La plebe, parte I - 20

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edizione della Storia Universale di Cesare Cantù.
«Questo titolo mi ricordò quel libro che primo aveva dischiuso la mia
mente a più vasti e profondi pensieri e fattomi concepire l'idea
dell'umanità come un complesso armonico e solidario svolgentesi nella
storia traverso i secoli; il _discorso_ del Bossuet, che Don Venanzio
m'aveva dato da leggere tradotto, e senz'altro indugio cominciai la
lettura del primo volume a quella fioca luce che in quell'ora mattutina
pioveva stentatamente dall'alto finestruolo della mia stanza.
«Non potei continuare a lungo questa lettura che messer Nariccia venne a
disturbarmene. Ero in ritardo a recarmi allo studiòlo, ed egli se ne
veniva a vedere che cosa mi fosse capitato. Per fortuna io ne udii il
passo nell'andito che conduceva alla mia stanza, e m'affrettai a gettare
il libro e saltar fuori, così ch'egli non potè cogliermi intento alla
lettura. Temevo che se ciò fosse avvenuto, Nariccia mi avrebbe proibito
di toccare quei libri, e forse toltili dalla mia stanza; ed io pensava e
sperava che avrei avuto in quelle casse un bel tesoro di ore di sollievo
e di diletto da godere.
«Lasciai tutto in disordine per uscir presto: la cassa scoperchiata, i
libri sparsi sul pavimento, pagliericcio, lenzuola e coperte gettate a
casaccio; ma ero certo che Dorotea non ficcava mai il piede nella mia
camera per ripulire, riordinare od altro, e se non era impossibile che
ci andasse Nariccia, il quale soleva spesso visitare ogni parte della
casa scrupolosamente, pure speravo di poter tornare a rimettere ogni
cosa in sesto prima ch'egli ci venisse.
«— Che cos'è ciò? Mi domandò severamente messer Nariccia guardandomi
con l'occhio destro incollerito, mentre il sinistro fulminava l'oscurità
del corridoio in cui ci trovavamo. Cominciate già a fare il negligente?
Questo non mi piace e non lo tollero. Siete in ritardo stamattina quasi
di mezz'ora.
«Non tentai neppure di scusarmi, come non facevo mai, e perchè non è
nella mia indole il raumiliarmi ne il difendermi innanzi ai rimbrotti, e
perchè Nariccia — come ben presto ebbi scoperto — sotto la sua falsa
arrendevolezza, affettatamente dolcereccia, è uomo a volere assoluto e
di carattere imperioso che non ammette contrasti ai suoi desiderii, nè
osservazioni alle sue parole.
«Lo seguii nello studiòlo, e lavorai tutto il giorno, come se di nulla
fosse; ma la mia mente era sempre e tutta là, in mezzo a que' libri.
Appena potei, corsi nella mia stanza e riposi i volumi entro la cassa e
vi rifeci su il letto, lasciando però fuori, nascosto sotto le lenzuola,
quel primo volume del Cantù che avevo già incominciato.
«Ma un gran desìo mi pungeva: quello di poter leggere in que' libri
francesi che erano lettera chiusa per me. Mi pareva che avrei dato non
so che cosa per poter possedere un libro di grammatica francese da
imparar quella lingua.
«Come fare a comprarmela? Nariccia non mi aveva ancora dato neppure un
soldo dello stipendio promessomi; inoltre io non usciva quasi mai: prima
perchè il mio padrone non me lo consentiva che raramente alla festa
soltanto per andare alle funzioni di chiesa, e poi perchè, vestito
sempre degli abiti frusti di messer Nariccia, facevo la più ridicola e
brutta figura di questo mondo, e tutti i biricchini delle strade,
vedendomi, mi correvan dietro facendomi le beffe.
