La plebe, parte I - 08

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— Una portinaia! Aveva egli detto fra sè. Buono! Gli è il fatto mio.
E picchiando discretamente nell'uscio che vide allato al finestrino,
domandò con una voce insinuante, tutto gentilezza:
— Si può?
— Avanti: rispose la portinaia alzando il naso dalla sua calza.
E Barnaba sgusciò dentro tutto umile e in sembianza peritoso. Verremo
poi ad udire che discorsi avess'egli colla portinaia; per ora vi piaccia
seguitare Maurilio che più triste in volto di quella notte nevosa va su
per le scale sino al quarto ed ultimo ripiano.
Colà c'erano due usci. A quello in prospetto della scala era attaccata
con quattro bullette una polizza, su cui stava scritto in mezzo a
girigori a colori: ANTONIO VANARDI _pittore_; l'uscio a sinistra di
quello era socchiuso ed una riga di luce ne usciva ad allungarsi per lo
spazzo di quadrelli, facendo impallidire al confronto l'umile lanternino
appeso sopra la scala, il quale misurava una scarsa luce a chi la
salisse fin colassù.
Maurilio sospinse quest'ultimo uscio ed entrò.
Una stanza piuttosto grande: sulle pareti tappezzeria da poco prezzo a
fiorami bianchi su fondo bigio scuro; appiccatevi su ai quattro lati,
due per parte, delle litografie incorniciate di legno nero, che
rappresentavano il trasporto delle ceneri di Napoleone; un camino e
sopra la pietra di sporto un busto di Dante in gesso, ed al di qua ed al
di là due altre figurine di gesso, l'una Gianni che ride, l'altra Gianni
che piange; presso al camino, appese al muro a chiodi e funicelle, una
dozzina di pipe d'ogni dimensione, forma, materia e colore, e inoltre
più saccoccie da tener tabacco; un paravento separava un angolo della
stanza nascondendo dietro sè i misteri d'un letto; in tondo presso alla
finestra, da una parte una scrivania, dall'altra una scancia con suvvi
pochi libri, tutti in disordine; vicino a questa scancia un uscio
metteva in altre stanze. Nel mezzo della camera una gran tavola e
sopravi una lampada con coprilume. Nel camino ardeva un vivissimo fuoco,
il quale più che non facesse la lampada mandava un brillante chiarore
per tutta la stanza. Seduti presso la tavola stavano tre giovani, i
quali all'entrar di Maurilio si volsero vivamente e lo salutarono con
molta cordialità.
Questi tre giovani erano gli amici di Francesco Benda e di Maurilio. A
quest'ultimo da due anni tenevano luogo di famiglia ed erano come
fratelli.
Il meno giovane, che era presso a compire i sei lustri, aveva nome
Romualdo. Viveva modestamente d'un piccolo patrimonio lasciatogli dal
padre, ch'egli con alcune follie di gioventù aveva alquanto sminuito, ma
che bastava pur tuttavia ai gusti rimessi che aveva acquistati colla
disillusione nelle cose della vita. Aiutava uno degli amici (il quale
stava appunto in quel momento seduto alla sua destra), in qualche lavoro
letterario, onde questi cercava alcuno stentato guadagno.
Quest'amico, per nome Giovanni Selva, era un bello, robusto ed aitante
giovane, bruno di carnagione, d'occhi, di capelli, alto di persona, di
atletiche membra, di franco, gaio e simpatico aspetto. Come Romualdo e
come Francesco Benda, che abbiamo lasciato al ballo dell'_Accademia
Filarmonica_, era avvocato, e tutti tre s'erano conosciuti e fatti amici
intrinseci all'Università, benchè Romualdo fosse di alcuni anni più
attempato e quindi più innanzi negli studi.
Giovanni Selva apparteneva ad un'agiata famiglia borghese, ma se n'era e
viveva separato per dissensioni profonde colla madre, vecchia bigotta
tutta in mano d'un intrigante di confessore, la quale per far guadagnare
al figliuolo la vita del paradiso si era impuntata a fargli
intollerabile quella della terra.
