La plebe, parte I - 27

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chirurgia. Che cosa volete dunque ch'io sappia? So che gli è un giovane
molto a garbo... e mi basta.
Alla contessa era venuto di botto tutto il suo coraggio. Fino a che i
due uomini erano stati a fronte, ella aveva dovuto fare uno sforzo per
vincere la inquietudine che la occupava; ora ch'ella sola trovavasi in
faccia a quel marito, di cui nulla avea potuto in essa ispirare nè
rispetto nè simpatia, nè alcun sentimento di affezione o di gratitudine,
ora la si sentiva forte e di subito s'era trovata pronta ad accettare la
lotta su qualunque terreno la volesse il conte impegnare.
Questi riprese con accento più ironico che mai.
— Sicuro! Molto a garbo! È quel che dicevo io: _charmant garçon_. Sa
trattare quasi come s'ei fosse qualcheduno, e parlandogli uno può anche
obliare che non si sa chi sia.
Candida arrossì fino alla radice de' capelli.
— Vi sono dei nobili, diss'ella con accento irritato, i quali hanno i
più numerosi quarti scritti nelle pergamene, e non sanno la creanza, e
non hanno lo spirito di questo giovane che, come voi dite, nessuno sa
chi sia.
Il conte s'inchinò con ironica galanteria verso la moglie.
— Avete ragione: diss'egli. A certuni non basta l'esser nati di nobil
sangue per aver nobili modi, come del pari, ai più non basta l'aver
acquistato dei titoli per aver preso addirittura con essi la vera
nobiltà.
Candida sentì l'aspra botta tirata contro suo padre e si morse le
labbra.
— Ad ogni modo: diss'ella vivacemente di ripicco; quando uno ha del
merito personale, per piacermi nella sua compagnia, io non istò a
domandargli il suo albero genealogico.
Amedeo Filiberto tornò ad inchinarsi come prima.
— E voi fate molto bene. Ma il mondo è più curioso e più esigente di
voi, e quando vede un cotale mettersi innanzi sulla scena del mondo vuol
sapere d'ordinario d'onde venga, che cosa faccia, di dove tragga i mezzi
delle spese che non va risparmiando. E allorchè si viene a scoprire —
imperocchè badate bene contessa che tosto o tardi quel benedetto mondo
riesce a scoprir tutto, e se trova troppa difficoltà a scoprire il vero,
inventa, che è peggio, ed inventando anche, molte volte indovina; —
allorchè si viene a scoprire che il brillante giovane di cui si comincia
ad occupare l'attenzione del pubblico non ha famiglia di sorta, è
capitato non si sa di dove, come un fungo sorto improvviso di terra, non
ha capitali nè tenute da dargli la rendita che spende, giuoca come un
disperato...
— Anche voi giuocate, signor conte: interruppe con vibrato accento la
moglie.
Il conte si tirò su della persona colla più superba mossa del mondo.
— Vi prego di non offendermi con siffatti confronti. Io dietro la mia
passione del giuoco posso mettere il patrimonio degli Staffarda...
— E quello di vostra moglie: disse Candida vivamente scoccandogli
un'occhiata più maliziosa ancora della interruzione.
Fu la volta del conte di mordersi le labbra. Stette un poco, e poi
riprese a dire senza rilevare la frecciata:
— Quando, dicevo, un giovane senza mezzi di fortuna la sciala da ricco,
vivendo in una intimità poco onorevole con una donna cui per rispetto
alle vostre orecchie non voglio qui qualificare.....
La contessa sussultò come riscossa da una violenta offesa. Si drizzò
della persona che teneva abbandonata sul seggiolone, ed esclamò
vivacemente:
— Non è vero, non è vero; questa è un'infame calunnia.
Il conte con una impertinente placidità le fe' cenno colla mano di
calmarsi, e poi disse con accento tranquillamente sardonico:
— _Pour Dieu!_ contessa, voi prendete fuoco più d'un zolfino. Ora io vi
prego di due cose: prima di ascoltarmi con un po' di pazienza e non
interrompermi, se volete che più presto io ne venga a capo; secondo di
ritener bene che un conte Langosco non si fa mai eco d'una infame
calunnia, per ripetere la vostra non troppo misurata espressione.
Candida si lasciò ricadere contro lo schienale della poltrona, come
rassegnata ad udire le parole del marito.
