La plebe, parte I - 29

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fannulloni della piazza. L'istruire dei bambini e sopratutto delle
bambine all'arte dei salti mortali e delle contorsioni impossibili era,
come si suol dire, la specialità di quell'uomo; il quale accortamente
aveva notato come la vista degli esercizi di quelle povere creaturine,
massime se femmine, eccitando assai meglio la compassione degli
spettatori, procurasse una più abbondante raccolta di soldi.
Ora la sua compagnia infantile erasi ridotta a due soltanto; e ciò non
gli bastava. Ancora, una delle due rimastegli minacciava intisichire ed
andare a raggiungere quanto prima nel mondo di là le sue compagne, che
il saltimbanco aveva seminato qua e colà pei varii cimiteri delle città
traverso cui si era trascinata la sua nomade vita. Da qualche tempo
cercava una preda, e l'aspetto della piccina strappata e macilenta, che
vedemmo poc'anzi, fatta donna, in palco al teatro, che troveremo or ora
nel suo splendido quartiere, l'attenzione profonda prestata da essa ai
giuochi che le si venivano facendo dinanzi, gli parvero indizi quella
essere fatta apposta pel suo bisogno.
Un vecchio organetto scordato, posto sopra un cavalletto di legno zoppo,
accompagnava colle sue disarmoniche armonie irritanti gli esercizi di
forza e di destrezza che le due bambine venivano facendo sopra il logoro
tappeto steso sul suolo a mezzo il circolo degli spettatori.
Quest'organetto laceratore di ogni orecchio, anche del più mal
costrutto, era suonato da un giovinotto magro magro, le cui guancie
infossate erano coperte da un centimetro di belletto e che vestiva da
pagliaccio. Il poverino con una fame da sedicenne non mai saziata, fatta
azzittire mercè i mali trattamenti del principale, aveva l'incarico di
tener allegri gli spettatori mediante certe facezie che aveva imparato a
memoria a suon di bastonate e mediante le smorfie che doveva fare quando
il capo gli tirava le orecchie o gli assestava un calcio nel sedere in
presenza del rispettabile pubblico rappresentato da una frotta di
facchini e di furfantelli, e dell'inclita guarnigione presente per mezzo
di qualche sfaccendato coscritto. Queste tirate d'orecchio e questi
calci dovevano essere figurativi, e il buon pubblico, che li prendeva
per tali, si sganasciava allegramente alle boccaccie spiritate che
faceva il meschinello di pagliaccio, ricevendoli; ma in realtà avveniva
che troppo spesso erano di maledetto senno, sì che il giovinetto tutto
indolenzito ne portava i contrassegni per un pezzo, senza che ciò
andasse pure in diminuzione di quella provvista di cazzotti e di
picchiature che il bravo principale aveva per abitudine di distribuirgli
a domicilio.
Accanto allo strimpellante organetto, una donna di corporatura enorme,
con lineamenti da uomo e colorito permanente da ubriaco sulle guancie
paffute, con certe braccia da parer coscie di un alcide, batteva a
contrattempo dei colpi tremendi sopra una gran cassa sostenuta ancor
essa da un cavalletto di legno. Era essa vestita eziandio colla sottana
corta di color rosso e giallo, tempestata di lustrini, e mostrava certe
gambe che a paragonarle a quelle dell'elefante era far torto a queste
ultime.
Il saltimbanco si accostò a questa donnaccia, ed accennando la piccola
Martuccia, le disse sottovoce:
— Eh? mi pare che quel bocconcino lì sia l'affar nostro.
La donna fece rotare i suoi occhi senza luce verso la piccina, e rispose
con un cenno affermativo. Martuccia sentì su di sè lo sguardo di
quell'uomo e di quella donna, e benchè ne provasse una specie di
malessere, non ebbe tuttavia la risoluzione e neppure l'idea di
allontanarsi da quel luogo.
Gli esercizi erano finiti, il cerchio degli spettatori erasi dileguato,
e Martuccia era ancora lì con occhi spalancati a fissare quelle due
bambine, alle quali la femmina enorme aveva distribuito un pezzo di pane
ed un pomo per ciascuna, e che se lo mangiavano avidamente, accoccolate
sopra il tappeto ripiegato e portato presso l'organetto. Il pagliaccio,
forse in punizione di qualche commesso malestro, non aveva ricevuto nè
pomo nè pane, e sedutosi per terra dall'altra parte dell'organo, stava
colle gomita appoggiate alle ginocchia e la faccia nascosta fra le mani.