Messo fuor di casa dall'influenza d'un cattivo prete e d'un tristo
fratello, senza sovvenzione alcuna, Giovanni s'era trovato nel caso di
dovere trar profitto dal suo lavoro personale. Avea dapprima voluto
provare il mestiere dell'avvocato: ma dalle tasche polverose degli atti
di lite non aveva tardato ad allontanarlo la faccia arcigna della noia.
Allora s'era abbandonato all'aggradevole, ma poco fruttuosa occupazione
della poesia e delle lettere.
— Che vuoi tu? (Quando s'incontrarono, disse a Romualdo, Giovanni con
quel suo piglio scherzoso e vivace che era una delle sue maggiori
attrattive.) Mia madre ed io non c'intendevamo. Era un concerto di
strumenti discordi; ho pensato meglio di romperlo per amore
dell'armonia... domestica. Ho lasciato le soglie materne consolate dalla
santità di mio fratello teologo, e mi sono ridotto sul monte Aventino.
Tu sei solo ed io pure. Andiamo insieme. Uniamoci contro il nemico
comune, che sono le difficoltà della vita, troviamoci insieme la nostra
strada; andremo per essa a braccia intrecciate, lavorando di compagnia,
da buoni fratelli, al conquisto dell'avvenire.
Un terzo dei loro amici, ed era appunto quello che stava con essi quella
tal sera di cui vi narro, aveva preso moglie, teneva in affitto un
quartiere, di cui poteva cedere la maggior parte ai due compagni, e
deliberarono vivere tutti insieme che sarebbe un gusto ed una economia.
Questo terzo amico si chiamava Antonio Vanardi e faceva il pittore.
Ancor egli era un profugo della famiglia. Possedeva uno zio ricco e
droghiere nel quale si era tutta concentrata l'autorità domestica verso
di lui. Lo zio aveva pensato dapprima, per ambizione, fare di Antonio un
avvocato come tanti altri; e mandandolo a quest'uopo all'Università gli
aveva dato occasione di stringere amicizia con Romualdo, con Giovanni
Selva e con Francesco Benda; ma il buon Antonio, per quanta buona
volontà ci mettesse, non era riuscito mai di farsi entrare in capo un
bricciolo di _Diritto romano_; onde battuto tre volte di seguito alla
prova degli esami, avea dovuto rinunziare alla toga dottorale con gran
dispetto e disappunto del bravo zio droghiere.
Non potendo farne un Cicerone, il buon zio sperò almeno che Antonio
diventerebbe un valente venditore di droghe e _robe vive_. Niente
affatto: quel pazzerello s'era cacciato in testa di voler essere artista
e di fare il pittore. Il nipote era testardo e lo zio più testardo
ancora. Il primo fu scacciato di casa; ed egli corse allegramente a
riparare in una soffitta colla tavolozza e coi pennelli. Forse la
collera dello zio non avrebbe tardato a placarsi, se quel benedetto
figliuolo non l'avesse rinfocolata con un'altra ed a senno dello zio
assai peggiore pazzia: quella di sposare una povera fanciulla, che non
aveva un soldo di dote e lavorava colle sue sante dita per vivere. Il
droghiere, al colmo dello sdegno, aveva giurato che non avrebbe più
perdonato ad Antonio, che non l'avrebbe più voluto veder mai, e finora
aveva mantenuto il suo giuramento.
Francesco Benda, come ho già detto, non ostante il suo modo signorile di
vita, non aveva scemato d'un punto l'amicizia che lo congiungeva a
questi tre compagni, e veniva di spesso a visitarli.
Così vivevano essi, la moglie di Vanardi, che si chiamava Rosa, una
buona creatura tutto ciarla e tutto cuore, facendo da donna di casa per
tutti; quando un mattino Romualdo, entrato di buon'ora nella stanza di
Selva, che non avea visto tornare la sera innanzi, lo trovò seduto al
capezzale del proprio letto, sostenendo amorosamente colle mani la testa
abbandonata d'un giacente a volto sparuto, il cui sonno l'irrequietudine
soltanto distingueva dall'apparenza della morte.