— Or dunque, continuò questi, avevo l'onore di dirvi che il mondo
curioso, pettegolo, mormoratore, maledico, anche calunniatore so volete,
vedendo di queste cose e sentendole e ripetendole, si fa troppo
agevolmente il concetto che quel cotale in siffatte condizioni si
guadagni le sue rendite colla _protezione_ della donna perduta, che
piuma i merli ricchi in favore dell'amico povero...
Candida non disse nulla, ma il parafuoco aveva dei movimenti convulsi
nelle sue mani, e il suo piedino batteva con febbrile agitazione sui
fiori del ricco tappeto.
Il marito si curvò verso di lei con una cortesia ed un'amenità che le
tornavano più irritanti di qualunque altra cosa.
— Ritenete bene, contessa, che io qui ora non affermo nè contesto nulla
di nulla. Ripeto quello che dice il mondo e non altro.
La contessa non si contenne oltre.
— Il mondo, interruppe ella con voce che invano voleva render calma: il
mondo dice altresì che fra quei merli di cui lamentavate poc'anzi la
sorte d'esser piumati da quella donna, si trova eziandio il conte Amedeo
Filiberto.
Ed egli a rispondere con cinica tranquillità:
— Voi spostate la quistione, cara contessa. È possibile che il mondo,
dicendo ciò che voi avete ripetuto adesso, non dica nemmanco una bugia.
Ma siete troppo intelligente per non capire come in questa commedia la
parte onorevole sia di chi lascia le proprie spoglie, non di chi vive
delle altrui.....
— Io non so vederci nulla d'onorevole per nessuno: disse seccamente la
giovine donna.
Il marito s'inchinò di nuovo a suo modo.
— _Soit!_... Ma, se vi piace, non divaghiamo oltre, per non prolungare
fino al mattino questo colloquio che è per me un favore, ma che dubito
possa essere per voi di molto divertimento. Quando adunque il mondo vede
un giovane come quello di cui abbiamo detto, usare con troppa frequenza
intorno ad una dama che è uno dei più begli ornamenti d'una sfera
sociale a cui egli non appartiene, il mondo incomincia a domandarsi che
razza di attinenze possa aver luogo fra quei due, poi biasima
l'imprudenza della donna che si mette a repentaglio di voci maligne per
causa di una relazione che non è degna di lei, poi ride del marito che
la permette.
Candida era divenuta color del fuoco, ma lo sdegno e l'amore davano
forza e coraggio al suo animo. Ebbe l'ardimento di guardar bene in
faccia suo marito e gli disse con voce ferma e vibrata:
— Voi volete dire che mi sono compromessa?
— Il cielo me ne guardi! Per chi mi prendete voi, madama? La moglie del
conte di Staffarda non può essere compromessa mai! Sapete bene che vi
copre il mio blasone — e la mia spada.
Fu la volta di Candida d'inchinarsi leggermente.
— Ma, continuava il conte, non voglio, _palsambleu!_ che si rida di me.
Vi ricordate, contessa, il colloquio che avemmo insieme in quel
fortunato giorno che voi consentiste ad essere mia moglie? Io vi dissi:
libertà intera per tuttedue, ma guardiamoci dalle ignobili catastrofi
del mondo borghese, rispettiamo il nostro nome a vicenda...
La contessa proruppe con impeto sotto l'impressione del traboccante
sdegno:
— E l'avete voi rispettato, signor conte? Vi rispondano le vostre
ballerine, le vostre mantenute, le vostre orgie notturne, in cui gettate
non solo le vostre, ma anche le mie sostanze — quelle sostanze per cui
unicamente mi avete fatto regalo del vostro nome.
— Ah contessa: esclamò egli colla solita calma: voi uscite di misura.
Questi _emportemens_ non sono da voi. Badate che correte rischio di
cadere in una discussione da bottegaio...
Ma la donna sempre sotto l'impulso di quella concitazione:
— Eh! che cosa m'importa la roba mia? Quel che mi cale è la mia libertà.
Non sono io più padrona di accogliere chi mi pare e piace? Vorreste voi
far delle esclusioni nel mio salotto e impormi la presenza o l'assenza
di questi o di quelli?
Il conte levò in alto una delle sue belle mani affilate in atto di
protesta.
— Dio mi guardi! Diss'egli.
— Ed io vi dico, seguitava la contessa, che ciò non vorrei tollerare a
niun patto... A niun patto, capite?