Lo sguardo che Martuccia fissava sul pane e sul pomo delle due piccole
saltatrici, era tutta una rivelazione. La donnaccia pensò subito trarne
profitto. Si accostò alla piccina con in mano un pomo e sulle labbra un
sorriso che voleva esser grazioso e riusciva ad orribile.
— Bella piccolina: diss'ella alla bimba. To', vorresti tu questo bel
pomo?
Il primo movimento della piccina fu di paura. Si trasse in là vivamente
e guardò esterrefatta quella faccia grossa di color pavonazzo, da cui
usciva fuori una voce inqualificabile nella gamma delle voci umane.
Ma quel pomo che la megera faceva girare fra il suo pollice e l'indice
grossi come bacchette da tamburo, innanzi agli occhi di lei, esercitava
pure un fascino potente sulle viscere digiune di quella meschina. Stese
ratto la mano ed afferrò il pomo: ma la donna non lo lasciò mica andare;
preso invece nella sua la manuccia della bambina e tirandola verso
l'organetto dove sedevano le altre bambine, le disse il più melatamente
che seppe:
— Sì, cara, gli è tuo questo pomo, ed anche un altro se vuoi, e un pezzo
di pane eziandio, se te ne dice la coscienza, ma vieni a mangiarlo qui
in compagnia di queste due brave ragazzine....
E la trasse diffatti dove voleva.
Un pomo perdette il genere umano, secondo la Genesi: un pomo perdette
per sempre la miserella, che avrebbe potuto diventare la moglie onesta
di un lavoratore, madre di onesti operai.
— Oh! oh! che bella piccina! Disse colla sua voce rauca il saltimbanco
facendo una carezza alla guancia di Martuccia. Questa sì che è una bella
piccina davvero!
La vanità e la civetteria sono proprio istintive in una buona quantità
del sesso femminile, e Martuccia le aveva dalla natura nel suo carattere
maggiori che in altrui; quelle parole produssero in lei un
soddisfacimento tanto più vivo in quanto che era la prima volta che le
udiva. La si sentì rinfrancata, e con tutta scioltezza prese posto sul
tappeto rotolato e si diede a mangiare il pomo e il pane con avidità
pari a quella delle due piccole saltatrici.
La donnaccia e il saltimbanco, interrogando destramente la piccina,
ebbero in breve saputo tutto ciò che la riguardava: la povertà della
famiglia e il poco amore che i genitori le dimostravano.
— Di' un po', uscì fuori l'uomo ad un punto, pigliando nella sua grossa
mano il mento delicato di Martuccia, non ti piacerebbe egli venire con
noi, veder tanti paesi, portare una vestina tutta oro ed argento, aver
giocattoli e regali a macca, sentirti a lodare da tutti e gridar brava
dal pubblico e buscar tanti soldi che stando in tua casa non ne vedresti
mai pure la centesima parte?
Alla bambina quelle parole del saltimbanco parvero aprire dinanzi un
avvenire tutto color di rosa; pensò che non avrebbe avute più le
battiture del padre ubbriaco e della madre di cattivo umore per aver
dovuto impegnare l'ultimo suo straccio onde averne del pane, che
sarebbero finite le lunghe ore di noia in cui le toccava star seduta in
un cantuccio di quella trista e scura soffittaccia ornata di ragnateli,
che almanco avrebbe avuto l'aria aperta, il cielo, il sole, e visto cose
nuove; i suoi occhi brillarono ed ella disse con gioia:
— Oh sì che mi piacerebbe.
— E va benissimo. Allora mi condurrai dal tuo babbo, ed io gli domanderò
se vuole lasciarti venire con me.
Così fu fatto. La proposizione veniva a quegli sciagurati genitori in un
momento appunto in cui peggio li percuoteva la miseria. Per onor loro
devo dire che lottarono un poco, e la madre principalmente fu dapprima
assai restia: ma il saltimbanco insistette accrescendo sino a cinquanta
lire la somma che aveva offerto dapprima; gl'infelici, per cui questo
era poco meno che un tesoro insperato, cedettero, e chi volesse non
essere menomamente ingiusto nel condannarli, come si meritano, dovrebbe
pur tener conto dei tristi e perniciosi effetti che a forza produce
sull'anima umana il continuo, irrimediato tormento della miseria.
