La plebe, parte I - 21

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mia salute se ne stremava sempre più, e le candele consumavano in
fretta, così che la sottrazione ch'io ne faceva doveva pur finalmente
apparire alla Dorotea. Ben lo pensavo alcuna volta, e un gran spavento
mi occupava, ma come fare altrimenti?
«In questo frattempo ecco un giorno avvenire tal cosa che tutto mi
conturbò più che non ti possa dire.
«Ero, secondo il solito, nello studiolo con Nariccia. Entra un uomo
piccolo, mal in arnese, sottile, con faccia di faina, il quale
interpella con una strana domestichezza il mio padrone:
«— Eh buon giorno, messer Nariccia. Come va? Mi riconoscete ancora? Gli
amici non si debbono dimenticar mai.
«Quella voce non mi era ignota. Alzo gli occhi e figurati come io mi
rimanessi nel vedermi innanzi il naso affilato di Graffigna, il mio
compagno di carcere!
«La presenza di codestui non parve andar molto a sangue neppure a messer
Nariccia. La bassa di lui fronte s'intorbidò, gli occhi rotarono
inquieti intorno, come a cercar uno scampo.
«— Chi siete voi? Che volete? Diss'egli, volendo assumere un aspetto
imponente ed altezzoso.
«Graffigna s'inchinava umilmente, ma ad un tratto drizzando la persona,
mettendo il suo muso volpino sotto il naso di Nariccia e piantandogli in
faccia gli occhi, rispose con una certa sicurezza che toccava
l'impertinenza:
«— Chi sono? Possibile che abbiate perduto siffattamente la memoria,
messer Antonio, o che io mi sia tanto cambiato da non riconoscere più in
me un antico amico?
«A questa parola Nariccia diede in un soprassalto, e uno de' suoi occhi
fece scivolare uno sguardo verso di me, che tutto stupito di codesto
stavo a guardare a bocca larga colla penna in mano.
«— Sono Graffigna, continuava quell'altro con accento e con sorriso
ironici, e se volete che aiuti un poco la vostra memoria...
«— No, no: interruppe affrettatamente Nariccia, dando alla sua
fisionomia l'ipocrita mansuetudine che soleva portarvi stampata su per
maschera. Non vi avevo di subito ravvisato. È tanto tempo che non vi ho
visto!...
«— Ma! Esclamò Graffigna con un dolentissimo sospiro. Non è la mia
volontà che m'abbia tenuto lontano da voi sì a lungo. Sono le
circostanze; è quel maledetto destino che non cessa di perseguitarmi,
sapete. La calunnia si accanisce dietro di me e la persecuzione non si
stanca mai contro questo povero diavolo. Ultimamente ancora, figuratevi
che venni accusato....
«Nariccia lo interruppe di nuovo con sollecita premura:
«— Aspettate, venite qui, sedete, discorreremo più a bell'agio delle
cose vostre.
«Poi si rivolse a me e mi disse con insolita dolcezza:
«— Andate da Dorotea, Tognino; può essere ch'ell'abbia bisogno di
venire aiutata in qualche cosa. E vi riposerete anche un poco dal
lavorare al tavolino.
«Uscii molto volentieri, perchè, oltre il resto, la presenza di
Graffigna mi era supremamente impacciosa; invece di recarmi in cucina da
Dorotea, fui nella mia cameretta intorno ai miei libri.
«Graffigna mi aveva egli riconosciuto? Avrei detto di no, avrei detto
ch'egli non mi avesse neppur scorto, o quanto meno dato non mi avesse
alcuna attenzione, se nel momento appunto in cui uscivo dalla stanza non
mi avesse scoccato ratto e di sottecchi uno sguardo in cui c'era come un
saluto, come una segreta intelligenza, come un segno di convenzione.
«Per un poco non potei attendere alla mia diletta lettura a cagione
dell'ansietà in cui ero posto dal timore che Graffigna dicesse al mio
padrone chi fossi e dove mi avesse conosciuto; poi, secondo il solito,
lo studio prese tutta l'anima mia, e non badai più e non pensai più ad
altro.