S'alzò in piedi quasi di balzo, e piantandosi in faccia al marito in
atto pieno di risoluzione, soggiunse:
— Oh volete che vi parli affatto schietto? Quella libertà che mi avete
promessa mi è più cara di quelle fortune che vi ho recate in dote;
queste vi lascio manomettere senza opposizione, ma la prima non lo
permetterò mai. Alla conoscenza, alla relazione, all'amicizia di quel
giovane ci tengo più che a tutto il resto, e non sono disposta a
rinunciarvi nè per farvi piacere, nè dietro vostro ordine. A me non
salta neppure in mente d'imporre a voi di simili sacrifizi; lasciatemi
quindi fare anche me a modo mio. In ogni caso, ve lo dichiaro
apertamente, sono disposta a spingere le cose a qualunque estremo —
anche ad una separazione.
— _Tudieu!_ contessa, esclamò il marito colla sua cinica freddezza, come
vi scaldate! Queste cose potreste dirle senza incollerirvi come una
_bourgeoise_. E poi che smania è la vostra di ficcarvi sempre in mezzo
la quistione del danaro? _Fi donc!_ Non è degno di voi codesto..... Una
separazione fra di noi! Mai più affediddio! Sapete qual è l'intesa delle
mie parole? Quella di trovar modo insieme noi due, da buoni amici, di
evitare ogni scandalo. Io sono venuto qui, l'anima piena di pacifiche
intenzioni per darvi qualche buon consiglio in proposito. Pensatevi se
vorrei mandare la cosa ad un punto in cui lo scandalo avverrebbe il
massimo possibile ed irrimediabile. No, no, signora contessa. Voi siete
sotto la protezione del nome di Langosco, e non voglio che la perdiate,
non voglio che mi priviate del vantaggio che ora posseggo di dare un
bravo colpo di spada al primo cialtrone che osasse pronunciare una
parola men che misurata sul vostro conto... Ma voi, benedette donnine,
non avete mai la prudenza più necessaria: prudenza nello scegliere bene,
prudenza nel regolarvi.
La contessa fece un atto come se volesse interrompere; ma egli non le
lasciò dire.
— Capisco, soggiunse: quanto alla scelta non c'è più da parlarne; è
troppo tardi. Lasciamola lì. Ma quanto al modo di fare, ah contessa,
permettete ch'io vi dica che vi siete mostrata d'una ingenuità affatto
puerile. Quel cotale accoglietelo quanto vi piace a _huis clos_, ma non
trascinatevelo dietro a farne mostra nel mondo, _que diable!_
— Che cosa ne vorreste conchiudere? Domandò Candida guardando sempre
risolutamente in faccia il marito.
— Voglio conchiuderne che allora provvederete di meglio a voi medesima
ed alla mia dignità, quando farete che il signor dottore — _si docteur
il y a_ — conversi con voi così sovente come vi piace, in segreto, ma il
mondo non vi vegga mai più insieme, e ch'e' non si trovi mai sul mio
passaggio, nè nel vostro salotto, nè altrove.
La contessa tacque alquanto sotto l'evidente effetto d'un po' di
mortificazione.
— Signore, diss'ella poi, dopo un poco: le spiegazioni della mia
condotta...
Il marito l'interruppe con quel suo atto della destra, di cui pareva
compiacersi perchè metteva in mostra tutta la bellezza della sua mano.
— Ah! non ne voglio avere nessuna. Che cosa mi credete? Un marito da
moderno dramma francese? Salvate le apparenze, io non vi domando altro.
Avrei potuto prima darvi quel consiglio che ho accennato poc'anzi: ma
ora.....
Si curvò nelle spalle ed allargò tuttedue le braccia come per dire: è
fatta e pazienza!
— _Enfin_, continuò egli, possano le cose volgere il meglio possibile a
seconda del vostro capriccio, senza che mi mettiate nella necessità di
farvi vedova di me — o di lui.
Candida si sentì l'anima offesa assai più da quel cinismo che non
sarebbe stata dai più crudeli rimbrotti. Una profonda amarezza l'invase.
Guardò alla sfuggita il sogghigno di quell'uomo corrotto a cui la Chiesa
e la legge avevano unito tutta la sua vita, e le parve non che
attenuata, ma quasi legittimata la sua colpa.