Romualdo stupito fu per muovere un'interrogazione, e Giovanni fattogli
cenno tacesse, depose con attenzione sovra i cuscini il capo ardente
dell'addormentato e disse sotto voce:
— Lo riconosci?
Romualdo rispose col capo di no.
— Egli è quel giovane che venne due giorni sono a domandarci lavoro, e
che noi mandammo a quella terra.
Quindi, tratto l'amico nell'altra stanza per potere più liberamente
discorrere, soggiunse:
«— Un poveretto che ho salvo dal suicidio. Ieri sera mi sono fermato un
po' più tardi in casa la Adelina; e ciò ha fruttato a me una buona
azione, a costui la vita. Egli era là sul ponte di Po, che fissava lo
sfilar dell'acqua sotto gli archi con quell'occhio che l'affamato un
tozzo di pane. Lo vidi tra l'ombre spiccarsi per un salto, non poterlo,
ricadere a terra. Accorsi: era svenuto. Lo riconobbi tosto e sentii
quasi un rimorso del non averlo potuto soccorrere quando se ne venne qui
elemosinando pudicamente lavoro. Che cosa fare? Tutte le botteghe erano
chiuse, e non passava un'anima per colà. Me lo presi in braccio e venni
più affrettatamente che potei verso la più vicina spezieria, deliberato
a fracassare anche la porta per entrarci. Egli tornò in sè. Volle essere
deposto in terra e camminare. Ma nol poteva, ed io dovetti sorreggerlo.
Mi disse, quasi in delirio, che non aveva famiglia, non tetto, non pane,
non più coraggio: lo lasciassi morire. — Ed abbandonato sarebbe morto
senza fallo. La farmacia non mi venne aperta per quanto chiasso facessi;
ma si apri il fondaco d'un liquorista, ed io gli feci bere un
bicchierino di rhum. Questo gli diede forza, ma gli salì con impeto al
cervello. Uscimmo, ed io lo accompagnava sostenendolo, e non sapevo
dove. Ei si mise a parlare. Furono strani discorsi i suoi, in cui c'era
un po' di tutto: scienza e poesia, erudizione e mattane fantastiche,
ingegno e pazzia, un farnetico d'infermo, un vaneggiamento della febbre,
un racconto straordinario di Hoffmann. Ma in quella confusione di cose
balenava a vivissimi sprazzi il genio. Stupito, commosso, talvolta
rapito d'entusiasmo io non credeva a me stesso. Oh! come ha parlato
questo demonio!..... E poi ha uno sguardo in que' suoi occhi verzigni
che incanta; una testa che non è d'essere volgare; una fronte tanto
vasta da posarvisi comodamente tutto un mondo di pensieri.
«Ho di subito determinato associarlo al nostro destino, e gli ho
proposto di esserci fratello. Tacque un istante, tremò di tutte le
membra e poi disse con accento da scendere nell'anima:
«— Dio v'ascolti!
«Venne meco e qui il suo male sovraccogliendolo di nuovo, dovetti io
stesso spogliarlo e metterlo a letto. Tutta la notte delirò con parole
tronche, inintelligibili. Ora corro per un medico, lo faccio guarire, e
lo avremo nuova recluta nella nostra piccola schiera. Egli mi ha detto
ad un punto mostrandomi questo suo piccolo involto:
— Qui, è tutto ciò ch'io posseggo; ma qui (e si toccava la fronte), qui
sta la mia ricchezza.
«Lo ha detto con tale accento di convinzione e di verità che non ne ho
riso, te lo giuro. Se non avesse una così bella testa direi che gli è un
avventuriere; se non m'avesse incantato colle sue parole, avrei sentito
compassione della sua miseria, ma non l'avrei amato così ad un tratto.
Lì dentro c'è una grand'anima. Quando l'udrai, l'amerai anche tu.»