«Quando cessai, già stanco dallo studiare, mi stupii che tanto tempo di
libertà mi fosse stato lasciato, senza venirmi ad interrompere, ed uscii
dal mio stanzino assai peritoso. Nariccia era andato fuor di casa ned
era ancora tornato. Dorotea impaziente ed inquieta, brontolava che il
pranzo pel troppo ritardo andava a male.
«Il padrone rientrò con faccia evidentemente preoccupata, non mangiò
nulla, non aprì bocca neppure per rispondere alle interrogazioni di
Dorotea, e fu sollecito a ritrarsi nella sua camera.
«Due giorni dopo ricorreva la domenica. Nella mattina io aveva un'ora di
libertà per andare a messa, e ne profittavo sempre per recarmi fuori
porta a respirare un po' d'aria libera.
«Quel giorno appena fui sotto i viali di porta Susa, udii dietro me il
passo d'un uomo che pareva affrettarsi sulle mie peste; mi rivolsi a
guardare, e vidi con isgradita sorpresa Graffigna, il quale mi fece
segno lo attendessi e camminava ratto per raggiungermi. Lo avrei evitato
molto volentieri; mi venne in mente di correr via per isfuggirlo; ma in
un attimo egli mi fu accosto e mi prese famigliarmente pel braccio.
«— Buon giorno, caro figliuolo, mi disse. Ho tanto piacere di vedervi;
il diavolo mi porti, che sono stato più di un'ora stamattina alla porta
della casa di Nariccia, aspettando che ne usciste. Non vi ho voluto
fermare per le strade e per non darvi suggezione, e per prudenza; ma
quando vi ho visto venir fuori di città, ho detto: bene! Giusto quello
che ci vuole. Qui si può discorrere senza che vi sia un orecchio di
troppo ad ascoltare.
«Prese a camminarmi accosto, avviandoci giù per lo stradale di Rivoli.
«— Misericordia! Come siete gramo, mio povero Maurilio; riprese egli a
dire. Pare che viviate di lucertole e di brodo di malva. Quel caro
messer Nariccia, birbone matricolato, brav'uomo d'un avaro degno della
galera, che leverebbe la pelle ad una pulce, vi fa patir della fame, ci
scommetto. Eh! lo conosco da un pezzo io. Sono sicuro che questa mattina
non avete ancora fatto colazione. Lo si vede chiaro su quella vostra
bella faccia verde da minchione intisichito. Buono! Graffigna è un
amico, sapete! C'è in questi dintorni una spelonca di bettolaccia che è
la migliore del mondo, in cui uno scellerato di taverniere, mio buon
amico, avvelena la gente nel modo più squisito del mondo. Venite meco
che ci mangieremo una fetta di eccellente salame e due peperoni
coll'olio che vi dico io!...
«Me ne scusai a gran pena. Quando vide che non poteva trarmi dov'egli
voleva, Graffigna disse:
«— Ebbene, pazienza, discorreremo all'aria aperta. Si tratta del vostro
interesse. Io sento, in fede di galantuomo, che il boia mi strozzi, una
viva sollecitudine de' fatti vostri. Che bella vita è quella che vi
tocca con quell'animale d'un usuraio, mio buon amico, ladro, impostore
che vorrei vedere affogato nella pece bollente! Vi fa lavorare da
un'alba all'altra quel cane e vi mantien magro come siete, e vi veste di
questa bella guisa da farvi suonar le tabelle dietro, e sono più di
certo che non vi lascia veder mai la croce d'una mezza _muta_. Ditemi un
po' se la sbaglio.
«Non potei a meno di consentire che tutto codesto era vero.
«Graffigna strinse il pugno e lo levò con atto di minaccia verso il
cielo.