Martuccia seguì i saltimbanchi assai lieta; e da principio la sua vita
le parve, paragonata a quella sino allora vissuta, un piccolo paradiso.
L'avevano spogliata delle sue vestine strappate e sporche e del suo nome
trovato poco adatto alle nuove sorti a cui era chiamata. Le avevano
messo intorno i panni che aveva vestiti una delle sue precessore morta,
nessuno si ricordava più dove, e il nome portato dall'ultima che aveva
disertato la compagnia per la fossa. Questo nome era Zoe. Il bravo
saltimbanco aveva un repertorio di nomi da affibbiare così alle sue
allieve in luogo dei prosaici che ordinariamente esse portavano, e
questi nomi faceva passare dall'una all'altra, quando la prima occupante
veniva a mancargli. Pei primi giorni adunque tutto andò bene. A Zoe non
si dava altro da fare che certi movimenti di braccia e di gambe per
iscioglierne le membra; movimenti che non avevano nulla di faticoso e
tanto meno di doloroso. Il saltimbanco usava palparla nelle spalle e
nelle reni, press'a poco della guisa con cui una cuoca in mercato palpa
un pollastro che vuol comprare, e diceva poscia tutto soddisfatto:
— Benissimo costrutta! La diventerà un soggetto, ma di quei
_fiamminghi_!
Le si dava da mangiare quanto occorreva, passava la giornata sulle
piazze, sollazzata dall'aspetto di tante cose e di tanta gente, dormiva
benissimo la notte sopra uno strammazzo di paglia con accanto le sue due
compagne; ed era tutto fiera quando, essendo andata alla colletta presso
gli spettatori, tornava dal saltimbanco col piattello pieno di soldi,
per cui quell'omaccione gli diceva una parola di elogio e gli faceva una
carezza. La donna tentava far dolce la sua vociaccia ogni qual volta
parlava colla piccola Zoe, e questa incominciava a darsi un po'
d'importanza e credersi dappiù paragonando il modo con cui essa era
favorita a quello onde erano trattati i suoi compagni.
Bene avrebbe potuto farla avvertita di quanto la aspettava l'esempio di
ciò che accadeva a questi ultimi. Le percosse che prendevano le piccine,
quelle più fiere ancora che toccavano al pagliaccio la movevano bensì a
compassione dapprima, ma poi — la umana natura è così fatta! — la ci si
era abituata e siccome non a lei toccavano in fin dei conti, le pareva
ch'ella avrebbe dovuto esserne esente per sempre.
Le cose cambiarono, quando a capo un mese, la compagnia abbandonò
Torino. Fosse timore che in questa città la piccina trovasse i suoi
genitori e si lamentasse se maltrattata e da ciò potesse nascerne
qualche richiamo all'autorità, qualche intromissione di quella noiosa
d'una polizia, fino a che si fu nella capitale del Piemonte, la pelle di
Zoe fu rispettata; ma fuori!... In breve tempo ella ebbe la sua parte
cogli arretrati. L'uomo era crudele, ma la donna era feroce. In loro la
natura era barbara e rozza, ma la educazione non aveva fatto nulla per
migliorarli ed ingentilirli, e la loro sorte, gli esempi, l'ambiente in
cui erano vissuti erano invece fatti apposta per inasprire il carattere,
incrudire il cuore e svolgere i più fieri e cattivi istinti. Delle
colpe, delle scelleraggini, delle infamie di quei derelitti, quanta
imputabilità non è da darsi al mezzo sociale in cui vivono! Quell'uomo
era nato in quella melma, s'era allevato fra gli stenti e i vizi di quei
bassi fondi sociali, maltrattato, angustiato, senza conoscere, senza
provare pur mai nessun effetto di istruzione, di dolci affetti, di bene
morale. La donna era di pari condizione, fatta peggiore, perchè la
natura femminea, come nel bene, così eccede pur anco nel male. Quindi
ella si compiaceva non solo a tormentare essa stessa direttamente le
povere vittime cascatele sotto le unghie, ma ad istigare ancora contro
di esse la collera e la brutalità del marito.
