La plebe, parte I - 16

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«— Non toccatemi...... lasciatemi stare: gridai con vero terrore
tirandomi in là più che potessi.
«Ed egli trattenendomi:
«— Sta buono che non ti voglio mica mangiare; se tu fossi un pezzo di
prosciutto... meno male!
«Mi cacciò impudentemente le mani addosso e mi palpò con isfacciato
cinismo.
«— Sei magro come un'acciuga. Che cosa faremo di te qui dentro? Sei
buono nè da questo nè da quello.
«Dirti il ribrezzo che provavo è impossibile, eppure stavo là
passivamente sotto lo schifoso toccare di quelle luride mani, incapace
com'ero diventato assolutamente di muovermi.
«— I birri, t'avranno frugato ben bene, continuava Graffigna, e non
t'avranno lasciato neppure la croce d'un centesimo, non è vero? vediamo
un po'. (E mi frugava con una destrezza insuperabile). Se lo dicevo!
Asciutto come un fiasco che è passato per le mani di Stracciaferro. E
tu, povero coso, non avrai saputo mettere in salvo tanto da pagarci la
buona venuta... E qui dentro, in un modo o nell'altro bisogna pagarla; e
se non hai denaro la pagherai colle opere... Questo te lo dico io.
«Ed egli mi diceva il vero pur troppo. Io divenni il servo di tutti que'
tristi e ad ogni più umiliante cosa, ad ogni loro capriccio mi
obbligarono con sevizie di tutta fatta, piacendosi di quando in quando a
tormentarmi per iniquo diletto da occupar loro la noia.
«Non ti dirò tutto quello che mi avvenisse in quella bolgia d'inferno.
Ti basti sapere che d'ogni fatta orrori io ne udii narrati e d'ogni
sorta sconcezze ne vidi; io cui la vita della campagna in mezzo alla
natura aveva almeno conservato sino allora incorrotto nella mia pudica
ignoranza.
«Credi pure: una delle prime riforme che occorrano nel nostro
ordinamento civile si è quest'essa delle carceri. L'imprigionamento
preventivo, in massima, può essere talvolta una solenne ingiustizia che
punisca crudelissimamente un innocente, com'era il mio caso; in fatto
poi, applicato com'esso è appo noi, è una scuola infame di corruzione e
di delitti per chi o è puro tuttavia, dopo un primo fallo altresì
potrebbe ancora esser facilmente ridotto alla buona strada.
«Pensa al mio caso ed alle mie condizioni, e non potrai a meno che
rabbrividire. Giovane appena di diciasette anni, mentre non avevo ancora
nemmanco in me l'idea del delitto, e l'uomo colpito dalle leggi mi
appariva come un mostro quasi fuori della natura, ero gettato in mezzo
ad una frotta di scellerati che dei loro delitti si compiacevano e
menavano vanto, ed avevano dai compagni misurata la stima appunto dalla
audacia e dalla grandezza della colpa commessa.
«A ritenere dal male giova moltissimo, forse più che ogni altra cosa, il
pensiero ch'esso sia ripugnante alla nostra natura, che il delitto non
sia il retaggio che di certi esseri predestinati da noi ben differenti,
che fra noi ed i colpevoli corra una gran distanza difficilissima a
superarsi. Più state lontani dallo spettacolo e dalla conoscenza del
male, e più sarà in voi radicata questa salutare idea. Non crederete
possibile il far male, perchè non avrete l'abitudine di pensarci e
conserverete per esso tutto l'orrore che vi hanno inspirato od avete da
voi medesimi concepito. Ma prendete un povero diavolo cui la giovinezza
faccia più impressionabile alle cose circostanti e cacciatelo in quella
trista atmosfera di scelleratezze; dapprima il suo orrore sarà cresciuto
a dismisura, e soffrirà moralmente, come parola umana non può esprimere;
poscia, del pari che il corpo ai patimenti ed alle intemperie fisiche,
la sua anima s'incallirà, per così dire, a poco a poco a quello
sciagurato ambiente del male; la mostruosità del delitto, che gli pareva
impossibile ad allignare nel suo animo, finirà per apparirgli la cosa
più naturale del mondo e se ne sentirà entro se stesso i germi; se
quell'infelice condizione perduri, giungerà a credere portato della
natura umana il delitto, stoltezza o pregiudizio l'onestà e la virtù.