«— Uh! appenderlo per la gola e poi dargli da bere. Gli è proprio un
ingrataccio scellerato quel caro uomo che merita non so che cosa. E a me
sapete che cosa ha fatto, a me che sono suo amico da vent'anni, a me
che, non fo per dire, ma gli ho resi dei bei servigi, e sono stato causa
ch'ei guadagnasse delle rotonde sommette di denaro? A me che, come
sapete anche voi, ho avuto delle disgrazie, a me che esco di carcere
pulito e liscio come un soldo frusto, egli ha il coraggio di rispondere
che non può dare nè far nulla a mio vantaggio, e poichè io mi credo in
diritto di ricordargliene alcune delle cagioni per cui mi dovrebbe
essere riconoscente, sto birbone va dal commissario Tofi e mi denunzia
come un individuo pericoloso che gli ha fatto delle minacce e che merita
di essere sorvegliato da quella p.... invenzione che è la polizia. A me
Graffigna se ne fanno di queste! Buono! Me la sono appiccata qui
all'orecchia e tosto o tardi glie la farò pagare. Se fosse tosto mi
piacerebbe tanto di meglio, ma se avessi ad aspettare ei non ci
perderebbe nulla per questo, che vorrei dargliene il capitale
coll'usura, usuraio che egli è appunto! Or dunque voi, giovinotto,
potreste servirmi appuntino nei miei disegni, e fareste con un colpo un
fatto e due servizi, perchè contentereste me ed aggiustereste nello
stesso tempo i fatti vostri di guisa che non avreste mai più freddo ai
piedi e vi impipereste di quanti sono al mondo.
«— Io? Che cosa c'entro io? Domandai, non comprendendo affatto le
intenzioni di Graffigna.
«— Voi, sicuro. Egli rispose. Prima di tutto, mio caro ragazzo, se non
siete proprio quel babbuino di cui avete l'aria, dovete rendervi conto
della condizione in cui vi trovate. Nariccia vi tiene a rosicchiar le
croste del suo pane, perchè non sa che siete stato in prigione. Lo
sappia stassera, e domani voi siete messo bravamente sul lastrico con un
caritatevole calcio dove m'intendo io. Vi converrebbe imbrogliar
qualchedun altro perchè vi prendesse seco, per vedervene mandato via con
quel medesimo garbo il primo momento ch'egli apprendesse il vostro
passato. Ad un miseruzzo che si presenta colla vostra figura, coi vostri
panni per guadagnarsi un tozzo di pane, tutti domandano donde viene, che
ha fatto, che cos'è, e via dicendo. Ad un messere che comparisca vestito
da milorde, colla borsa piena d'oro, nessuno cerca altro più per
inchinarlo, riverirlo e stimarlo il più rispettabile uomo del mondo.
Perchè dunque vorreste ostinarvi a far la brutta figura e crepar di
miseria, mentre non avreste che ad allungar la mano e procacciarvi la
più agiata esistenza?
«Io feci un movimento di stupore, e fors'anco di curiosità. Egli mi
strinse forte il braccio e continuò, abbassando la voce, ma con molta
forza nell'accento:
«— Sì, carissimo amico, stupido come un orciuolo, che il fistolo vi
colga. Niente altro che allungar la mano. Ma non sapete voi che dietro
quel cancello di ferro, in quella cassa-forte, in presenza della quale
voi poverino, tòcco d'imbecille che Dio vi benedica, vi state sciupando
gli occhi e la vita per guadagnarvi tanto da non morire di fame, colà vi
stanno rammontati a centinaia di migliaia i marenghini? Or bene, è la
cosa più semplice del mondo. Io vi do quattro pezzetti di cera: voi, un
bel momento che vi trovate solo in quell'antro, applicate discretamente
questi pezzi di cera alle serrature dell'uscio del cancello di ferro....
non dico alla cassa-forte, perchè avrei alcuni bravi amici, fior di
gente, che verrebbero ad aiutarmi e senza tanti discorsi, per guadagnar
tempo, se la porterebbero via in ispalla come un cuscino di piume! Poi
date a me le impronte, ed io in pochi giorni ho le mie brave chiavi, per
cui entro, e faccio, e dispongo, e porto a cambiar aria il tesoro di
Nariccia...