Il peggio trattato era il povero pagliaccio. Che nome aveva egli? Chi
era? Donde veniva, o meglio a cui era stato tolto? I saltimbanchi stessi
parevano averlo dimenticato, egli non ne sapeva nulla. Da tanti anni,
che gli parevano secoli, egli cresceva in mezzo alle percosse di quei
due crudeli. Non era altro più che pagliaccio, un essere fatto apposta
su cui sfogare coi cazzotti, coi pugni e coi calci il cattiv'umore di
chi gli dava uno scarso tozzo di pane. Egli soffriva e taceva. Raro è
che parlasse. Si piaceva a rincantucciarsi e star solo, coi gomiti sulle
ginocchia e la faccia nelle mani a meditare. Che meditava egli mai?
Una fra le due compagne di Zoe era più miseruzza dell'altra. Tossiva
spesso, si lamentava di dolori allo stomaco, raramente poteva cibarsi
con appetito, dormiva poco, troppo sovente tremava e sudava dalla
febbre. I saltimbanchi uomo e donna, la rimbrottavano acerbamente,
dicevano che quella era pigrizia, che gli eran vizi e malavoglia di fare
il dover suo, e accadde più d'una volta che anche la picchiassero per
obbligarla a star bene e scendere in piazza a fare i soliti esercizi. La
poverina si travagliava miseramente nelle sue capriole e negli sforzi
delle sue mosse ginnastiche, tenendo sempre fisso sulle labbra
quell'imposto sorriso costretto e contratto, che era dolorosissimo a
vedersi, chi per poco esaminasse la infelice, e poi cadeva ansimante per
terra presso l'organetto, serrandosi colle mani convulse lo stomaco in
cui soffrivano, i suoi polmoni, i più cocenti dolori. Pagliaccio
lasciava scendere uno sguardo pieno di compassione sopra quella
sofferente, ma lo sviava tosto da lei e con più violenta prestezza si
dava a girare il manico di quel scellerato strumento disarmonico e
stonato. Era la sola manifestazione di sentimento che potesse esser
colta negli atti, nella fisionomia di quel giovanetto, che del resto si
mostrava d'una indifferenza stupida e non mai smentita; manifestazione
codesta ch'egli metteva assai cura a non lasciare scorgere nè da quel
crudele nè da quella megera che erano i suoi padroni.
Un giorno finalmente la piccola inferma non potè a niun modo levarsi più
dallo stramazzo in cui aveva dolorato tutta la notte. Il saltimbanco
capì che la era spacciata come le altre mancategli della medesima guisa.
La chiuse nel granaio tutto sola, e condusse in piazza il resto della
compagnia. Quando tornarono la sera, la poverina era morta.
— Che peccato! Disse il saltimbanco poichè si fu accertato che la era
freddo cadavere. Se avesse vissuto questa qui sarebbe diventata un
_fiero soggetto_.
Fu l'orazione funebre di quella creatura sventurata, che non aveva
conosciuto vivendo le carezze materne, che era morta abbandonata senza
il conforto d'una mano amorevole, d'una parola pietosa.
Poscia il saltimbanco e la donna se ne uscirono di là per recarsi
all'osteria secondo il solito, lasciando chiusi entro il granaio, col
cadavere della piccola morta, Zoe, l'altra compagna superstite e
Pagliaccio.
Era la prima volta che la Martuccia si trovava in faccia allo spettacolo
della morte, e quel viso immobile color di cera, la bocca semiaperta e
tirata, quegli occhi spenti entro le occhiaie infossate, di cui niuno
aveva avuto la pietosa cura di abbassare le palpebre, le incutevano una
tremenda paura. Guardava, guardava quella faccia di cadavere, e le era
dolorosissimo il guardarla, e non poteva pur tuttavia staccarne gli
occhi.
Fu il povero Pagliaccio quegli che abbassò le palpebre della piccola
morta. S'inginocchiò presso di lei, le rese quel pietoso ufficio, poi si
volse all'altra ragazzina che piangeva, forse più ancora di spavento che
di dolore.
— Perchè piangere? Le disse con una voce straordinariamente grave per
uno appena entrato nell'adolescenza. Essa è più felice di noi; ha finito
di soffrire; e certo dov'essa è andata si sta meglio che non qui sotto
la sferza del principale...... Una volta che, scappando di casa, ho
potuto entrare in chiesa un momento, ho udito un prete a predicare, il
quale diceva che chi muore senza aver fatto del male va in paradiso dove
c'è un eterno benessere. Questa poveretta non ha mai fatto male a
nessuno e dev'essere andata colassù. Sapete ciò che abbiamo da
desiderare anche noi? Si è di far presto ad andarla raggiungere; poichè
tanto e tanto questa ha da essere la nostra sorte.