«Codesto press'a poco provai io stesso, e se non caddi fino a
quest'ultimo grado, lo debbo ed al buon don Venanzio, che tutto
s'adoperò per ottenere la mia liberazione, e più ancora all'intervento
pietoso del mio buono spirito protettore.
«I due principali in quella congrega di scellerati erano i due che ho
già nominati: Graffigna e Stracciaferro. Erano essi che più mi
tormentavano e più mi tenevano seco. M'inspiravano odio e paura: il
primo peggio che il secondo, quantunque Stracciaferro fosse il più
violento e in apparenza anche il più feroce. Ma non so quale ignoto
sentimento, che anche oggidì non so come spiegare, mi faceva desioso di
conoscere, di esaminare quella rozza, selvaggia, barbara natura.
«Un vincolo fortissimo di antica complicità nei delitti si vedeva che
legava questi due uomini in un'infame amicizia; ma essi lo
dissimulavano. Graffigna, che era quello dei due il quale aveva la
parola sciolta, raccontava ai compagni, che ammiravano, i fasti
sciagurati della loro vita; e mentre l'uditorio applaudiva,
Stracciaferro, giacendo quasi sempre disteso nella sua lenta mole, si
contentava di sorridere con una specie di orgoglio bestiale.
«Fra tutti quei delitti ce n'era uno che Stracciaferro non voleva udire
ricordato. Graffigna aveva fatto cenno di esso una volta, e il suo
complice, divenuto pallido come un cencio, esclamò con ira insieme e
quasi spavento.
«— No, no, non quello, non quello.
«Bastava codesto perchè grande fosse appunto in tutti la curiosità di
saperlo, e ti confesso che ancor io partecipava di questa malsana
curiosità.
«Eravamo in principio di novembre, il giorno tristissimo dei morti. Da
qualche giorno Stracciaferro era tristo, cupo, taciturno; Graffigna
sorrideva e crollava le spalle guardandolo con molta compassione. Quando
s'interrogava Stracciaferro che cosa avesse, egli non rispondeva che
mediante un grugnito con cui voleva dire: lasciatemi tranquillo; quando
se ne chiedeva a Graffigna, egli diceva sottovoce, perchè il suo
complice non udisse: — Siamo ne' suoi giorni neri; parecchi anni sono a
questi dì ci capitò quel certo affare ch'ei non vuol mai gli si ricordi,
e il pover uomo ha la debolezza di sentire qualche cosa a rosicchiarlo
nello stomaco.
«La notte dei morti, io che dormiva non lontano da lui, udii
Stracciaferro gemere, lamentarsi nel sonno, lo vidi agitarsi e ad un
punto levarsi di scatto a sedere sul giaciglio come desto improvviso,
esclamando:
«— Ah! la Gegia! la Gegia!
«Tutto taceva, eccetto il profondo russare di alcuni addormentati; il
lumicino appiccato alla parete mandava una fioca luce nell'androne; a
quello incerto chiarore mi parve scorgere livide per paura le guancie di
quell'omaccione ed irte sulla sua testa le chiome. Stette egli un poco
così, quasi smemorato, guardando attorno con occhi sbarrati, poi si
passò la mano sulla fronte due o tre volte, come per cancellarne un
tenace pensiero, e gettando un profondo sospiro tornò a sdraiarsi.
«Il domattina Stracciaferro era pallido ed aveva ancora contratti i
lineamenti. Quasi non disse verbo di tutto il giorno. Mi guardai bene
dal lasciarmi sfuggire un sol motto che potesse fargli supporre aver io
visto il suo turbamento notturno.