«Io feci a liberarmi dalla mano di quel scellerato che mi teneva ancora
pel braccio, e volli allontanarmi da lui.
«— Oh non c'è da aver pure un'ombra di paura: egli soggiunse
interpretando in un altro senso il mio movimento di disgusto e d'orrore.
Graffigna è prudente: sa disporre le cose, e non lascia nessuno de' suoi
amici nelle peste. Voi, mio bell'angioletto da f..., dopo che ci avreste
aiutati nell'opera, verreste con noi, piglieremmo tutti il volo che
nessuno dei segugi della polizia, per quanto di naso fino, potrebbe
averne pure il minimo sentore; avreste la vostra buona porzione da
vivere da signore in altro paese, e chi s'è visto si è visto.
«Io lo respinsi da me con disdegno.
«— Sciagurato, esclamai, per chi mi prendete? Ringraziate che qui non
c'è anima viva; se fossimo in città, griderei al ladro per farvi
arrestare.
«— Oh oh! Diss'egli con ironia. Che virtù delle mie ciabatte, caro il
mio santino d'un maccherone! Ne ho sentito dei panegirici di santi
meravigliosi, ma un tanto esempio di virtù non ci fu ancora mai! Bravo!
Pensate che il vostro rifiuto vi può far mettere alla porta da Nariccia
senza che abbiate più altro mezzo di sussistenza.
«— Come?
«— Una lettera anonima che dicesse a Nariccia: badate che quel vostro
miseruzzo di segretario è un galantuomo di ladroncello uscito dalle
carceri....
«— E voi scriverete questa lettera?
«— Se rifiutate di assecondarmi, certo che sì.
«Stetti un momento in silenzio, non perchè fossi dubbioso o perplesso,
ma perchè la tristizia di quell'uomo mi gettava in una dolorosa
attonitaggine.
«— Fate pure quello che credete contro di me: gli dissi poscia
fermandomi sui due piedi; ma qualunque minaccia anche più terribile di
questa, non m'indurrà mai a fallire all'onestà.
«Egli accennò voler parlare, ma io non gli lasciai pronunziare parola.
«— Ora basta. Esclamai con forza. Vi ho già dato retta di troppo; di
troppo già ho tollerato la vostra compagnia. Lasciatemi, lo voglio, ve
l'impongo!
«L'aspetto e l'accento dovettero avere in me una certa nuova
autorevolezza onde quello sciagurato fu come sovraccolto. Mi guardò un
poco ma fu costretto a chinare innanzi ai miei quei suoi piccoli occhi
affondati; esitò un istante, e poi si decise ad allontanarsi.
«— Come volete: diss'egli: eccelso stupido che siete, caro figliuolo
che la peste vi affoghi! Il colpo si farà lo stesso e voi avrete il gran
merito di non avere neppure un da due denari. Così la vostra eroica
virtù sarà contenta... Ma andate pur là che un giorno o l'altro la fame
e il bisogno di ogni cosa vi faranno cascare, e invece di aver per primo
un bel colpo, come quello che vi propongo io, mercè cui sareste colla
pignatta provveduta per tanto tempo, sarete costretto a qualche
miserabile ladroncelleria che vi manderà a marcire in prigione in causa
di un tozzo di pane. Fate a vostro modo: vi lascio e non vi dico più
nulla: ma vi pentirete, ne sono certo, e vi rincrescerà all'anima di
avermi oggi risposto a questo modo.
«Dopo tali parole si allontanò a passo lento, e fermandosi tratto
tratto, quasi nell'attesa ch'io lo richiamassi.
«Io guardava dietro lui con animo turbatissimo, le sue parole mi avevano
richiamato alla mente che già pur troppo ero cascato là dov'egli diceva,
e quello delle candele era un vero furto da me commesso.