In quel piccolo involto che il povero giovane aveva seco non si
contenevano che pochi libri: Dante — Orazio — Virgilio — Macchiavelli —
La Scienza nuova del Vico — il Trattato di economia politica di G. B.
Say, — ed un manoscritto tutto spiegazzato ed a strappi, su cui stava
scritto a grossi caratteri: — FARRAGINE.
Romualdo diede la sua approvazione a Selva con una stretta di mano;
gliela diede eziandio Vanardi; e stettero aspettando con ansia lo
svegliarsi del nuovo venuto.
Ed ecco che dalla stanza di Selva un grido richiama la loro attenzione.
Ci corrono e trovano lo sconosciuto che, levatosi a sedere sul letto,
getta le magre gambe fuori delle coltri per torsi di là, infuocato nelle
guancie, gli occhi orribilmente fuor del punto, le mani agitantisi in
moto convulso.
Giovanni fu in un salto allato al giovane e lo trattenne. Il delirante
gli si abbrancò alle braccia e glie le serrò da fargliene sembrare le
sue mani tanaglie di ferro. Le carni gli scottavano.
— Che avete? che volete fare? Gli domandò Selva; e l'altro, fissandogli
negli occhi i suoi tutti smarriti, con voce affannosa, a balzi e
vibrata, gli disse:
— Trista cosa è la vita! Un'empia lotta, che vince eterna la sventura.
Ai primi passi tu se' di questa via d'affanni, e ti par che sorrida
all'uom la terra felicemente, e duol supremo estimi il mister della
morte. Oh folle! oh folle! Io spesso, il credi, ad invidiar mi trassi la
sepolcral de' morti ignota pace; e i dolor della creta maledissi, che
s'assuperba nel chiamarsi viva.
— Misericordia! Esclamò Romualdo, giungendo le mani, e' parla in una
specie di versi. È matto!
— L'ho detto io che era un fratello: disse Giovanni. È poeta.
Poi, facendolo ricoricare a forza, disse al delirante:
— State quieto; e se avete bisogno di qualche cosa, ditecelo.
— Pace! Ripigliava l'altro. Pace! Pensi tu che l'abbiano da godere i
morti?... Se tutto di noi va in cenere, bene! Un buffo di vento che
spegne una candela, e buona sera. Se lo spirito non muore, come avrà
pace? Come, perchè spogliatosi di questi ceppi di carne, sarà egli
giunto di botto alla fine dei suoi travagli?..... Il rimedio sarebbe
troppo facile..... Non sai? Io qui dentro ci ho un tumulto che è peggio
d'ogni battaglia... Ci bollono tante cose! Tante facoltà che lottano,
tanti pensieri che si cozzano, tante immensità che non furono mai dette,
perchè non si possono dire. E tutto questo avrà da finire senza
conclusione colla poca vita della mia materia?... Guardate! se ne
dovrebbe piangere lagrime di sangue. L'anima continuerà a vivere e
tramenarsi di dolore in dolore, di dubbio in dubbio, di morte in morte,
_donec longa dies, perfecto temporis orbe, concretam exemit labem,
purumque reliquit ætherium sensum atque aurei simplicis ignem_. Lo ha
detto con indovinamento di poeta e con sentimento di cristiano il pagano
Virgilio.
I tre amici che tenevano il delirante alle braccia si guardarono
spaventati da quel latino.
— Io ho qui intorno al fronte un cerchio di ferro arroventato che m'arde
e mi costringe in questa poca sfera lo spirito immortale..... Oh! se
potessi allargare il mio cranio!... Se non fosse di questo cerchio, il
mio spirito ha penne tali da pervolare tutto l'infinito degli spazi, di
mondo in mondo, di sole in sole, di plaga in plaga di questo gran
circolo della creazione che ha il centro dapertutto e la circonferenza
in nessun luogo... sino ad andar posare il capo sulle ginocchia di Dio!