«A levarmi d'impiccio venne giusto in quel torno di tempo il mio buon
Don Venanzio. Lui pregai di provvedermi di quel libro onde avevo
desiderio, ed a lui dissi averne anche bisogno per ragione del mio
impiego, e quell'eccellente sacerdote, senza pure la menoma obbiezione,
s'acconciò a fare la mia volontà. Al parroco, la faccia e i modi del mio
nuovo padrone, benchè questi torcesse il collo e invocasse Dio e i Santi
più che mai, non erano andati molto a sangue, e da parte sua messer
Nariccia se aveva in sua presenza fatto mille esagerate dimostrazioni di
riverenza a Don Venanzio, costui partito mi aveva detto bruscamente:
«— Chi è quel prete? In che modo vi appartiene? Che cosa è di voi?
«Io fui lì per ismentire tutta la storiella inventata da Gian-Luigi,
dicendo la verità; ma me ne trattenni a tempo, e risposi, esser quello
un amico di quel mio zio che mi aveva allevato, avermi visto bambino e
perciò postomi un certo affetto paterno; però siccome a mentire non
avevo l'abitudine e forte mi ripugnava, come anche oggidì mi ripugna,
divenni rosso sino alla radice dei capelli e non potei pronunciare
quelle parole che balbettando impacciatamente.
«Nariccia mi guardò ben fiso coll'uno e poi coll'altro di que' suoi
occhi birci, e poi disse colla sua voce più acuta:
«In somma, non vi è nulla di nulla, e non saprei perchè avesse da venire
a ficcare il naso in casa mia.
«Per fortuna Don Venanzio, tra che le sue gite a Torino si facevan
sempre più rade per gli anni crescenti, tra perchè l'istintivo suo
sentimento di profonda onestà lo respingeva dal cercare la presenza di
messer Nariccia, più non venne a vedermi in tutto quel tempo che rimasi
ancora nella casa di quest'ultimo.
«Io intanto ero in possesso della mia grammatica francese, e la studiavo
con ardore. Il tempo che mi rimaneva per ciò era poco in verità, perchè
appena alzato, e m'alzavo sempre prima che fosse giorno, mi toccava
andar nello studiolo a lavorar pel padrone, in quella fredda, triste
atmosfera, al melanconico chiaror d'una lampada mezzo moribonda; e colà
seduto a quel tavolino stavo la giornata intiera con pochissimo riposo
per l'ora dei pasti soverchiamente parchi e troppo scarsamente misurati.
Ma quel libro portavo meco sempre, e quando Nariccia non era là,
affrettatomi più che potevo a finire il lavoro affidatomi, studiavo la
mia grammatica con tanta intensità di volere che il tempo pei
risultamenti poteva contarci pel doppio. Ma ciò non mi bastava ancora.
Volevo leggere eziandio i volumi del Cantù, volevo giungere il più
presto possibile a poter divorare quegli altri che tanto mi facevan
gola. Non c'era altro mezzo fuor quello di rubar delle ore al mio sonno
e trar profitto della notte, in cui almeno ero libero dello sguardo
inquisitore di Nariccia e di Dorotea. Ma qui c'era un altro guaio:
bisognava procacciarsi del lume, e come giungere a tanto?
«Per andare a coricarmi non mi si dava mai altro che un piccolo
moccolino di candela e guai ancora se il mattino seguente Dorotea avesse
trovato che il consumo n'era stato soverchio! Pensai di raccomandarmi
alla fante e di ottenere da lei un tanto favore; ma sempre quando fui
sul punto di aprirmene con esso lei, il coraggio mi venne meno, e poscia
la prudenza medesima me ne trattenne. Dorotea avrebbe voluto sapere che
cosa ne avrei fatto, non l'avrebbe taciuto al padrone a cui le toccava
pure di rendere strettissimo conto di tutto. Che scusa avrei allegato?