«Tornando a casa ero agitato e perplesso. Graffigna mi aveva detto che,
non ostante il mio rifiuto d'entrar complice, quel delitto si sarebbe
compito la stessa cosa. Era certo il mio dovere farne avvisato il mio
padrone. Parevami che se il fatto avvenisse e ch'io non avessi posto in
sulle guardie Nariccia, anche su me avesse da ricadere parte della
colpa. Ma come governarmi affine di renderne avvertito il padrone?
Dirglielo io stesso non avrei osato mai; e come spiegargli il modo onde
ero venuto in cognizione di codesto? Ad un tratto mi ricordai la
minaccia di Graffigna, di svelare il mio passato a Nariccia per mezzo
d'una lettera anonima.
«— Ecco il mezzo! Esclamai tra me stesso, e camminai di buon passo
verso casa per mettere in esecuzione quel disegno, ed affrettandomi a
scrivere la lettera falsando più che mi fosse possibile la mia
scrittura, non fui tranquillo finchè ebbi visto ingoiata quella carta
dalla buca della posta.
«Quella stessa sera Dorotea mi apparve assai sopra pensiero. Si sarebbe
detto che alcuna cosa stava sulle sue labbra per venir fuori, e ch'ella
tuttavia si studiava di trattenere. Due o tre volte colsi il suo sguardo
fisso su di me con una certa acutezza osservativa che mi faceva
intimamente tremare. Sentivo come una incognita minaccia incombermi
sopra. Ero inquieto di tutto e ad ogni momento il cuore mi balzava con
palpito quasi doloroso.
«La sera non potei addormentarmi che a stento; mi svegliai all'ora
solita della notte, ed acceso il lume, secondo l'usato, mi posi allo
studio. Non era gran tempo che io mi trovava tutto assorto in esso,
quando mi sembrò udire uno strascico di pianelle nel corridoio. Sorsi di
scatto, coll'idea di spegnere il lume, nascondere il libro e gettarmi
sul pagliericcio: non era più tempo, l'uscio s'aprì e comparve la grossa
faccia di Dorotea più burbera e più brutta del solito.
«A quella vista io stetti come annientato. La donna guardò me, guardò il
lume acceso, e i suoi occhi mandarono lampi e faville; poi con uno
scoppio di quella sua terribil voce da omaccione:
«— Ah! Sei dunque tu, gridò, lo scellerato di ladro che mi ruba le
candele! Da un po' di tempo mi pareva e non mi pareva che le
consumassero troppo più che non per l'addietro; ma stamattina poi mi
sono convinta che le mi sfumavano proprio dalla cassetta, e quantunque
non ci sia altri che te in questa casa, tristanzuolo, non volevo credere
che tu fossi capace di tal birbonata. Non ho voluto dir nulla ancora al
padrone...
«Io la interruppi pregandola, scongiurandola a tacere la cosa. La paura
mi aveva ridonata un po' di energia, cui dapprima tutta mi aveva tolta
la vergogna. Le dissi il perchè di quel mio fallo, le affermai essere
mio intendimento pagare tutte le prese candele, coi primi denari che
avrei esatti dal padrone pel dovutomi stipendio; non volesse perdermi,
non volesse precipitarmi per l'affatto, svelando la cosa a Nariccia che
io prevedeva, che sapeva inesorabile.
«Non so se Dorotea si sarebbe acconciata ad accondiscendere alle mie
preghiere; ma la cosa fu ridotta ad ogni modo impossibile, perchè
Nariccia medesimo, il quale non dormiva che il sonno leggiero degli
avari, sveglio dagli scoppi di voce della donna, accorreva sollecito a
vedere che cosa fosse.