«Graffigna cercò motteggiarlo; ma, senza neppur disserrare le labbra,
Stracciaferro lo guardò di tal guisa che quell'altro non ebbe più ardire
di aggiunger parola. Verso sera alcuni dei prigionieri avendo cominciato
a cantare, secondo il solito, una delle luride loro canzonaccie,
Stracciaferro con voce tonante impose loro silenzio, e tutti si
tacquero, tanto era il predominio che gli avevano dato la sua
superiorità di forza muscolare e di colpe.
«— Non c'è che un modo per addomesticare quest'orso: disse Graffigna
ristrettosi cogli altri prigionieri a consiglio; ed è di ubbriacarlo
d'acquavite. Il carceriere P....., se noi gli lasciamo scorrere qualche
_bianchetto_, ci fornirà una famosa _toppetta di branda_, e con ciò noi
otterremo l'intento.
«Così fu fatto. Quando si ebbe l'acquarzente, dapprima Stracciaferro
rifiutò di bere; poi cedendo ad un tratto alle sollecitazioni di
Graffigna, con un moto brusco e quasi rapace afferrò la fiaschetta e
recatala alle labbra, ne tracannò giù come se fosse acqua di fonte. Di
botto i suoi occhi brillarono, un cupo rossore salì ai pomelli delle sue
guancie, e il petto largo e potente gli si sollevò in un respiro ampio e
profondo.
«— Neh, che così la va meglio? Gli disse, con tono insinuante
Graffigna.
«— Sì, la va meglio. Questo è il farmaco per ogni melanconia.
«E rimettendosi il fiasco alla bocca non lo trasse giù più finchè non
l'ebbe vuotato del tutto. Allora guardò intorno roteando gli occhi, con
aspetto tra scemo e tra stupito; poi ruppe in una gran risata,
scaraventò contro la parete di prospetto la bottiglia vuota che ne andò
in mille frantumi, e cadde indietro lungo e disteso sullo strammazzo
dov'era seduto, come fulminato.
«Alcuni s'appressarono quasi per soccorrerlo.
«— Lasciatelo, lasciatelo: disse Graffigna. E' fa sempre così; ora sta
un poco a covarsi quel boccone di sbornia, e poi salterà su collo
scilinguagnolo sciolto che lo udrete a contare vita e miracoli.
«Avvenne in questo modo appunto. Stracciaferro tornò a sedere sul suo
pagliericcio. Aveva la faccia di un rosso cupo, color di mattone, gli
occhi infiammati, le labbra turgide, allividite; pareva un infermo di
trasporto cerebrale nel delirio della febbre. Tese la mano a Graffigna,
e questi avendogli data la sua, glie la strinse con tal forza che il
mingherlino fece una smorfia orribile e gettò un grido ed una bestemmia.
«— Alla croce di Dio, pendaglio da forca, tu mi stroppii.
«— Grazie, Graffigna: diceva Stracciaferro con una concitazione
straordinaria: grazie! Sì questo mi fa bene.... forse mi uccide, ma che
importa?... Questo mi guarisce dalla mia sciocca debolezza.
«Guardò intorno entro il viso dei suoi ascoltatori, un per uno, come per
vedere se alcuno volesse contraddirlo.
«— Sì, sciocca debolezza: ripetè insistendo. Sono un uomo, e un fiero
uomo in tutto, me ne vanto; ma in una cosa sola sono un bambino, sono
una femminetta. Lo credereste? In questi giorni ho qui dentro qualche
cosa che mi rode, che mi leva ogni forza, che non mi lascia dormire.....