Ella tornò a sedere con una scioltezza quale avrebbe potuto avere in un
colloquio indifferente colla persona che meno le ispirasse soggezione;
ed aggiustandosi le sottane, disse al marito con accento di leggerezza
in cui non avrebbe avuto torto chi avesse creduto scorgervi una tinta di
disprezzo:
— E gli è per dirmi tutte queste belle cose da sermone che voi siete
venuto in un'ora così insolita ad invadere il mio _boudoir_?
— No: rispose il conte: precisamente non è per questo. L'occasione ha
mosse le mie parole. Certo non è ch'io non creda quell'argomento
abbastanza di rilievo per dar ragione alla mia insolita comparsa; ma il
vero è che io veniva per un'altra bisogna di cui mi occorre parlarvi.
— Ah ah! Esclamò la contessa guardando fisso il marito, mentre questi
pareva tutto intento a scacciare colla punta affilata delle sue dita
dalla rivoltura ricamata del panciotto nero qualche grano di polvere che
non c'era. Che cos'è questa bisogna?... Ma volete voi star lì dritto
come un piuolo tutta notte? Sedetevi una volta.
Il conte tirò presso al fuoco una poltroncina e vi si gettò su
abbandonatamente.
— Come volete, contessa. Già, gli è una cosa spiegata in due parole.
Sedendomi temevo di ispirarvi la paura d'una lunga conferenza;
rassicuratevi, non è per tutta la notte che avrò l'onore di trattenervi,
ma durante cinque soli minuti. Ecco di che si tratta. Il nostro
intendente è il più onesto degl'intendenti. Quando si caccia in capo di
rendermi i suoi conti mi annoia per un'ora con cifre interminabili alle
quali io non capisco nulla. Questo benedett'uomo mi è venuto testè a far
tanto di capo per certe faccende che io non so spiegarvi e che son
certo, ancorchè ve le spiegassi, voi non sapreste capire. Non siamo di
quel legno di cui si fanno i computisti, noi. _Bref!_ conchiuse, dopo
avermi fatto sbadigliare senza pietà, che occorre un certo atto per aver
certi capitali a pagare certe partite, sotto il qual atto è necessaria,
non che la mia, anche la vostra firma. Quell'originale mi proponeva di
venire egli stesso da voi a dimostrarvi la qualità dell'affare e la
necessità del medesimo. Vi ho voluto risparmiare tanto fastidio. _Allons
donc!_ gli dissi: queste son cose in cui non si ha da intromettere
nessuno fra il conte e la contessa. Ed ecco il perchè io son qua. Ho
domandato all'intendente: — Senza tante chiacchere, voi mi affermate in
parola di galantuomo che codesto è necessario e che gl'interessi della
contessa non ne sono menomamente lesi? — Egli me l'affermò. — Bene, io
soggiunsi allora, quando sulla fede della vostra parola avrò ancora io
affermato il medesimo alla contessa, ella mi crederà del pari, e sarà un
affar finito. E _voilà!_
Tacque e si diede a lisciarsi e ripulirsi le unghie con un piccolo
ferruccio che trasse dal taschino del panciotto. La contessa rimase un
istante senza rispondere. Era evidente che la sottoscrizione di quella
carta da parte sua equivaleva ad un qualche sacrificio di sue sostanze
per trovare nuovo modo di procurar denari alla prodigalità del conte.
Ella ebbe un momento il pensiero di non far così ad occhi chiusi; di
mettere in campo la sua ignoranza degli affari per proporre al marito
spiegasse la cosa al barone La Cappa, e dire ch'essa allora soltanto
avrebbe firmato, quando il padre vi consentisse. Ma non osò. Ebbe paura
prima del sogghigno con cui il conte le avrebbe fatto capire che quello
era un diportarsi, come diceva egli, da _bourgeois_: poi rapidamente
avvisò come quella domanda inchiudeva quasi un tacito patto che il conte
veniva proponendole: di accordarle maggiore ancora quella libertà
ch'essa invocava dietro il compenso della sua firma. Come ardire di
rifiutarsi a quella domanda dopo ciò che era avvenuto e che s'era detto
poc'anzi fra loro due?
Dopo due minuti di silenzio Candida disse bruscamente:
— E voi avete lì quella carta?
Il conte s'inchinò in segno affermativo.
— Date qui. Prese il foglio che il marito le porse ed andò ad un piccolo
tavoliere elegantemente intarsiato, su cui c'erano un bellissimo
_buvard_ ed un calamaio lucente d'oro.