«Ti lascio immaginare il suo furore nell'apprendere la verità. Mi
investì colle più atroci ingiurie. Le galere, che? il capestro erano
poca pena al mio delitto. Egli non voleva tenere neppure un'ora, nemmeno
un momento di più sotto il suo tetto un simil birbante: partissi in
sull'atto e senz'altro; ma poi tosto si ravvisava e decideva serbarmi a
peggior sorte. Gli era ai R. carabinieri che mi si doveva consegnare,
affinchè pagassi del mio delitto il meritato fio.
«Se colla Dorotea avevo pregato, innanzi alla collera di Nariccia ero
stato fermo, immobile e silenzioso; e quella mia calma pareva aizzarlo
ancora di vantaggio. Ma quando udii minacciatami di nuovo la carcere,
innanzi allo spavento di ritornare in quella bolgia infernale, la mia
fierezza cedette.
«— Oh no, per carità! Esclamai, congiungendo le mani con ineffabile
supplicazione.
«Ma Nariccia non era uomo a intenerirsi così per poco; ond'egli riprese
le sue minaccie ed i suoi oltraggi, finchè Dorotea, quasi impazientita,
lo interruppe col suo brusco parlare:
«— Per ora lasciamola un po' lì, e torniamo a dormire. Domani mattina
discorreremo.
«Nariccia seguì la serva borbottando, ma non prima che avesse frugato in
ogni dove nella mia stanzuccia per vedere se qualche cosa avessi di
nascosto, e non senza portarmi via quella malaugurata candela. Uscendo
chiuse a doppia mandata colla chiave la serratura dell'uscio, affinchè
non me ne potessi fuggire.
«Il domani le determinazioni di messer Nariccia erano ancora più severe
a mio riguardo. Egli aveva ricevute due lettere anonime; quella con cui
Graffigna manteneva la sua parola e gli svelava l'esser mio; e quella
che io gli aveva scritta per farlo avvisato del pericolo di latrocinio
tramato a suo danno. L'usuraio si persuase tostamente che colui del
quale gli si denunziavano le cattive intenzioni verso di lui, senza
scriverne il nome, non poteva esser altri che io stesso già uscito di
prigione, già côlto in flagrante di una ruberia. Gettò, come si suol
dire, fuoco e fiamme; e la sua volontà di pormi in mano alla giustizia
parve più irrevocabile che mai.
«Fui allora ad un pelo d'essere perduto. Alla vecchia Dorotea dovetti la
mia salvezza, e glie ne consacrai perciò una riconoscenza eterna. Ella
in quel frangente tolse dall'abisso in cui tutto congiurava
precipitarla, un'anima umana, e per quanto quella donna sia stata
cattiva, di quella buona opera, spero che glie ne sarà tenuto conto.
Come conviene andare a rilento nel condannare i colpevoli! Soltanto chi
non è stato nelle occasioni della tentazione, chi non ebbe nemica alla
sua onestà la fortuna, colui soltanto può avere un disdegnoso disprezzo
per l'infelice che soccombette. Quei che conosce la vita, quegli che
ebbe da lottare colle difficoltà del destino, se impara a stimar tanto
più l'uomo che si è serbato incolume, impara eziandio a sentir meno
orrore e più compassione per chi ha fallito. Dove io fossi stato allora
incarcerato per la seconda volta con un vero reato, come i giudici non
avrebbero mancato di sentenziare che era il mio; quando parecchi mesi
ancora avessi dovuto passare in quella orrida e scellerata compagnia che
si trova in prigione, quale ne sarei venuto fuori?
«Dorotea ebbe pietà di me. Per sua intercessione Nariccia si contentò di
mettermi alla porta riprendendomi financo i suoi logori panni e tornando
a farmi vestire quei villerecci che pareva aver conservato in previsione
d'una simile circostanza; ed io mi trovai sul lastrico della strada,
senza un soldo, senza un tozzo di pane, senza sapere che far di me, nè
dove rivolgere i passi.


CAPITOLO XXI.