Detto ciò Pagliaccio si accoccolò, come soleva, coi gomiti sulle
ginocchia e la faccia nelle mani e stette immobile presso il piccolo
cadavere. Le sue parole avevano ispirato nell'animo di Zoe una
indicibile mestizia. Anche di poi, nel più brillante apogeo della sua
sciagurata carriera, ella non aveva dimenticata quella notte e diceva
non poterla dimenticar mai. Ella erasi stretta in un cantuccio lontano
il più possibile dalla morta, insieme colla sua superstite compagna, e
stette colà fino al mattino impedita dallo spavento di dormire di sonno
fermo, sonnecchiando di tanto in tanto, solo per avere in quel sopore
più tremende le immagini di inesprimibili confuse visioni. Ancora nel
buio più fitto delle ore notturne, ella credeva vedersi innanzi quella
faccia patita di color cerco, quegli occhi spenti a guardarla, quelle
labbra livide a dirle con voce cupa le parole pronunciate da Pagliaccio:
— Anche questa ha da essere la tua sorte.
Il domani stesso, come sempre faceva in simili casi, il saltimbanco
partì dalla città in cui si trovava e con viaggio più lungo del solito,
mise una maggior distanza che non solesse fra la sua nuova residenza e
quella che aveva abbandonata.
— Orsù, aveva egli detto a Zoe quel domani medesimo, ora tocca a te a
tener il posto di quell'altra, e bisogna sgranchirsi un po' meglio.
Queste parole furono il vero annunzio d'un accrescimento di lavori e di
fatiche accompagnato necessariamente da una recrudescenza di battiture.
Ma Zoe era temprata con nervi d'acciaio, e in quella lotta
dell'organismo per acconciarsi a siffatte condizioni d'esistenza, la
parte fisica si era afforzata di guisa da vincere, soffocando quasi del
tutto la parte morale, che in tali circostanze è quella che procura i
maggiori tormenti alle anime oneste.
A dodici anni la era una delle acrobatiche e delle ginnastiche più brave
che si potessero vedere, e il suo sviluppo fisico era tale da presentare
una precoce adolescenza, ch'ella stessa, prematuramente corrotta nel suo
pensiero, si compiaceva a rendere tentatrice ai vizi dei libertini. Le
nozioni del bene dove avrebbe ella potuto attingerle? Del pudore e
dell'onestà femminile dove averne gli esempi? Il vizio e la corruzione
fin dalla sua infanzia le erano stati compagni, come cosa naturale, come
l'ambiente necessario in cui vivere. S'era ausata ad udire, vedere e
ridere di tutte le morali sconcezze che riguardano i rapporti dei due
sessi, come se questa fosse una parte del suo mestiere, una condizione
del suo essere. I suoi principali erano pronti a venderne la bellezza al
primo che loro offrisse patti convenienti; e non glie lo nascondevano:
il saltimbanco intanto sentiva di quando in quando delle velleità di
appropriarsi esso stesso quel boccone che avrebbe fatto gola al più
frusto libertino del mondo.
È doloroso aver da rivangare questa melma sociale, e noi passeremo solo
di sfuggita sopra tali orrori. Zoe s'accorse delle intenzioni del suo
principale, e non se ne indignò, non sapendo neppure che c'era caso da
indignarsene. Per un preannunzio di quel carattere che doveva essere il
suo, di quella infame sorte a cui era predestinata, essa non pensò altro
che tentar di ricavare il miglior profitto possibile dalle intenzioni
del saltimbanco. Fino d'allora la cortigiana si rivelava in tutta la sua
essenza. Chi indovinò eziandio i tristi propositi del saltimbanco, e ne
soffri immensamente, fu il povero Pagliaccio. Gli anni erano passati
anche per lui, ma pure non avevano recato alcun cambiamento alle sue
meschine sembianze. Era sempre il mingherlino macilento, le cui gambe
sottili e le braccia grosse come canapuli ballavano nelle vestimenta
troppo larghe, senza un pelo di barba sulla faccia, sempre colla sua
aria melensa, tra mesta e timorosa e meditativa.