Ha da dirsi rimorso?.... Chiamatelo come volete.... È un maledetto
tormento, ve lo assicuro.... Sono già diciasette anni che a questa
stagione soffro di codesto male. Che cosa non darei perchè non venisse
mai il mese di novembre, e sopratutto il giorno dei morti! Ne ho fatte
d'ogni colore, parecchi ho visto morire sotto i miei colpi. Nè il sangue
mi spaventa, nè il rantolo dell'agonia d'un uomo. Se penso a questo od a
quello che ho mandato all'altro mondo, non mi fa nè caldo, nè freddo,
non perdo l'appetito e la notte non dormo meno saporitamente per ciò; e
invece quando il pensiero mi viene d'una donna, d'una debole donna,
giovane e povera, ecco che gli è come se la vedessi — proprio lei —
sorgere, e starmi dinanzi, e tendere verso di me le sue bianche braccia
convulse a strapparmi dalle mani suo figlio, e vedo, come allora, le
chiome scarmigliate, il nudo seno e gli occhi furenti...... Chi ha visto
mai una madre che difenda suo figlio? Una leonessa non può essere più
fiera.... L'ho sognata questa notte. Mi si avventava incontro come
allora con morsi e graffiature; mi vomitava improperii e maledizioni;
invano la respingevo; mi si attaccava con unghie di ferro, e il tempo
stringeva; avevo promesso, avevo già preso parte del denaro, aspettavo
di averne il resto; Graffigna mi sollecitava; Graffigna mi aveva fatto
bere come stassera; io gridava alla donna: lasciami andare o succederà
qualche precipizio; ella più ostinata che mai gridava: rendimi mio
figlio, gridava accorruomo. Era notte; mi ricordo che le sue grida acute
risuonavano pel silenzio di quella città in cui ero straniero come i
rintocchi d'una campana a stormo. La gente l'avrebbe udita di sicuro.
Sarebbero accorsi; a momenti potevano esser lì. Come salvarmi? Non ero
pratico di Milano..... poichè gli è colà che eravamo.... fa presto, mi
diceva Graffigna, il quale mi tolse il bambino di mano; fa presto.....
Ma come? Pari ad un serpente la Gegia mi si avvinghiava intorno.... In
che modo avvenne che mi trovassi in mano un coltello? Fu il demonio che
me lo cacciò fra le dita, o fosti tu, Graffigna.... Bisognava
fuggire.... Quel seno bianco era lì davanti a me. Gli piantai dentro la
lama; il sangue mi zampillò caldo nel viso, lo vidi colar rosso rosso su
quelle carni; la Gegia agitò le braccia, rantolò pur ripetendo ancora
quelle parole che mi rimasero stampate come un marchio di fuoco nel
cervello: rendimi mio figlio; e cadde! Graffigna mi afferrò, mi trasse
con sè; fuggimmo portando via la preda — quell'infelice bambino....
Ebbene questa notte l'ho sognata tal quale. Boccheggiante nel suo
sangue, quella misera donna venne ancora a ripetermi: rendimi mio
figlio!