«Ero in una confusione ed in una perplessità da non dirsi. Mi domandavo
come avrei potuto guadagnarmi la vita, e non trovavo risposta. Una gran
vergogna de' fatti miei mi possedeva tutto. Guardavo con occhio smarrito
i brutti cenci che mi servivano da vesti, e mi dicevo che erano quelli
dei più vili pezzenti. Tale doveva essere adunque la mia sorte? Sentivo
tante cose nel mio cervello, mi pareva avere entro il capo una tanta
ricchezza d'idee, e non mi avevano da servire a nulla, e non avrei
saputo spremerne nemmanco il mezzo onde guadagnarmi per un giorno
l'esistenza?
«Camminai dritto innanzi a me colla testa confusa, sbalordita, senza
direzione, ma con una smania ardentissima di allontanarmi, di fuggire da
tutto e da tutti. Quasi un anno ti ho detto aver passato in casa di
Nariccia: si era quindi nuovamente nella brutta stagione, e il freddo
vento mi flagellava le guancie, m'intirizziva le membra da que' cenci
mal coperte. Io correva e per iscaldarmi e per togliermi il più presto
possibile a quei luoghi. Ero debole ed ero digiuno, ma la disperazione
mi dava forza, e la passione dell'animo non mi lasciava sentire il
bisogno. Che strada io abbia allora tenuta, non seppi mai; ma cadevano
gli ultimi raggi del giorno ed io mi trovava presso alle prime case del
villaggio dove ero stato allevato.
«A quella vista mi riscossi come destandomi improvviso da un sogno. Mi
passai la mano sulla fronte, e mi parve esser rinato al tempo della mia
infanzia dolorosa sì, ma cui pur tuttavia invidiava il mio presente;
quando la carcere, l'ospedale, l'antro d'un usuraio non mi avevano
ancora rivelate tante brutte e incancrenite piaghe del corpo sociale.
L'animo mio fu sollevato e con più sciolto passo m'avviai per penetrar
nel paese. Ma di colpo mi arrestai, come se una mano di ghiaccio mi si
fosse posata sul cuore a trattenermi. Dove avrei rivolto i miei passi?
Il povero tugurio di Menico non era più mia casa. Neppure l'ospitalità
del fenile non mi vi sarebbe stata concessa più. E Don Venanzio? Egli sì
che mi avrebbe accolto, egli aperto le braccia. Come una dolce visione
mi passò innanzi alla mente l'aspetto della pulita cameretta dalle
bianche pareti col crocifisso d'avorio tendente le braccia sulla croce
nera; mi parve sentire il tepido ambiente di quella stanza aliarmi come
una carezza sul volto. Mi pungeva la fame. Là avrei trovato ricetto, là
ristoro, là sollecitudine amorosa. Ma che cosa avrei detto a quel buon
prete? Qual ragione addotta della mia venuta, dell'avere abbandonato la
casa di Nariccia? Mentire non sapevo e non volevo a niun conto: e dire
la verità era troppa vergogna, non me ne sentivo affatto affatto il
coraggio.
«No, no, non volli comparire colla fronte del reo innanzi a quell'uomo
che è la virtù cristiana incarnata; ma per quanto deciso io fossi a non
lasciarmene scorgere, un vivo impulso, un grandissimo bisogno io sentiva
di veder lui — il buon sacerdote — di vederne almanco la casa, i luoghi
ad esso diletti, de' quali egli è come l'anima avvivatrice che li
santifica.
«Era caduta compiutamente la notte. In quella mesta sera d'inverno, muto
e deserto era il villaggio; si sarebbe detto disabitato, se qualche riga
di luce non fosse filtrata da qualche finestra socchiusa, se qualche
cane entro i serrati cortili non avesse qua e là tristamente abbaiato.
M'appressai cautamente alla casa parrocchiale, ed il cuore mi batteva, e
gli occhi mi si inumidivano. La finestra del tinello a pian terreno non
aveva chiuse che le invetrate, e per queste lo sguardo poteva penetrare
entro la stanza. Mi alzai in punta dei piedi aggrappandomi alle sbarre
dell'inferriata che difendeva esternamente la finestra e cacciai
nell'interno lo sguardo cupido e desioso.
