, e non seppe
mai, come non sa neppure adesso ancora, la verità per intiero. Bene era
già sufficiente ciò ch'egli vedeva perchè il buon sacerdote se ne
commovesse, fieramente ammonisse Menico e la moglie, e li minacciasse
eziandio di togliermi alle loro mani. Ma questa minaccia avrebbe egli
avuto assai difficoltà poi a tradurre in atto; poichè quale altra fra le
povere famiglie di quel povero casale avrebbe voluto accollarsi quel
peso? E rendermi ad un ospizio di trovatelli, Don Venanzio non pensava
fosse un vantaggio per me. E pigliarmi seco, la sua povertà, che pur
trovava modo ancora di soccorrere altrui sottraendo al necessario per
esso, la sua povertà di umil prete di campagna non glie lo consentiva.
D'altronde sperava egli sempre che un po' d'affetto i due villani
avrebbero posto in me, il quale, crescendo, cominciavo a diventar loro
utile, e lo sarei stato sempre più; non avevano figliuoli, non congiunti
prossimi, nulla era più naturale che a me lasciassero poi quelle
sostanze che il parroco sapeva aver essi raccolte e venire aumentando
ogni anno; e ciò, pensava egli, sarebbe stata la mia fortuna.
«Menico e Giovanna poi, appunto perchè col crescere degli anni io mi
veniva facendo utilissimo, perchè avevano in me un servitore oramai
necessario alla loro età più inoltrata e un servitore che pagavano
soltanto con un tozzo misurato di pane; Menico e Giovanna, dico,
simulavano per bene innanzi al curato, e sapevano all'occorrenza
allontanare da lui l'idea di togliermi alla loro casa. Sì, lamentandosi
della spesa maggiore che loro costava il mio mantenimento, arrivavano
ancora a strappare dal buon prete alcun regaluccio di denari e di robe
destinato a me, ma di cui non arrivavo mai a vedere neppur l'ombra.
«Quando la mia intelligenza fu abbastanza sviluppata da poter
comprendere la crudeltà della rampogna continuamente gettatami in faccia
dalla Giovanna: che io era un intruso in quella famiglia, che non
appartenevo a nessuno, che rubavo, per così dire, quello scarso pane che
mangiavo, una profonda umiliazione fu la mia. Mi sentii l'ultima delle
creature viventi; qualche cosa di più basso che quegli animali, per cui,
traendone profitto e costando loro denari, Menico e sua moglie avevano
più cura e maggiori sembianze d'affetto che non per me, di più vile del
cane, il quale almanco veniva lodato e mantenuto senza troppo
rincrescimento perchè teneva lontani i ladri, custode vigile e fedele.
«Perciò allorquando potei dirmi che alcun servizio rendevo pur io a
quella piccola associazione e compensavo così il datomi alimento, mi
parve di essermi alcun poco rilevato ai miei occhi medesimi.
«Facevo in casa il servo di tutti — uomini e bestie; faticavo come un
animale da soma. La sera cascavo dal sonno e dalla stanchezza; ero così
sfinito certe volte che mi pareva dovesse mancarmi la vita. Mi lasciavo
cadere spossato là dove mi trovavo. Ma gli improperi e lo staffile della
Giovanna venivano a restituirmi ben presto il coraggio d'un nuovo
sforzo.
«Conducevo alla pastura le vacche della stalla, e quello era il tempo
più felice della mia giornata.
«I pascoli comunali, dove menavo e custodivo le vacche di Menico, erano
sopra un'arida costa della collina, su cui una misera erba mezzo
assecchita copriva appena il terreno ronchioso, pieno di sassi e di
sterpi. Ma lì presso correva susurrando un'acqua a cui andavano a bere
ghiottamente le bestie; sorgevano sulla sponda del ruscello alcuni
ontani dal verde lussureggiante, all'ombra dei quali m'era dolce
ripararmi dai troppo caldi raggi del sole; intorno intorno si aveva il
sempre magnifico spettacolo della natura.
«Come imparai ad amarla questa gran madre di tutto e di tutti, io che
non ne aveva di madre, io che non poteva amare nessuno, perchè non ero
amato da nessuno!
«Nella solitudine di quel luogo nacquero nel mio capo i primi pensieri
intorno alla vita, intorno all'esser delle cose, sorsero nella mia anima
le prime aspirazioni verso gli affetti onde abbisognava il mio cuore e
cui indovinava l'istinto.