«Curvò il capo e si tacque. Graffigna prese egli a dire, con quella sua
voce in falsetto che mi parve allora più acre e stonata che mai:
«— Fu la cosa più necessaria del mondo, e non si poteva fare
altrimenti. Un cotale — gli è un signore di qui, e potrei anche dirne il
nome, se non fossi un uomo prudente — un cotale adunque, con cui avevo
per altri precedenti affari piuttosto strette relazioni, mi dice un bel
giorno, sono appunto diciasette anni: «— Mio caro Graffigna, ho bisogno
che tu mi procuri un bambino maschio che abbia circa due anni di età, di
cui padre e madre non si dieno più pensiero e non cerchino di saper più
nulla mai; ho bisogno che nessuno al mondo sappia mai che io t'abbia
data questa commissione e che tu l'hai eseguita. Se tu fai a modo avrai
due mila lire.» Cospettone! Capirete anche voi che due mila lire non
sono una manata di giuggiole. State tranquillo, messer Na... (Qui
Graffigna s'interruppe e non disse intiero il nome). State tranquillo,
insomma, gli dissi (così ripigliò) che la cosa è bella e fatta. Sapevo
che Stracciaferro era in relazione con una tale che aveva dato alla luce
un bambino, e pensai tosto che quello era il fatto nostro. Cercai subito
di lui e gli contai la faccenda. Questo bravo uomo dapprima aveva degli
scrupoli; ma poi all'udire delle due migliaia di lire cominciò a piegar
l'orecchio. C'erano però due difficoltà. Quella donna s'era traslocata a
Milano per seguitarvi una signora al cui servizio la si trovava, e
quantunque non fosse più in quella casa, aveva però continuato a far
dimora colà. Inoltre il bambino di lei non aveva che pochi mesi e non
era ancora slattato. Ma io sono fatto per isciogliere le difficoltà. La
prima era anzi un vantaggio. Avrei persuaso il nostro mandante come
fosse molto meglio per la segretezza della cosa andare a prendere il
fantoccio lontano, e che occorreva soltanto per la spesa maggiore un
aumento della somma di compenso: quanto all'età, qualche mese più,
qualche mese meno, pensavo di potergliela accoccare lo stesso a chi ci
dava la commissione. E infatti quel signore fu lieto molto della mia
proposta di prendere il bambino in una città lontana, e crebbe sino alle
tre migliaia di lire, cotanto gl'interessava la cosa. Partimmo e andammo
dritto da quella donna, sperando che spiegandole la cosa, ella si
sarebbe acconciata volontieri per un cinquecento franchi a lasciarci il
marmocchio, che non erale altro che un peso. Sì, va a far capire la
ragione ad una testa matta di donna che si incoccia a dir no! Nè
preghiere, nè minaccie ci valsero. Avevamo già intascato un migliaio di
lire, e non è gente del nostro calibro che manca alla parola. Dissi
allora a Stracciaferro di arraffare il naccherino e filare. Fu allora
che successe il casa del diavolo. Il bambino fu portato via, e la donna
andò all'inferno.....
«— Taci: urlò Stracciaferro: non parlar male di lei..... Povera Gegia!
Povero bambino!.... Oh! che ne sarà stato di lui?
«— Peuh! Questo non era più affar nostro. Consegnato il marmocchio e
presi i danari, che ne importava del resto?
«— A te! riprendeva Stracciaferro; ma io!... quello era mio figlio!
«Non puoi credere l'impressione che quel racconto fece su di me. Erano
diciasette anni che quel delitto era successo. Quel bambino aveva dunque
press'a poco la mia età; e mi domandavo, come faceva il feroce mio
compagno di carcere, che cosa mai poteva essere avvenuto di lui, che
vita, che sorte fossero le sue. Figliolo d'un tal padre! Non era ella
una disgrazia peggiore che quella di non aver padre nessuno? Ma almeno
egli non sapeva questa sua disavventura, e l'uomo che aveva fattolo
rubare alle carezze della madre gli aveva forse creata una esistenza
onorata e tranquilla. Pensavo a quella povera madre, e pareva anche a me
udire le ultime parole arrangolate, pronunziate dalla morente: _rendimi
mio figlio!_
«E di botto mi veniva alla mente il pensiero di quell'aerea forma che mi
appariva di quando in quando, e ch'io m'era avvezzo a chiamar mia madre.
Ella pure forse era stata da me disgiunta; e come? e chi sa con quanto
dolore?
«Quegli che più di proposito aveva assunto l'impresa di volgermi
decisivamente al male, era Graffigna. Si piaceva ad istillarmi ogni
sorta di infami insegnamenti: come si concepiscono, si meditano, si
preparano, si compiono i delitti. Era maestro in quest'arte sciagurata.
Niuno meglio di lui sapeva far nascere le occasioni da un lato e fare
sparir gl'indizi del fatto dall'altro. Aveva ridotto la cosa ad un
giuoco di combinazioni che presentava la sua attrattiva come ogni lotta
in cui l'attività e l'acutezza della mente s'impiegano più che le forze
del corpo.