Il mio segreto sarebbe stato scoperto e toltomi in conseguenza
quell'unico sollievo che avessi. Denari da comprarmi ciò che mi
occorreva non possedevo a niun modo. Un giorno, entrato per qualche
bisogna nella cucina, vidi la serva, che giustamente approntava i lumi
per la sera, aprire un certo cassettino riposto in un armadio
ordinariamente chiuso a chiave e in tal momento aperto, e da quel
cassettino trar fuori una candela. Gettai là dentro uno sguardo, dirò
così di ardente cupidigia; quel cassettino era quasi pieno di candele.
La vista di tutti i tesori del mondo non avrebbe esercitato una sì
irresistibile tentazione sull'animo mio quale mi destò la vista di quei
bastoncini di sego. Sentii come una fiamma invadermi tutto; delle stille
di sudore mi spuntarono sulla fronte. La sorte voleva proprio farmi
sostenere per intiero e in tutta la sua forza la prova tentatrice. La
voce di Nariccia chiamò in quel punto Dorotea, e con quella insistenza e
con quell'accento che esigevano di prontamente obbedire.
«La serva se ne partì lasciando aperto l'armadio, lasciando aperto il
cassetto e me innanzi a quelle candele, per prender le quali non avevo
che da allungare la mano. Ciò che provai in un attimo allora, mi
occorrerebbe non so quanto tempo a spiegartelo, tanti e sì diversi e sì
complessi sentimenti contenne un solo minuto secondo. Per prima cosa mi
precipitai sulla cassetta per afferrare una di quelle desiate candele, e
tosto poi mi rigettai indietro vivamente, come se respinto con forza da
una invisibil mano. Una voce mi aveva gridato nell'anima: «Disgraziato!
questo è rubare!» Volli fuggire quel luogo, e non potei. Si fecero
riudire le pianelle trascinanti di Dorotea che ritornava; l'occasione —
se io tardava ancora un minuto — era persa, e chi sa se sarebbe tornata
più! Mi trovai di nuovo presso presso alla cassetta senza pure essermi
accorto d'avere fatto il passo, e la mia mano abbrancò una candela. Il
passo di Dorotea era lì, proprio sulla soglia dell'uscio. Nascosi la
candela sotto a' miei panni e corsi via senza dir parola, senz'alzar lo
sguardo; corsi a riparare nella mia stanza, dove nascosi in fretta entro
il pagliericcio il conquistato oggetto del mio desiderio.
«Ma appena ebbi ciò fatto, io fui assalito da paura, da rimorso, da
vergogna de' fatti miei. Se Dorotea se ne fosse accorta! E come non
accorgersene? La mia stessa fuga non mi accusava ella? Cielo! Quello che
io aveva commesso era un latrocinio. Ero dunque degno compagno di que'
tali con cui avevo divisa la carcere? Le parole di Graffigna mi
tornarono alla mente. Egli aveva dunque avuto ragione nell'affermarmi
predestinato al delitto, nell'assicurarmi che sarei caduto
necessariamente in esso? Mi venne in pensiero di andarmi ad accusar
tosto io stesso da Dorotea e restituire senza ritardo il mal tolto
oggetto.
«Nariccia mi chiamò in quella per nome, ed io allibii; tremai tutto;
prima un brivido mi assalse, poi una vampa di calore; mi credetti
scoperto. Ripetendosi la chiamata, andai con passo vacillante dov'era il
padrone, certo d'udire la mia condanna. Nulla era scoperto, Nariccia non
mi chiamava che per darmi nuovo lavoro.
«La notte seguente, quando tutto fu quieto, saltai giù del mio
giaciglio, accesi la candela e quasi tutte quelle silenziose ore
impiegai nello studio e nella lettura. Ma la candela non istette gran
tempo ad essere consumata, e oramai che il primo passo era fatto, oramai
che il bisogno di quelle nottate era divenuto ancora più imperioso in
me, gli scrupoli cedevano affatto innanzi al mio desiderio, che come
tutte le passioni, ricorreva al sofisma per legittimare il suo
soddisfacimento.