Questo cerchio fatale che mi stringe la fronte, lo sapete? gli è il
Zodiaco. I suoi segni mi danzano intorno un trescone d'inferno..... Li
sento che mi cantano: — «Tu se' schiavo qui, tu se' condannato alla
nostra carcere..... va là, va là che hai da gingillarti per un pezzo in
una burlesca contraddanza fra il cancro e lo scorpione!» Pazienza! Fate
fiammare la vaporiera. Io corro il mio regno su d'una via ferrata fatta
sull'etere cosmico. Voglio visitare la Vergine che è l'innocenza, e la
Libbra che è la giustizia; ma la seconda fu trovata coi pesi falsi, e la
prima s'è acconciata a stare in via de' Pelliciai... Il mio regno! È
quello del pensiero; quello dove si gettano i germi del vero, nasce il
sofisma e si raccoglie la confusione... Inchinatemi. Io sono l'ingegno
dell'umanità dagherotipato sulla lastra d'un uomo. Datemi la penna. Essa
è il mio scettro; in mia mano avrà ad essere una spada d'Alessandro da
troncare l'eterno nodo gordiano dell'astruso problema che è la società
all'uomo, che è l'uomo a se stesso.
Selva affissandosi nella faccia contratta del vaneggiante, disse:
— Poverino! Qui c'è uno squilibrio delle forze intellettuali colle
fisiche.
— In altri termini, soggiunse Romualdo, gli è pazzo per davvero.
— Non tardiamo a domandare un medico: disse Vanardi; e la sua
osservazione fu trovata la più giusta.
Il medico, venuto sollecitamente, pronunziò:
— È una _famosa_ febbre cerebrale, e bisogna in fretta in fretta
salassare alla brava.
Rosa, la moglie del pittore, da quella buona donna che era, si piantò al
capezzale del malato, e gli fece un'assistenza da suora di carità.
Francesco Benda, senza pur dire una parola agli amici, provvide del suo
ad ogni spesa. Il giovane fu salvo per allora; ma il medico, dando
siffatta assicurazione a Giovanni Selva che ne lo interrogava con molto
interesse, come quegli che aveva posta una subitamente profonda
affezione nello sconosciuto; il medico soggiungeva:
— È salvo per ora; ma il germe del male non è distrutto. Quello è un
organismo che porta seco un elemento potente di sua distruzione, il
quale alla prima circostanza opportuna può scoppiare di nuovo ed
accopparlo. Deve aver sofferto troppo.
Maurilio (poichè desso era il giovane raccolto da Selva), salvato di
quella guisa dalla morte per opera di Giovanni prima, di tutti gli altri
di poi, circondato d'ogni amorosa cura, entrò in quell'amichevole
consorzio, ne divenne anzi parte essenziale, ne fu amato come si ama una
buon'opera nostra, ed amò come glie ne faceva obbligo la riconoscenza
che era il solo ripago ch'egli per allora di tanto bene fattogli potesse
dare.
Quand'egli fu guarito del tutto, con una semplicità di nobile orgoglio,
disse agli amici:
— Ora aiutatemi a trovar lavoro.
Selva gli propose di collaborare con lui nelle sue opere letterarie;
Maurilio sorrise un po' amaramente.
— Io vorrei, diss'egli, un lavoro che fruttasse il pane; e la nostra
letteratura del giorno d'oggi non è tale.
Aveva una bella calligrafia. Si fece scrivano. Ebbe la fortuna di
conoscere un causidico che gli diede atti di lite da copiare. La sua
sollecitudine nel lavoro e la nitidezza della sua scrittura valsero a
fargliene avere di molto di questa bisogna; e fra il copiare e il tener
le ragioni di qualche mercatante, dandoci dentro al lavoro giorno e
notte, era giunto a guadagnarsi dalle ottanta alle cento lire al mese.
Risanato, Maurilio non era mai più venuto in propositi che somigliassero
a quei suoi farnetichi del primo giorno; ed ogni qualvolta Selva aveva
voluto metterlo in siffatti discorsi, egli o s'era allontanato, od aveva
pregato lo lasciasse tranquillo.