«A me poi, col serrato argomentare d'una logica inesorabile, voleva
persuadere che ad ogni costo io doveva essere e sarei stato uno dei
loro. Secondo lui, tutti gli uomini nascevano colle medesime
disposizioni press'a poco; a gettarli di di qua o di là di quella linea
ideale che separa nel mondo quelli che si chiamano galantuomini da
quelli che si chiamano furfanti e che sono perseguitati dal codice
penale, non è altro che il particolare presentarsi delle circostanze; in
una sola parola, il caso. Per me questo giudice supremo aveva già
pronunziato irrevocabilmente, ed avevo da appartenere di necessità alla
schiera dei birbanti. Fossi non fossi reo di quel primo delitto, non
montava nulla. Avevo assaggiato del carcere, e questo bastava per
imprimermi il carattere indelebile d'individuo pericoloso alla società e
condannato al bando dai cosidetti onesti. Uscito di là non avrei trovato
più nè una mano che mi si tendesse, nè un pezzo di pane in compenso del
mio lavoro; la sedicente virtù mi avrebbe chiuso la porta in faccia e
lasciatomi dappertutto sul selciato a morir di fame, avrei dovuto
riparare ad ogni modo nelle file dei reietti, e tanto valeva che di
subito m'imbrancassi con loro. Ero povero, solo al mondo e colla nota di
bastardo. La sorte mi aveva gettato in mezzo al genere umano
precisamente apposta per accrescere d'una recluta l'esercito dei ribelli
alla tirannia sociale: quello era il mio destino; uomo nessuno si può
sottrarre al suo destino, ed io, avessi fatto qualunque cosa, avrei
dovuto pur sempre soggiacere ai decreti di esso.
«Le parole di quell'uomo mi confondevano la mente; sentivo con terrore
in me l'impotenza di rispondere alle sue ragioni, di respingere
l'influsso che m'invadeva del suo dire. Delle volte mi nasceva la
tentazione di esclamare: ebben sì, sarò dei vostri; e tenuissimo era
l'ostacolo di ripugnanza interiore che tuttavia me ne tratteneva. Spesso
mi sentivo agitato come da una battaglia che si combattesse nell'animo
mio: poi ad un tratto ero lasso e fastidito, e parevami che, presa una
volta la decisione di essere ciò che erano tutti coloro che mi
attorniavano, sarei stato più tranquillo. Anche la ingiustizia del
trattamento che soffrivo, io innocente, mi destava talora dei veri
parossismi di sdegno. Provavo un odio accanito contro chi mi aveva
procurato codesto immeritato supplizio; e Graffigna mi apprendeva che
questo cotale era tutta la società, era l'ordinamento delle cose fatto
apposta per rassicurare tutti quelli che possedevano e che si chiamavano
onesti, ed opprimere coloro che non avevano nulla e che i primi avevano
battezzato per mariuoli.
«Te lo confesso schiettamente: stavo per cedere. Mi sentivo male. Il
passare così ad un tratto dalla vita aperta dei campi all'aria impura di
quel luogo chiuso dove si respirava in tanti: la passione stessa della
mia anima combattuta, la rabbia, il dolore, la vergogna avevano scosso
la mia salute già cagionevole fin dall'infanzia. Da più giorni mi
ricorreva periodicamente una febbre che ad ogni volta si faceva più
forte. Non dicevo nulla ma mi sentivo consumare la vita. Non potevo
mangiar più neppure un boccone; avevo una sete inestinguibile e non
avrei fatto che bere. I miei compagni che mangiavano la mia porzione si
guardavan bene dal dirmi ammalato ai custodi: io nè voleva, nè osava
parlare; nè pure ci pensavo. Quando l'accesso mi prendeva, avevo delle
trafitture qui nel capo che mi pareva mi piantassero delle sottili lame
arroventate traverso l'osso del cranio ed alle tempia a penetrarmi entro
il cervello. Delle cose che mi attorniavano e di me stesso e del mio
stato, avevo e non avevo coscienza. Le impressioni perduravano, ma non
erano più esatte. I rumori e la vista degli oggetti a volta a volta mi
tornavano velati, come lontani, come traverso ad una nebbia, oppure mi
rispiccavano più vivi, più forti, destandomi una sensibilità quasi
dolorosa. Perdevo in certi momenti la idea del tempo; tutto mi si
confondeva in un tratto il mio passato a farmisi presente, e vivere in
un attimo una serie d'anni; poscia quella confusione svaniva a lasciar
sorgere più netta l'idea dello stato in cui mi trovavo; ed allora mi
sentivo veramente a soffrire.