Eppure la sbocciante bellezza di Zoe aveva prodotto un grande effetto
anche nell'anima di quell'infelice. Non le parlava quasi mai, eccetto
per dirle ciò che era strettamente necessario, ma la seguiva cogli occhi
continuamente, e quando nessuno poteva scorgerlo, il suo sguardo
addormentato balenava d'una subita fiamma; talvolta, suonando
l'organetto, mentr'ella faceva i suoi esercizii, egli dall'ammirazione
rimaneva lì a bocca larga, colla mano per aria, e Zoe doveva gridargli
colla sua voce chiara e vibrata, all'udir la quale egli si riscuoteva
tutto:
— Animo Pagliaccio! Su la musica!
Ed egli, con nuovo ardore, quasi arrabbiato, si dava a girare il manico
dell'organetto.
Anche per ragione d'interesse, Zoe era diventata carissima al
saltimbanco. La bravura di lei e le grazie della sua persona,
guadagnavano le simpatie di tutto il pubblico, e quando essa andava in
giro col piattello, l'introito era sempre vistoso.
Il saltimbanco, incoraggiato da questi successi ad essere ambizioso,
determinò lasciare il suolo libero ed il cielo scoperto delle piazze per
provvedersi di un baraccone di tele tirate su listelle e piuoli; e volle
quindi eziandio aumentare le attrattive dello spettacolo offerto agli
avventori. Un bel dì, quando già la piccola compagnia dava le sue
rappresentazioni nella baracca, il saltimbanco istrusse Pagliaccio ad
essergli compare in un nuovo giuoco, che egli voleva eseguire, e mercè
le strapazzate e le battiture, in poche lezioni ridusse il povero
figliuolo a fare appuntino quello che egli voleva. Il giuoco era questo;
il saltimbanco avrebbe fatto caricare da uno degli spettatori una
pistola, mettendovi dentro una vera palla di piombo, ma Pagliaccio nel
riprenderla dalle mani di colui che l'aveva carica, doveva destramente
sostituire a quell'arma un'altra perfettamente identica solamente
caricata a polvere; allora il saltimbanco avrebbe invitato chiunque
volesse dell'assemblea a far fuoco su di lui alla distanza di due passi:
naturalmente Pagliaccio avrebbe dato a questo cotale la pistola senza
palla, e quando egli avesse sparato, il saltimbanco avrebbe mostrato al
pubblico nella sua mano una palla che si terrebbe all'uopo fra le dita e
che fingerebbe aver colta a volo.
Enormi cartelloni annunziarono questo giuoco sotto il titolo: L'UOMO CHE
NON PUÒ ESSERE UCCISO. STRAORDINARIA INVENZIONE MAI PIÙ VISTA, ecc.,
ecc. La curiosità degli abitanti di quella piccola città di provincia,
in cui la compagnia si trovava, fu solleticata di modo che un numeroso
pubblico accorse. A tutta prima nessuno volle sparar la pistola; ma poi,
dietro le sollecitazioni del saltimbanco, un antico militare di più
coraggio acconsentì a far fuoco. Il saltimbanco illeso mostrò al
pubblico entusiasmato la palla che aveva tra mano e che tutti credettero
fosse quella cui avevan visto mettere nella canna della pistola. Tutta
la città volle vedere siffatta meraviglia; e tra questo giuoco e le
grazie di Zoe, la cassa del saltimbanco ebbe allora una fortuna non mai
conosciuta dapprima.
E questa fu la causa della perdita del saltimbanco. I buoni guadagni lo
resero più frequente nell'ubbriacarsi, e quando era ubbriaco egli
diventava una belva feroce. Zoe aveva saputo temporeggiare e schermirsi
sin allora; ma una sera lo scellerato uomo, non solamente le parole più,
ma usò la violenza. Pagliaccio era in un cantuccio raccolto in sè al
solito, dimenticato come sempre. Che cosa passò mai per l'anima di
quell'infelice? E' saltò su come spinto da una molla e venne a piantarsi
innanzi al saltimbanco a parare la vittima di lui, difensore fremente ed
inefficace. L'ubbriaco, con uno sdegno pieno di stupore, gli diede
parecchie ceffate e credette averne ragione: ma no: il disennato
resistette, osò ribellarsi, ardì cimentare le sue deboli forze contro le
erculee membra di quel sansone. Il trattamento che ne ebbe il temerario,
fu tale che Zoe gettossi disperatamente in mezzo domandando pietà. Il
saltimbanco gettò il giovane mezzo morto in un angolo: senza che quel
disgraziato avesse pur disserrato le labbra per chiedere misericordia,
per fare un lamento. Buttato là come uno straccio, egli teneva i denti
stretti e i pugni contratti, pallido come un morto, sanguinoso pei colpi
ricevuti, ma nello sguardo il fuoco d'un odio implacabile, feroce.