— Dove ho da firmare? Domandò essa, senza gettare neppure un'occhiata su
quanto era scritto in quella carta.
— Lì al fondo: rispose il conte alzandosi egli pure e venendo presso a
lei. Così va bene.
Candida gli restituì il foglio aperto, colla sua firma; il marito lo
prese e lo accostò al fuoco per farvi asciugare l'inchiostro.
— Or dunque, diss'egli, non mi resta più che tornare a domandarvi
perdono dell'avervi recato sì inopportuno disturbo.
Ripiegò il foglio e se lo mise in tasca, poscia prese la mano di Candida
e glie la baciò con fredda galanteria.
— Buona notte, contessa: e ricordatevi sempre che in ogni qualunque caso
vi occorra il consiglio o l'aiuto d'un amico, io sarò sempre tutto per
voi.
Girò sui suoi talloni e se ne partì, senza che Candida, la quale gli
aveva abbandonato la sua mano affatto passivamente, pensasse pure a
rispondergli, nè dirgli una parola.
Quando fu sola, la contessa si lasciò ricadere su quella poltrona su cui
era seduta prima. Aveva l'anima confusa e turbata, ed insieme un vuoto
tremendo in essa. Non si sentiva appoggiata da nessuna parte, non
sentiva appo nessuno il caldo d'un vero affetto. Fra quell'amante e quel
marito si trovava in mezzo a due egoismi che la sfruttavano. Una
profonda melanconia l'assalse; si conosceva isolata nella vita, delusa
in ogni sua aspettazione.
Il conte rientrò nel suo appartamento, lieto di avere dalla firma di sua
moglie nuovo mezzo a fare rovinosi imprestiti, che a lui troppo oramai
oberato, e colla inalienabilità del suo patrimonio, non si volevano più
accordare da nessun usuraio.
Il domani Gian-Luigi riceveva il seguente bigliettino scritto dalla
contessa in francese:
«Non venite stassera al teatro Regio. Ho il dolor di capo, ci vado di
cattivo umore; sono persuasa che la mia acconciatura mi starà male. Vi
vedrò al solito luogo, all'ora solita, domani».
Il _medichino_ spiegazzò quella cartolina profumata fra le mani e lasciò
sfuggire una espressione di contrarietà che andava sino alla collera.
Candida aveva ceduto alla volontà del conte che le aveva imposto questo
sfratto del giovane borghese dal palchetto frequentato dal fiore il più
sopraffino dell'aristocrazia? Questo sfratto era egli il precursore d'un
altro più grave ancora dal superbo palazzo degli Staffarda? La contessa
si era ella indotta a rinunciare pubblicamente all'attinenza d'un amico
non titolato per non compromettere l'orgoglio nobiliare della schiatta,
contenta di abbandonarsi pienamente in segreto nelle braccia d'un amante
plebeo? Se ciò era, la cosa non conveniva niente affatto al nostro eroe.
Egli, per certi suoi calcoli, ci teneva non solo ad essere, ma a
comparire l'amante di una delle prime dame della città; ad aver libera
entrata nelle sale aristocratiche d'una famiglia fra le più illustri ed
antiche e godervi d'un trattamento di pari a pari — o poco meno — con
tutti i superbi blasonati che premevano coi piedi i tappeti di quelle
sale. Ciò avrebbe messo suggezione alla curiosità ed alle ipotesi della
gente; avrebbe dato a lui ed alle sue cose una onorabilità indiscutibile
e posto in iscacco persino quell'Argo cieco molte volte in gran parte
de' suoi occhi, ma pur tuttavia sempre più curioso d'ogni curiosità
femminile, voglio dire la polizia.
Ma s'egli si lasciava allontanare così di piano, e chiudere l'uscio
della sala in faccia da quella stessa mano che gli apriva l'usciolo
segreto del _boudoir_, questo suo intento era irremissibilmente perduto.
Inoltre non voleva Gian-Luigi che il conte potesse pur pensare ch'egli
si fosse tenuto lontano per paura o suggezione di lui. Gli veniva in
mente il sogghigno che avrebbe fatto il marito della contessa quando non
avesse visto a comparire di tutta sera quel giovane ch'egli il giorno
prima aveva già fatto partire dallo stanzino della moglie, e Gian-Luigi
sentiva il suo sangue, più orgoglioso d'ogni altro mai, rimescolarglisi
addosso. Egli aveva concepito l'audace disegno d'imporsi anche al conte,
e mentre già parevagli per lo addietro essere bene progredito per quella
via, ecco che ad un tratto e' se ne sarebbe lasciato sopraffare.