«In uno di questi accessi tutti i discorsi tenutimi da Graffigna mi
sfilarono innanzi come incarnati in certe figure di persone che mi
sembrava mi sorridessero, mi ammiccassero, mi chiamassero a sè passando.
Ciascuno aveva la sua fisionomia propria, e mi guardavano molto
onestamente, con aria d'interesse e con faccia d'amici. Li salutavo
quasi con affezione, e siccome essi parevano invitarmi ad andar con essi
loro, io mi drizzai sul mio giaciglio, pronto a seguirli e recarmi dal
demonio tentatore a dirgli: sono cosa vostra.
«Ma ecco, di colpo, appena levatomi a sedere, tutta quella fantasmagoria
sparire. D'improvviso io mi sentii libero il capo e chiara la mente;
parvemi che un fresco alito mi ventasse sulla fronte a calmare il
tumulto del mio sangue: provai un senso subitaneo di sollievo e di
benessere; sentii che riprendevo per l'affatto il possesso della mia
volontà e della mia intelligenza; mi trovai — te lo assicuro — nello
stato medesimo di lucidità in cui sono al presente.
«Anche allora era sull'imbrunire. Il lume non era ancora stato acceso ed
un'oscurità quasi piena ottenebrava il camerone. Innanzi a me, dritta ai
piedi del mio pagliericcio, diffondendo intorno a sè una specie di
debolissimo chiarore, stava quella forma incorporea di donna, stava lo
spirito che da qualche tempo già non mi era più apparso. Benchè sempre
incerte ne vedessi le sembianze, parvemi tuttavia che in esse fossevi
una espressione di mestizia e di rimprovero. Io tesi le mani verso di
lei e mandai una esclamazione. Ella si chinò allora verso di me;
sembrommi che qualche parola pronunziasse, ch'io pure non potei
afferrare; si volse alla parte dov'erano nell'ombra Graffigna e
Stracciaferro e scosse la testa e fece un atto imperiosamente negativo
colle mani, come per dirmi a loro non m'accostassi; poi si pose la
destra sul petto, quasi volendo indicarmi, son io che te lo comando, io
che te ne prego, e disparve.
«Parvemi che il buio della stanza si facesse maggiore. Fui per chiedere
ai miei vicini se nulla avessero visto; ma poi questa mi parve quasi una
profanazione e mi tacqui. Mi lasciai ricadere sul mio giaciglio, tutto
riconfortato dell'anima. Questa benefica apparizione aveva fugate quelle
perniciose della febbre: i sofismi di Graffigna erano vinti dalla sola
presenza manifestatasi del mio buono spirito. Stetti più cheto, con una
nuova tranquillità quale non avevo più da tempo gustata, e poco stante
mi addormentai.
«Il domani ecco aprirsi la porta del camerone, ed il custode chiamarmi
per nome.
«— Venite fuori, che c'è gente che vuol parlarvi.
«Appena potevo reggermi in piedi. Mi trascinai a stento dietro il
carceriere fino in una stanza a piano terreno.
«Colà Don Venanzio commosso mi tendeva le braccia e sclamava colle
lagrime agli occhi:
«— Maurilio, tu sei libero.