«Nariccia, mi dicevo, aveva promesso pagarmi uno stipendio, e di esso in
parecchi mesi che già lavoravo da lui non avevo ancora visto neppure un
centesimo. Non era che una piccolissima parte di ciò ch'egli mi doveva,
ch'io veniva prendendomi sotto forma di candele, e quando il padrone mi
avesse totalmente pagato del fatto mio, allora avrei trovato il modo di
restituirgli quello che avevo preso per anticipazione. E così con mille
industrie ed accortezze, di cui prima mi sarei creduto affatto incapace,
io giunsi a provvedermi continuatamente di lume per la notte.
«Ma intanto, lavorando tutto il giorno, vegliando a studio la notte, non
uscendo quasi mai, dormendo troppo poco, nutrito troppo male, pensati
come se ne dovesse avvantaggiare la mia salute! Io diventava allampanato
che era una compassione il vedermi, cotanto che ne fu tocca quella
rozza, grossolana e burbera Dorotea.
«Costei aveva una certa influenza su messer Nariccia: era anzi l'unica
persona ch'io mi accorgessi mai che avesse alcun potere su quell'uomo
che non sentiva nulla, che non si preoccupava di nulla che non fosse
l'oro e l'amor del guadagno. La sua ipocrisia medesima, la smania che
sembrava avere di conseguire stima ed osservanza presso il pubblico non
erano altro per lui che un mezzo maggiore con cui, ingannando la gente,
aumentarsi gli spedienti e le probabilità degl'illeciti profitti. Ebbene
a quest'uomo, quella vecchia donnaccia, sempre aspra ed incollerita,
pareva incutere quasi direi una certa paura, e fosse abitudine presa da
lungo tempo (erano di begli anni che que' due stavano insieme), fosse
una dipendenza stabilita per qualche segreta ragione, il fatto è che
Nariccia, per tutto quello che non toccava i suoi traffichi impuri e
scellerati, in certa proporzione sottostava alle volontà della Dorotea.
«Or bene, questa donna che in fatto fin dal primo giorno, come ti ho
narrato, non era stata senza pietà a mio riguardo, una bella volta
manifestò più spiccatamente la sua compassione per me.
«Messer Nariccia era il più incontentabile uomo del mondo. Per quanto
uno si industriasse a far con zelo il dover suo, non solamente egli non
trovava mai una parola di lode per esso, ma non desisteva pur mai, ciò
nulla meno, dal brontolare e rampognarlo. Con me gli era un rimprovero
continuo, e il quale aumentava di intensità in due occasioni: quando
veniva alcuno in istudio, e non si trattava d'affari segreti che io non
dovessi ascoltare, perchè in tal caso ero sempre mandato in altra
stanza, e quando ci sedevamo al desco per mangiare quello scarso cibo
che ci era ammanito. Nel primo caso egli pigliava qualunque pretesto per
entrare a dire della gran pazienza che io gli faceva esercitare, della
croce che per causa mia gli toccava portare, della grandissima carità
che egli usava a mio riguardo tenendo seco un buon da nulla ed un
ingrato; e torceva il collo più che mai, e giungeva le mani, e diceva le
più infervorate giaculatorie del mondo. Nel secondo caso, cioè a tavola,
egli mi rivolgeva per punta, come dice Dante, quella lama che già di
taglio mi tornava troppo acre, e siccome s'era accorto, io credo, che
per la commozione ond'era preso non potevo più mandar giù che pochi
bocconi, sono persuaso che lo faceva apposta, avarissimo secondo che
egli è, a cominciare quei discorsi appena ci trovavamo seduti a tavola.
«E se avesse almeno prorotto in una sfuriata, e poi smesso, pazienza!