Parlava di rado; talvolta calava a sorridere e barzellettare; era buono,
affettuoso, gentile il più spesso; ma a tratti, senza un visibile
perchè, si faceva aspro, triste e scontroso. Allora la sua taciturnità
s'accresceva, come pure la scarna pallidezza delle sue guancie, stava in
sè, solo il più che potesse, presso che l'intiera notte vegliava
passeggiando, quasi non mangiava, e si dava per disperato all'opera
manuale del copiare. Sulle prime gli amici avevano cercato svagarlo e
rompergli quegl'insulti splenetici di indefinita, profonda melanconia,
ma poi, visto che gli era peggio, lo compativano, tolleravano, e
vedendolo soffrire, soffrivano ancor essi.
Quando l'avevan visto, oppresso da troppo lavoro, starne le tante ore
col petto incurvato al tavolino, in danno della sua salute, ne l'avevan
voluto dissuadere, ma invano: gli avevano offerto con insistenza il loro
aiuto, ed invano eziandio.
— Lasciatemi fare: diceva egli. Ne ho bisogno. La mano si affatica, ma
la testa riposa. Se fossi stato robusto da tanto, avrei preso volentieri
in mano la stiva dell'aratro, e sarei stato più utile al mondo.
Selva lo rimproverava alcune volte di che, con tanto ingegno quanto era
il suo, nulla facesse, nulla imprendesse, nulla tentasse da recar fama
al suo nome e giovamento al mondo.
All'udir menzione della fama lo strano giovane sorrideva
compassionevolmente e recitava i versi di Dante: «Non è il mondan rumore
altro che un fiato, ecc.»
— Che cosa cale a me della fama? Il mio nome è _nulla_, voglio essere
tale. Non è un nome degno di risuonare nei secoli. Giovamento al mondo?
quello sì lo vorrei. Ma se niente opero gli è perchè niente mi si
presenta ch'io possa fare utilmente. Intanto penso.
Ma da qualche tempo l'occasione pareva venuta di poter fare alcuna cosa.
Un'opera lentamente preparata era sul punto di vivamente intraprendersi
con infinito ardore e colle più lusinghiere speranze. Gli amici tutti di
Maurilio si erano ad essa consecrati col più vivo trasporto dell'anima;
ed ancor esso vi si era accinto, ma con un certo maggior riserbo che non
era freddezza ma quasi una preoccupazione di quesito diverso e forse
anco superiore.
Quale fosse quest'opera lo vedremo tosto.
Entriamo intanto nella stanza che ho detto, la quale era appunto quella
abitata da Maurilio, e vediamo insieme i quattro amici raccolti.


CAPITOLO XII.

Maurilio rispose appena al saluto degli amici, gettò a casaccio sopra un
attaccapanni il suo mantello fradicio e il suo cappello coperto di neve,
e s'accostò al fuoco di cui guardava la fiamma vivace con una specie di
desìo e d'amore. Senza profferir parola staccò dalla parete una pipa, la
caricò di tabacco, l'accese con un ramoscello di legna ardente che tolse
dal fuoco, sedette presso presso al camino, pose i suoi piedi bagnati
nella calda cenere ed appoggiando i gomiti alle ginocchia, la faccia
alle mani, stette lì, avvolgendosi nelle nubi di fumo della sua pipa,
fissando lo sguardo nelle capricciose oscillazioni della fiamma
crepitante.
Romualdo, Selva e Vanardi parevano ancor'essi sopra pensiero. Una certa
aspettazione inquieta si dipingeva nelle loro franche ed aperte
sembianze. Non parlavano, non lavoravano, non leggevano. La loro
allegria naturale scorgevasi esser trattenuta e doma da qualche
preoccupazione più che grave.
Dopo un poco Giovanni Selva si alzò e venne presso al camino ad
accendere ancor egli il suo sigaro che gli si era spento in bocca.
Si chinò verso il fuoco per raccattar colle molle un pezzetto di brace
accesa, e guardò di sottecchi la faccia scura di Maurilio, che si
arrostiva immobile al calore di quella vampa.