Si vestì con aggraziata eleganza e nel pomeriggio si recò al palazzo
Langosco un po' prima dell'ora in cui la contessa soleva aprire il suo
salotto alle visite. Il domestico a cui si presentò gli disse che la
contessa, poco bene di salute, quel giorno non avrebbe accolto nessuno.
Gian-Luigi non si mostrò nè stupito, nè offeso il meno del mondo. Chiese
vedere la cameriera della contessa per sapere più esatte le notizia
della preziosa salute della padrona. La fante — che era sempre quella
medesima — fu chiamata, ed essa e il _medichino_ si raccolsero a parlar
sotto voce nella strombatura d'una finestra.
— Dimmi il vero, cominciò Gian-Luigi, l'ordine di non ricevere, riguarda
me soltanto.
— No: rispose la cameriera, la quale colla famigliarità del suo contegno
ben mostrava come fosse in intima attinenza col giovane: riguarda tutti.
— Quest'ordine è stato il conte a darlo, oppure la contessa?
— La contessa. Il conte non s'immischia mai in quanto fa o non fa sua
moglie.
— E il motivo di quest'ordine?
— Non so. Veramente la contessa sta poco bene. È ancora in letto, e di
tutto il giorno non ha preso che un _consumato_.
— Sai tu s'ella vada al teatro questa sera?
— Credo che non lo sappia ancora nemmanco ella stessa. La sarta le ha
portato l'abito e la modista gli ornamenti della pettinatura. S'è fatto
mettere innanzi ogni cosa e la sta guardandoli, senza aver detto ancora
nulla di ciò che voglia fare.
— Bisogna che tu la spinga per quanto più potrai ad andarci. E se ci
riesci mi farai piacere. Domattina poi, quando ella ci sia stata,
conviene che tu venga da me a dirmi con qual umore essa è tornata a
casa, che ha detto, che ha fatto, se alcuna cosa è successo fra lei e
suo marito.
La cameriera guardò con occhio sfavillante Gian-Luigi e disse con
maliziosa modestia:
— Avrò da andare a casa sua, soltanto se la contessa sarà stata a
teatro?
Il giovane sorrise.
— Ah biricchina! Vienci ad ogni modo. E siccome può essere che più per
tempo io abbia qualche occupazione, fa di venirci verso le dieci che io
procurerò d'esser libero affatto per poterti dare un'udienza come ti
piace.
E in ciò dire fece scivolare uno scudo nella mano grassetta della
giovane, la quale sorrise tutto lieta e della mancia e più ancora delle
parole del bel _medichino_.
Questi uscì, si recò al _tiro di pistola_, dove si esercitò per un'ora,
fu al caffè Fiorio dove mostrò al bigliardo una valentìa maggiore ancora
del solito, andò a pranzo da Trombetta, e fece meravigliare i commensali
della _tavola da pasto_ della vivacità e dell'allegria del suo umore e
del suo ingegno; poscia, fumato un sigaro d'Avana passeggiando
lentamente fra la calca dei portici, andò a casa a vestirsi coll'abito
nero, ed entrò verso le nove co' suoi guanti paglierini freschi freschi
alle mani nel caldo ambiente della platea del Teatro Regio.
Un timore aveva egli nell'animo: quello che Candida non fosse andata al
teatro. Ma questo timore fu dileguato di subito. Gettò egli tosto
un'occhiata al palco di second'ordine che apparteneva alla contessa, e
la vide abbagliante di bellezza e di gioie, in tutta la pompa d'una
sfarzosissima acconciatura.
Candida vide tosto ancor essa, appena giunto, il suo amante nella
platea. Gli occhi di lei si volgevano spesso alla porta d'entrata; ella
avea scritto a Luigi di non venire, e pur non sapeva se in quel momento
le fosse più caro ch'egli obbedisse a quel cenno o meno. La
disobbedienza non sarebb'ella stata un segno del vivo desiderio di
vederla, e quindi un segno d'amore? Forse, dov'egli non si fosse
mostrato, questo sentimento sarebbe stato quello che avrebbe finito di
predominare nell'animo della contessa, la quale avrebbe preso il facile
rassegnarsi di lui per prova d'una quasi indifferenza; eppure al momento
in cui i suoi occhi furono come per influsso magnetico chiamati alla
platea dalla presenza di lui, Candida provò una viva contrarietà. I suoi
lineamenti si atteggiarono rapidamente ad una espressione di dispetto e
gli occhi lanciarono una fiamma di rimprovero al sopraggiunto per
volgersi quindi altrove, mentre nell'aspetto e nelle parole essa si
metteva ad ostentare un'allegria che non aveva prima, e degnava di
sorrisi e risatine, che non meritavano punto, i discorsi dei visitatori
del suo palco.