«Gettai un grido di gioia e l'emozione fu tanta che per la debolezza non
potendovi reggere, caddi svenuto nelle braccia del buon sacerdote.
«Don Venanzio non mi aveva dimenticato. Persuaso che io era vittima d'un
errore, non aveva avuto pace più finchè non l'avesse visto riparato. A
Torino egli conosceva una famiglia potente..... (Qui Maurilio esitò un
momentino.) La famiglia Baldissero.
— Quella a cui appartiene il tracotante che insultò Benda? Domandò
Selva.
— Quella stessa: rispose Maurilio. Al marchese, capo di questa famiglia,
ricorse Don Venanzio, ed ottenne che sollecitamente si mandasse a
procedere all'esame dei cadaveri di Menico e di Giovanna, che se ne
scoprisse la cagion vera della morte, e che si dichiarasse non esser
luogo a procedimento contro di me. Il buon prete aveva voluto recarsi
egli stesso di persona a darmi la notizia della mia liberazione ed
accompagnarmi fuor della carcere.
«Ma la infermità che mi aveva assalito mi obbligò a passare dalla
prigione all'ospedale. Don Venanzio quando mi ebbe visto per sua cura
allogato in un letto dell'ospizio X...., raccomandatomi con ogni premura
alle suore di carità che pietosamente servivano i malati, se ne partì di
nuovo pel suo villaggio, facendomi la promessa, che in realtà mantenne,
di venirmi a vedere di sovente.
«Parecchi giorni rimasi senza cognizione; quando risensai mi sentivo una
gran fiacchezza addosso, precisamente come allorchè incominciò la
guarigione da quell'altra uguale malattia che sostenni qui dopo che tu
mi avesti raccolto e dato ricetto. Ero in un lungo camerone a pareti
tutte bianche; due file di letti nella direzione della lunghezza si
schieravano in faccia l'una all'altra. Tutti questi letti erano
similissimi, incortinati intorno d'una stoffa di cotone a righe bianche
e bleu, con una coperta uguale: a capoletto di ciascuno di essi era
appesa una lastra con suvvi la polizza che diceva il numero del letto,
l'età, le condizioni, la malattia di chi vi giaceva. Non avvezzo sino
allora che allo strame del soppalco di Menico ed al pagliericcio del
carcere, io trovava quel materasso su cui ero allora disteso il più
soffice del mondo; quella di sentirmi posare sulle membra un lenzuolo
pulito mi pareva la dolcezza maggiore che avessi provato mai.
«Mentre stavo così meco assorto a gustare quel soddisfacimento tutto
materiale, e non avevo pensiero fatto, ecco dal letto che m'era più
vicino alla mia destra uscire un gemito dolorosissimo fatto per
istraziare il cuore anche al più insensibile uomo del mondo.
«— Oimè! Oimè! Diceva una voce d'uomo faticosamente: oh quanto soffro!
«Volevo rivolgermi a guardare questo infelice che si lamentava, e la
debolezza non mi consentiva moto nessuno. Il respiro affannoso del
soffrente, interrotto tratto tratto da un'esclamazione di profondo
dolore, da un lagno di spasimo incomportabile, mi faceva una pena da non
potersi dire.
«— Da bere! Si mise poscia a domandare con quel po' di voce che gli
rimaneva, onde appena era se poteva farsi udire fino da me: da bere!...
un po' d'acqua, una goccia d'acqua per carità.
«Nessuno degl'inservienti poteva udirlo: io guardava intorno e non
vedevo anima viva che fosse in caso da accorrere; le due lunghe file di
letti soltanto, dai quali od uscivano gemiti o un silenzio di tomba.
Facendo uno sforzo con tutto quel pochissimo vigore che mi restava,
giunsi a volgere il capo verso quel povero tormentato, e lo vidi. Era un
uomo sul mezzo della vita, con una folta ispida barba sul volto
cresciutagli durante la malattia, le guancie incavate, giallo di colore,
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