«Era la sera e la mattina che io doveva recarmi colà. Com'è bello sempre
il sole nella campagna! Ma nel suo sorgere e nel suo tramonto quanto
ancora è più stupendo! Quanto l'amavo questo benedetto sole che mi
scaldava le membra, che mi regalava tanto sublime spettacolo di luce e
di bellezza! Avrei potuto esclamare come Giuliano l'apostata: «Io sono
adoratore del resole!.... Fin dalla mia infanzia fui posseduto
straordinariamente dal desiderio di godere dei raggi suoi[7]. «Non c'è
paesista per quanto abbia studiato dal vero che abbia esaminate e si sia
impresse nella mente tutte le fasi di quelle ineffabili scene, che sono
l'aurora e l'occaso, come ho fatto io. Il mattino, dritto sopra la più
alta di quelle bozze del terreno, stavo immobile, volto all'oriente,
desioso, palpitante, ad aspettare, dopo il mite splendore dell'alba, il
primo irrompere della freccia d'oro d'un raggio di sole. Innanzi a me si
apriva come un anfiteatro di colline, imboschite, scure ancora delle
ombre della notte, addormentate tuttavia, mentre nella zona superiore,
quasi precursori dell'astro che stava per sopraggiungere, correvano
l'aria fresca mattutina e certe tinte color di perla nell'azzurro cielo
in cui impallidivano le stelle.
[7] _In regem Solem ad Sallustium_, Julian. Op.
«Quando il sole gettava i fasci irrompenti delle sue fiamme divine, e
sorgeva imponente e soverchio alla pupilla di questa misera creatura che
è l'uomo, io mandava un grido selvaggio di gioia, come facevano gli
augelli ridesti; partecipavo direttamente a quell'omaggio della natura
al suo re.
«Vivevo intimamente nella vita della natura; confondevo la mia povera
persona in quel tutto onde ero avvolto. Al suo tramonto io seguitava il
sole con occhio amoroso, pieno di rimpianto. Le nubi che velavano il suo
splendore mi riempivano di tristezza. Nelle belle giornate serene
sentivo entro l'anima una muta, segreta contentezza che non avrei saputo
spiegare e che mi faceva bene pur tanto.
«Avrei voluto vivere così sempre. Mi sdraiavo all'ombra di quegli ontani
e guardavo, guardavo. L'orizzonte non era molto vasto, gli oggetti che
mi si presentavano erano pur sempre i medesimi; eppure non mi stancavo
mai di guardare. Quante idee nascevano allora in me! E dove le attingevo
io, che non sapevo niente, che non avevo visto niente, che non
comunicavo con persona viva, fuorchè colle stupide bestie affidate alla
mia custodia?
«Vi ha chi, rinnovellando il pensiero pitagorico, dice oggidì che gli
spiriti prima di proseguire la loro misteriosa carriera nell'infinito,
debbano incarnarsi più volte su questa terra entro le nostre miserabili
spoglie d'uomo; che la memoria delle precedenti esistenze rimane sì
obliterata in noi, ma che pure in taluni qualche vago accenno, che pare
un presentimento, un istinto, una divinazione, permane, fugace richiamo
d'un passato, forse di secoli e di secoli. Io sono presso a creder
codesto. Non t'è avvenuto mai di trovarti innanzi a certi affetti, a
certe sensazioni, a certe circostanze, eziandio che dovrebbero esserti
novelli, come innanzi a cose già occorse e già sentite? A me accadde, ed
accadde le mille volte. Ma questo momento, io mi domando, l'ho io già
vissuto, lo vivo realmente adesso?
«Le idee che sorsero nella mia mente in quella solitudine, fanciullo io
ancora, nulla di quanto mi avvicinava poteva darmele, e se io non le ho
portate meco nascendo, residuo d'una vita anteriore, non saprei dove le
abbia potute acquistare. Quello che travagliava me, misero, ignorante,
disprezzato bùttero della campagna, era niente meno che il problema
della nostra esistenza — il problema della vita — il problema della
creazione.
«Perchè esistevo io? Perchè esisteva tutto quel mondo che mi attorniava?
Avevo udito a nominar Dio. Che cosa era questo Dio? Egli aveva fatto
tutto quello che esiste — ma pel suo bene o pel nostro? Se pel suo, come
mai aveva egli da aver bene mercè il dolore delle creature? Imperocchè
l'idea del dolore fosse la più spiccata e precisa che io avessi dai
primi anni miei. Se pel nostro bene, come mai la creazione volgevasi a
tale che ne risultava il male? Tutto questo non si combinava coll'idea
che avrei voluto farmi di Dio. E s'egli aveva creato ed era
onnipossente, avrebbe potuto bene non creare affatto, o distrurre
l'opera sua? Non creare! Se non avesse creato ci sarebbe dunque stato il
nulla!....
«Mi ricordo che quando questa tremenda idea invase il mio cervello, io
credetti impazzire. Il nulla! Niente che esistesse. Dio solo nella sua
solitudine infinita!... Ma un Dio inerte e che non facesse nulla si può
egli concepire?... Dunque nè anche Dio!.... Nulla! Nulla!.... Sentivo la
mia testa scoppiare sotto questo assurdo inconcepibile, e che volevo
sforzarmi a concepire.
«La creazione, m'insegnava il catechismo che andavo alla domenica a
sentire spiegato in chiesa, era appunto l'atto con cui Dio aveva formato
il mondo dal nulla, dunque prima ch'egli creasse, questo nulla dominava
lo spazio ed il tempo...
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