Gian-Luigi non apparve niente affatto mortificato di questa poco
lusinghiera accoglienza; fece un suo superbo sorriso, e ripulito ben
bene da ogni appannatura i cristalli del suo elegante cannocchiale che
aveva preso, salendo la scala, dal custode che li tiene in guardia a
comodo degli abbonati, si diede con attenzione ad esaminare la sala.
Il teatro era affollato da uno di quei pubblici eleganti che ora ci si
vedono raramente, ma che allora, sotto il regno di Carlo Alberto, era il
pubblico solito agli spettacoli di quella massima scena torinese. I due
primi ordini di loggie erano riservati solamente all'aristocrazia, la
quale mandava in gran pompa le sue dame cariche di titoli, di quarti e
di diamanti; al terzo ordine cominciava a potersi insinuare la
borghesia, quella più ricca e che avesse uno zampino nelle cariche dello
Stato, magistratura o ministeri; nel quarto e quinto potevano
introdursi, non senza stento il commercio e l'industria, cedendo il
passo però all'ozio ed alla nullità ammantati sotto il comodo titolo
d'avvocato, comprato con una facile laurea. Occhi belli e brutti, gioie
ed ori, colori smaglianti e spalle nude, fiori artificiali e guancie
imbellettate brillavano da tutte parti. Le regine della moda e della
bellezza attiravano su di sè maggiormente l'attenzione, e gli abiti neri
e le spalline lucenti della platea se le additavano a vicenda dicendo il
nome. Alle bellezze nobiliari dei primi ordini faceva però quella sera
concorrenza assai potente una strana bellezza che sfoggiava uno sfarzo
impertinente in una mossa piena d'audacia nelle alte sfere del quarto
ordine, e molti erano i cannocchiali che si appuntavano sino a quel
rimoto cielo a contemplare quell'astro non ordinario di tali plaghe, che
ci si mostrava come una stravagante cometa.
Era una donna giovane, sola, con apparenza tutt'altro che di modestia.
Aveva una massa enorme di capelli d'un biondo che tirava sul rosso i
quali facevano intorno al suo volto non brutto, ma più provocante che
bello, un'aureola d'oro; aveva certi occhi di colore indefinibile, che
ora ti parevano azzurri e limpidi come un cielo sereno, ora d'uno scuro
verzigno come un mare commosso. Aveva forme voluttuose che si vedeva
compiacersi ella di mettere in mostra con procace atteggio. Le labbra
carnose, rosse del color di sangue che spiccia fresco dalla vena,
spiravano una voluttà che quasi direi feroce e potevano essere indizio
ad un osservatore per giudicar male degli istinti di quella creatura. Si
vedeva insomma che essa apparteneva a quella razza di donne-vampiri,
che, senza ispirar mai un vero amore, pur tuttavia s'impadroniscono del
senso, dell'anima, del cervello di quanti uomini sono troppo deboli e
troppo incauti per non romper tosto la prima maglia della rete gettata
su di loro, e fisicamente e moralmente li depauperano, li spogliano,
come d'ogni avere, così d'ogni generoso affetto, d'ogni virtù; Dalile
che fanno un debole e vile d'ogni più vigoroso Sansone.
Il contegno di questa donna era tutto una provocazione ai sensi e dirò
anzi ai vizi degli uomini, una sfida all'onestà delle donne, in una
calma che si sarebbe potuta dire cinismo; una calma da paragonarsi a
quella d'una tigre in riposo, pronta a balzare al primo svegliarsi d'un
istinto di sangue. Sotto alla pioggia di luce del lampadario che gettava
i raggi delle sue fiammelle su quelle forme da etaira greca, le carni
sode, leggermente abbrunate della sirena avevano dei riflessi, che quasi
direi metallici, pieni d'incanto inesplicabile. Vestita d'un color di
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