Per quanto frequenti fossero quelle sfuriate ci sarebbe sempre stato
frammezzo un po' di tempo di riposo; ma no, il suo era un continuo
tatamellare colle più untuose sembianze e colle esclamazioni della più
afflitta anima del mondo. Non era un temporale che passa e cessa, e
lascia venire il sole a rasciugare; era una piova continua che immolla
senza riparo e senza interruzione.
«Una volta adunque ch'egli aveva incominciato all'ora del pranzo la sua
solita tiritera contro di me, ed io, rimasto lì col groppo nella gola,
non potevo più mandar giù il boccone, Dorotea interrompendo colla sua
voce grossa quella esile e sottile del padrone, disse in quel tono di
collera che le era abituale:
«— Eh! lasci un po' stare tranquillo un momento questo povero
scempiatello, che la vede bene non ha più tanto fegato da tirar nemmanco
il fiato. Certo che la non lo ingrassa, che lo manda pasciuto di
rimbrotti e di trafitture.
«Nariccia alzò verso la serva il suo volto flosciamente paffuto, ed una
fiamma di sdegno lampeggiò ne' suoi occhi balusanti.
«— Che temerità è questa vostra, Dorotea? Diss'egli. Voi abusate
stranamente, mi pare, della bontà con cui tollero le vostre
impertinenze.
«Dorotea mise le mani in sui fianchi nell'attitudine battagliera d'una
treccona che si appresta a mandare ed a ricevere una bordata di ingiurie
nella lotta con una sua compagna.
«— Abuso? Gridò essa con voce più sonora che mai. Le mie impertinenze?
Ella tollera?... Un corno! Oh! non mi guardi pure di cattiv'occhio che a
me la sa che non mi fa paura... Nè lei ned altri musi più brutti del
suo. E le mie buone verità glie le ho sempre dette e voglio continuare a
dirgliele.... Ah! Ed a me di questo cazzatello me ne importa tanto
quanto delle prime scarpette che ho frustato, va benissimo; ed ella
poteva far benissimo senza d'una nuova bocca da alimentare, e se avesse
dato retta a me non si sarebbe caricato d'un impiastrino che non so a
qual cosa le possa servire. Ma poichè le è piaciuto far di sua testa e
condursi in casa questo tristanzuolo, io le dico che bisogna almanco
trattarlo come un cristianello e non farlo morire a pizzichi ed a piccol
fuoco.
«La fiamma di sdegno balenò più intensa e più viva negli occhietti di
messer Nariccia, ed io credetti vicino il momento in cui fra quei due
avvenisse un aspro battibecco; invece di botto quel lampo nel padrone
passò, gli occhi suoi ed anche il volto si chinarono verso terra, le
mani si congiunsero e le labbra mormorarono col solito tuono di
giaculatoria:
«— Sant'Antonio, mio protettore, datemi voi pazienza, e che io possa
sopportar tutto di buon animo, in espiazione de' miei peccati.
«— Sì, bravo, continuava più fiera la fante, intanto la espiazione de'
suoi peccati la fa sostenere agli altri.
«E rivolgendosi a me, con aspetto ed accento così grazioso come un cane
che voglia mordere:
«— E voi, povero martuffino che siete, non lasciate sgomentarvi così e
fatevi un po' più di animo. Mangiate, sostentatevi, mettete un po' di
carne addosso; non vedete che non avete altro che un po' di pelle tirata
su quattro ossa mal giunte insieme?.... To', prendete, nutritevi, e non
date retta più alle malignità di questo pilastro d'acquasantino.
«Nel dir così aveva afferrato il piatto di mezzo al desco e mi aveva
fatto cadere nel tondo che avevo dinanzi una enorme porzione della
pietanza.
«Nariccia si drizzò in piedi, levò gli occhi al soffitto, torse il
collo, mandò un sospiro e poi a schiena curva, con quei suoi passi
riguardosi che non facevan rumore, uscì dalla stanza senza più aggiunger
nemmanco una parola.