Il saltimbanco tornò senza più contrasto alla sua infame violenza.....
La giornata di poi si dovette far riposo perchè Pagliaccio non poteva a
niun modo prender parte alla rappresentazione: ma due giorni dopo,
all'annunzio d'una nuova ripetizione del giuoco dell'uomo invulnerabile,
una gran quantità di spettatori s'accalcava nel baraccone, e Pagliaccio
colle lividure del suo viso ricoperte dalla farina e dal belletto
rallegrava il pubblico delle usate facezie.
Venne il momento di eseguire il tiro della pistola contro il
saltimbanco. Questi, secondo il solito, diede a caricare l'arma ad uno
degli spettatori, il quale mise in essa la sua brava palla; fece
ritirare la pistola, com'era usato, da Pagliaccio, e poi domandò qualche
coraggioso fra gli astanti che gliela sparasse verso il petto alla
distanza di due passi. Come tutte le volte ebbe luogo una esitazione nel
pubblico, e nessuno volle dapprima prestarsi a tale ufficio; ma il
saltimbanco insistendo replicatamente e vivamente, uno acconsentì
finalmente a questa prova. Prese da Pagliaccio la pistola, — ma nessuno
osservò che in quel punto la mano di Pagliaccio tremava, — e impostatisi
come occorreva, egli lo spettatore e il saltimbanco, il primo abbassò
l'arma all'altezza del petto di quest'ultimo e fece fuoco. Il
saltimbanco gettò un grido, la sua faccia si contrasse e di colpo
precipitò lungo e disteso per terra. La palla gli aveva attraversato il
cuore. Una voce sola d'orrore s'alzò da tutto il pubblico, alcune donne
svennero, successe un tumulto indescrivibile. Zoe guardava tutto stupita
di dietro la tenda ove si riparavano per vestirsi, quando Pagliaccio le
fu accosto come caduto dal cielo.
— Ho vendicato me, te e le infelici che quell'infame ha assassinato.
Diss'egli con voce sorda. Vuoi tu venir meco? Io per te affronterò ogni
cosa.
La fanciulla si tirò indietro spaventata.
— No, no: diss'ella.
Pagliaccio la prese violentemente tra le braccia, la serrò con passione
convulsa al suo seno, le stampò sulle labbra un bacio che ardeva, poi
lasciatala libera, quasi respingendola da sè; fuggi dalla parte
posteriore del baraccone. Zoe mai più non lo vide, nè mai più intese
novella di lui.
Alla morte del saltimbanco, nella piccola compagnia ridotta alla donna
ed alle due giovinette, successe la maggiore miseria che avessero ancora
provato mai. I guadagni che si facevano ora, sulle pubbliche piazze dove
erano tornate a dare spettacolo, dopo vendute le cose migliori; que'
guadagni erano sì pochi che appena se ne avevano il pane da sostentarsi.
L'umore della donna non avea ragione di abbonirsi e i mali trattamenti
fioccavano sulle povere fanciulle rimaste alla discrezione della sua
anima crudele e scellerata.
Zoe meditava sottrarsi ad ogni modo a quella vita d'inferno, quando la
fortuna volle aiutarla, porgendogliene il mezzo. Il direttore d'una
compagnia di cavallerizzi, vistala un giorno a fare i suoi esercizi
sulla piazza, comprese che quella avrebbe facilmente potuto diventare
una eccellente artista per la sua compagnia e fu dalla donnaccia, cui
credeva madre della giovinetta, a domandargliela. La megera, che aveva
soltanto più quelle due povere creature onde guadagnarsi il pane,
rifiutò con male parole; ma Zoe, quando seppe che la compagnia equestre
stava per partire da quella città, scappò di casa, e recatasi al
direttore della medesima, gli disse:
— Son qua. Pigliatemi se volete e vi seguirò sino in capo al mondo.
Due anni dopo Zoe, battezzata col nomignolo di _Leggera_, faceva
l'ammirazione di tutti i frequentatori di questa razza di spettacoli, e
vedeva ai suoi piedi gli omaggi e le offerte più o meno spropositate
d'un nugolo di libertini giovani e vecchi. Scaltrita come vi ho detto
ch'ella era, la ragazza seppe scegliere assai bene i suoi adoratori. Le
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