«Don Venanzio era appunto là, al posto in cui soleva, dove l'avevo visto
tante volte, con quella medesima capigliatura tutto bianca, con quel
medesimo volto tutto bontà, con quella medesima mossa, leggendo nel
medesimo breviario. Sulla tavola, a cui il parroco appoggiava il suo
gomito, era steso il medesimo tappeto di lana intessuta con cotone a
fogliami ed a fiori; tutti i mobili erano tali e quali li avevo visti
fin dalla mia infanzia e sempre a quel medesimo posto; ai piedi del
parroco stava sdraiato _Moretto_ il vecchio can volpino, compagno quasi
indivisibile al suo padrone. Tutto era come prima colà, nulla era
mutato; e in me invece, quanto cambiamento, quante rovine! Non avevo
ancora diciott'anni, ed il destino pareva avermi in una resa impossibile
l'esistenza del passato e chiusomi innanzi la porta d'ogni speranza per
l'avvenire. Un gran desiderio mi prese di quella quiete, di quella pace
esteriore che era compagna e simbolo di quella della coscienza; e sentii
una cocente amarezza nel dirmi che forse io l'aveva perduta per sempre.
Profondo rammarico fu il mio, pensando che a tale esistenza aveva voluto
prepararmi e condurmi l'amoroso mio educatore, e che io l'aveva
rifiutata e che da me l'avevano respinta irrevocabilmente le audacie del
mio spirito. A quell'ora sarei stato lì ancor io, compagno nella vita e
nell'opera a quel sant'uomo, forse sollievo, forse anco ne' suoi vecchi
anni consolazione invocata. Ed invece?....
«Oh se avessi creduto a quel Dio, cui adorava Don Venanzio, ed in quella
forma colla quale il buon parroco credeva! Per me al contrario, sempre
più muto pur troppo era diventato il cielo; e la lettura degli
enciclopedisti aveva spinto il mio dubbio verso lo scetticismo. A mala
pena credevo ancora a quelle apparizioni che mi avevano servito come
d'irrefragabile riprova d'una vita dell'anima superstite a quella del
corpo; e siccome da assai tempo sembrava il mio buono spirito avermi
ancor esso abbandonato, mi prendevo a dire le vedute di quel soave
fantasma, nient'altro che illusioni del mio cervello.
«Mentre stavo ancora tutto intento a mirare per entro quella stanza, od
un lieve rumore che io facessi muovendomi, o fosse il meraviglioso
istinto proprio della sua razza che facesse avvertire al cane la
presenza di qualcheduno, _Moretto_ alzò il muso verso la finestra, e
vistomi forse, mandò alcuni abbaiamenti di lieto saluto, e venne a
quella volta tutto festante. Lasciai le sbarre dell'inferriata e ratto
mi nascosi nell'ombra. Udii la simpatica voce di Don Venanzio che
diceva:
«— C'è qualcheduno, _Moretto_? Chi è là?
«Mi allontanai con infinita amarezza. In tutto il mondo era là soltanto
che vi esisteva un affetto per me, e non osavo presentarmi, e dovevo
strapparmene ed andar lontano.
«Quella notte dormii dentro una di quelle capanne che si fanno sotto i
pagliai. La mattina era l'alba appena che io già camminava sulla strada
che mi riconduceva a Torino. La vista del mio villaggio, la vista
sopratutto della casa di Don Venanzio mi aveva fatto del bene. Una nuova
risolutezza era entrata in me. Ero persuaso affatto e per sempre che non
avevo nessuno al mondo a cui chiedere aiuto, che dovevo tutto fare,
tutto procacciarmi da me, colle mie sole forze, e volevo provare
arditamente a cimentarmi colla vita.
«Il sole era levatosi da poco sull'orizzonte, ed io non aveva proprio
più forze da andare avanti. Il giorno precedente non avevo preso altro
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