«— Oh oh! Sì ch'io so tenergli il bacino alla barba: esclamò con tono
di trionfo Dorotea colle mani nuovamente in su' fianchi guardando dietro
al padrone che partiva.
«Anch'io mi levai di tavola e mi disposi ad uscire.
«— Ebbene, che cosa fate? Mi disse Dorotea. Suvvia mangiate quella
roba.
«Io aveva sempre più stretto il groppo nella gola.
«— Grazie: risposi: non posso, non mi sento.
«La donna mi guardò con espressione tra di collera e di disprezzo.
«— Andate là che siete proprio un povero baggiano voi!
«Questa era la sola persona che mi manifestasse alcun interesse, e
questo il modo in cui me lo dimostrava.
«Messer Nariccia aveva sofferto in tal occasione una vera sconfitta, ma
i danni di questa toccò sopportarli tutti a me, il quale se prima non
poteva vantarmi d'avere l'affetto del padrone, di poi dovetti accorgermi
che ero divenuto oggetto speciale della sua antipatia. Nell'ora dei
pasti, ei non mi diceva più nulla; ostentava anzi di non badar più
menomamente a me e faceva proprio come se io non esistessi, ma come se
ne ricattava durante le lunghe ore che mi toccava passare con lui in
quel tristissimo studio!
«Per mia fortuna mi rimaneva il compenso dei miei diletti studi, delle
mie care letture la notte.
«Ti ho già detto come la grande soggezione che avevo per Nariccia, fosse
ancora superata in ampiezza dalla grandissima disistima che avevo dovuto
acquistare di lui.
«Diffatti non passò molto tempo che io dai lavori che venivo facendo e
dai colloquii che udivo di coloro che venivano nel suo studio, avevo
dovuto esser chiaro di tutta la scelleraggine che quell'uomo nascondeva
sotto la sua schifosa ipocrisia. Ciò che peggio mi sdegnava era lo
spietato rigore ch'egli, padrone di casa, usava verso i poveretti che
avevano tolto da lui in affitto e non potevano pagare la pigione. Mentre
ostentava di far parte di non so quante congregazioni di carità, egli
toglieva a povere famiglie le ultime loro masserizie, mettendole sul
lastrico, affine di esser pagato di ogni aver suo; e tutto ciò sempre
invocando al suo solito Dio, la Madonna e tutti i Santi del calendario.
«Quelli poi che ricorrevano a lui per imprestito di denaro non potevano
trovare altrove un peggiore usuraio. Fra questi vidi anche venire
Gian-Luigi, e fu l'unica volta che lo vedessi dappoi che egli mi aveva
allogato in quella casa. Nariccia trovavasi assente in quel momento, ma
per tornare fra poco, e Gian-Luigi volle aspettarlo, stando meco in
istudio a discorrere.
«Mi disse: che la somma avuta come legato del suo protettore era tutta
consumata; che, avendo impreso a vivere con una certa eleganza non
poteva nè voleva smetter più; che la professione della medicina avrebbe
ancora tardato troppo assai a rendergli qualche cosa e i guadagni di
essa non sarebbero pure stati mai tali da bastargli all'uopo; ch'egli
perciò aveva rinunciato al proposito di farsi medico non sentendosi
acconcio per istentar la vita ad arrampicar sulle soffitte a visitare
degl'infelici che crepano di miseria, come deve fare ogni medico
principiante, oppure per andarsi a seppellire in qualche paesucolo
remoto, felice di avere uno scarso tozzo di pane in quello che si suol
chiamare una _condotta_, non potendo aspirare a un po' di agiatezza e un
po' di fama, anche avendo e mostrando molto talento, se non quando i
capelli fossero brizzolati e la bella età tutta trascorsa. Egli aveva
però, soggiunse, trovato il modo di pure strappare a questa nefasta
matrigna che è per noi la società, i mezzi onde soddisfare ai suoi
desiderii imperiosi. Il mondo era secondo lui un paese nemico da
conquistare, e vi occorrevano forza, ingegno e tenacità di propositi.
Egli possedeva tutto questo, e avrei dovuto vedere come sarebbe
riuscito. Ma frattanto, durante il tempo della lotta, egli veniva a
cercare munizioni di guerra anche all'usura di messer Nariccia e di
altri suoi pari.
«Poichè il mio padrone tardava, discorremmo a lungo su tali argomenti:
Gian-Luigi trascurava un poco le ragioni e le necessità d'ordine morale;
nel suo materialismo scettico ed egoistico, egli veniva abituandosi a
non discernere altro più che il suo vantaggio, inteso a modo suo.
Dimenticava, anzi non curava appositamente, e quasi direi disdegnava
tutti gli argomenti d'una filosofia superiore al sensismo epicureo, che
in ogni fatta di quistioni pone per base e per norma il solo
soddisfacimento dell'individuo. In me i libri avevano istillato qualche
insegnamento superiore; gli amorosi ammonimenti della religione di Don
Venanzio avevano lasciato tuttavia un tipo più elevato, un ideale più
sublime della vita e del compito dell'uomo anche nell'ordine sociale
come nel morale e nell'intellettivo. Abbracciavo col pensiero vedute e
concetti più generali, e il motto del nostro destino mi pareva più
grandioso che non quello cui affermava la smania di godimenti personali
onde era travagliato Gian-Luigi.
«Fu quella la prima volta che io, contro il fascino seducente della
persona e della parola ornata ed attraente del mio compagno d'infanzia,
ebbi la fermezza di proclamare i miei diversi principii. Gian-Luigi se
ne stupì. Volle ribattere, e il calore della disputa unita colla
convinzione dovette darmi alcuna maggiore efficacia di discorso, di
quella ond'egli mi credesse capace, perchè tutto attonito esclamò ad un
punto:
«— Dove hai tu appreso cotante cose? Onde il tuo ingegno ha egli
attinto tanta forza e tanto sviluppo? Se queste tue qualità tu
impiegassi al conseguimento d'uno scopo preciso e definito, alla croce
di Dio, che tu riusciresti senza fallo nell'intento.
«Nariccia sopraggiunse, ed entrato con Gian-Luigi dietro il cancello,
discorsero abbastanza lungamente a voce bassa, senza ch'io potessi
capire pure una parola, ma in tal modo che sembrommi l'usuraio opporre
molte difficoltà alle domande del giovane, e finire per arrendersi poi
sotto condizioni che udii Gian-Luigi in un momento in cui alzò la voce,
chiamare enormi.
«Partendo, il mio compagno d'infanzia mi disse che sarebbe tornato a
vedermi e che avremmo ripreso il nostro discorso, ma non lo vidi più in
quella casa per quel poco tempo durante cui ancora ci rimasi.
«Chi ci veniva sovente era quel gesuita che Nariccia diceva suo
confessore, padre Bonaventura....
— Quello è uno scellerato di frate, interruppe Giovanni Selva. In quante
famiglie egli ha cacciato la dissensione e seminato l'odio! La mia è una
di quelle. Quante eredità ha _captate_! Quante intelligenze ha castrate
per farne ciechi stromenti alle voglie ed alle ambizioni del suo ordine!
Un povero giovane che caschi in quelle mani, ne viene impastato,
maneggiato, plasmato al modello di quel menno San Luigi che i gesuiti
han creato per ideale della gioventù educata da loro. Ho visto ciò che
hanno fatto di mio fratello. Un automa a cui essi tirano i fili. Non ci
hanno lasciato nemmanco più il posto per un po' di cuore.
— Quando veniva costui, così riprese la sua narrazione Maurilio, io era
inevitabilmente mandato fuor della camera, e lunghe lunghe ore passavano
prima che il gesuita partisse, ed io fossi richiamato al mio tavolino.
Approfittavo di questo tempo, che avrei voluto si rinnovasse anche più
spesso, per correre ai miei libri nella mia stanza.
— Ma come mai messer Nariccia, il quale non mi pare molto amante di
libri e d'istruzione, aveva egli in suo potere quelle tali casse?
Così domandò Selva; e Maurilio rispose:
— Avevo pensato ancor io a codesto e mi ero immaginato che ciò fosse in
dipendenza di qualcheduno di quei suoi prestiti da usuraio cui lo vedevo
fare tutti i giorni agli infelici che gliene capitavano tra mano. E mi
ero diffatti bene apposto come un giorno mi venne chiarito.
«Vidi entrare un uomo di età matura, vestito di poveri panni, ma
pulitissimo, con aspetto di onestà e di dignità modesta insieme, che lo
rendeva affatto rispettabile.
«Dal colloquio che ebbe con Nariccia appresi chi fosse e quali rapporti
avesse con codestui.
«Egli era un libraio, il quale, volgendo a male i suoi affari, era stato
costretto a ricorrere a quell'arpia affino di averne danari in
imprestito. A poco per volta il debito del povero libraio si era
cresciuto talmente, che non potendo bastar più a pagare nonchè il
capitale, ma gli interessi enormi che erano pattuiti per Nariccia,
questi avealo minacciato di fargli vendere ogni cosa sua per giustizia e
il povero libraio pregando e strapregando aveva ottenuto un po' di
respiro col patto di dare in pegno al creditore tutto quel meglio che
aveva della mercanzia del suo fondaco. Si era egli obbligato a pagare in
certe rate a dati tempi il suo debito a Nariccia, il quale credendosi
che mai più il debitore sarebbe a ciò riuscito aveva già intanto in sua
mano il più prezioso di quanto avesse mai potuto prendere al suo
debitore, e ne sarebbe stato padrone senza intromissione di tribunali o
d'altro e senza ulteriori spese di sorta.
«Il buon libraio aveva ristretto il suo negozio ad un modesto
_baraccone_ sotto i portici, e vivendo con ogni fatta di privazioni egli
e la sua famiglia, coll'aiuto, com'egli diceva, di qualche caritatevole
persona, era giunto a tale da poter mettere insieme i denari occorrenti
per la prima rata, e si era affrettato a venirli portare. Pregava
intanto Nariccia a volergli restituire se non tutti quei libri che
avevagli dato in pegno, almanco una parte; ciò, soggiungeva, sarebbegli
stato di gran vantaggio, perchè avrebbe potuto così dare nuovamente
maggiore sviluppo al suo commercio che ora pareva volersi ravviare, e
così porsi in grado eziandio di più sicuramente adempire a tempo agli
obblighi assunti verso il creditore.
«Ma per quanto egli dicesse e pregasse e scongiurasse, Nariccia fu
incrollabile. Il pegno doveva stare presso di lui fino a totale
estinzione del debito; egli non voleva privarsi dell'unica guarentigia
che avesse, e quindi non avrebbe consentito a nulla di codesto, finchè
non avesse ricevuto sino all'ultimo centesimo il pagamento dell'aver
suo.
«Durante questa discussione il mio animo era combattuto da diversi
sentimenti. La pietà mi faceva desiderare che Nariccia cedesse alle
domande del libraio; ma l'idea che sarei privato dei miei libri diletti
mi era pur dolorosissima. Senza quell'unico conforto qual vita sarebbe
stata la mia in quella casa? Mi dicevo fra me che certo, ove ciò
avvenisse, non avrei resistito più e sarei partitomi di là. Ma per andar
dove? Per far che?
«Frattanto l'idea che il libraio avrebbe potuto pagar quanto prima tutto
il suo debito e riavere i suoi libri, mi pungeva continuamente e mi dava
nuovo ardore a studiare. Non dormivo più che un'ora appena per notte, la
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