— Tu non hai visto Mario Tiburzio? Domandò egli a mezza voce.
Il nome pronunziato da Selva, parve un talismano che rompesse un
incanto. Maurilio si scosse, gli altri due giovani si levarono e vennero
ancor essi vicino al fuoco.
— No: rispose Maurilio, togliendosi alla sua meditazione e volgendosi ai
compagni. Credevo anzi di trovarlo già con voi.
— È veramente in ritardo: disse Romualdo: e ciò non è punto nelle sue
abitudini, quindi non è molto rassicurante. Tanto più che per questa
sera ci aveva annunziato delle comunicazioni e delle novelle
importantissime.
— L'altro dì infatti: aggiunse con mal celata trepidazione Vanardi, che
era il più timoroso fra i quattro: egli ci disse che parevagli d'essere
sorvegliato. Purchè non gli sia capitato malanno? Potrebbero averlo
scoperto, preso, e allora.....
— Via, via: interruppe Selva: non isgomentiamoci così facilmente. Nella
strada in cui siamo entrati conviene avere fermezza, risoluzione e
coraggio, e da una parte esser pronti al peggior male, dall'altra
confidare nel bene.
— Tu hai ragione: rispose Vanardi; ma però non sei padre. Io sento
sempre negli orecchi i pianti de' miei due bimbi che mi cantano
l'antifona, che se il governo mi manda a villeggiare a Fenestrelle, essi
non avranno di meglio che crepare di fame.
— Fenestrelle! Esclamò Giovanni ridendo, ma forse non con tutta
sincerità. Tu ci credi? Quella è la befana con cui il nostro
paternissimo regime fa paura a quel fanciullone del popolo. Va là che
non avremo la fortuna d'esser fatti martiri a sì buon mercato. La nostra
polizia non capisce nulla: l'insolente assolutismo che ci opprime, è,
senza saperlo, il colosso dai piedi di creta. Crede esser forte e posa
sopra una base che un buffo di vento può sovvertire. Quando venga il
giorno che stiamo preparando, l'uragano popolare levatosi al santo grido
di libertà, spazzerà via la tirannia nostrana e le baionette straniere
che la sorreggono e le danno da sole la forza.
Maurilio volse la sua faccia intelligente, in cui era una lieve
espressione d'ironia, verso Giovanni Selva, e gli disse:
— Queste sono belle frasi, da poeta, qual tu sei, ma non tolgono che
Antonio abbia ragione. Le frasi rettoriche hanno inebriata molte volte
la gioventù ed anche le masse popolari; ma non hanno mai salvato una
rivoluzione. Non chiudiamo gli occhi ai pericoli dissimulandoci le
difficoltà, secondo me, quasi insormontabili dell'impresa. I governi che
ci opprimono sono più forti di quanto il nostro desiderio vorrebbe
persuaderci e le nostre declamazioni tentano provare. Sono forti in
primo luogo, perchè sono; ed ogni ordinamento che esiste, si afforza per
le migliaia di interessi cui soddisfa, che sono come altrettante radici
che getta ad abbarbicarsi nella massa sociale. Sono forti perchè
effettuano un'idea che sta profonda e potente — sia merito o demerito —
nel volgo: l'idea monarchica. Sono forti, perchè, come dicesti tu
Giovanni, stanno a rincalzo dietro di loro le baionette straniere, che
non sono mica da aversi in non cale. Contro tutte queste forze noi non
ne abbiamo altra che quella d'un'idea, la quale certo è potentissima, ma
sull'anima soltanto di coloro che possono comprenderla. Ora il popolo
italiano è egli maturo per ciò? E badate che a portar giudizio su
codesta quistione non dovete soltanto gettare il vostro sguardo su voi e
sui pari vostri, ma li dovete abbassare nei ranghi inferiori, dove una
massa di gente ancora affatto cieca di mente costituisce la maggioranza,
lavora e non pensa. Questa maggioranza sia inerte, peggio ci sia
avversa, e noi patrioti a fronte dei governi saremo mille volte più
deboli. Queste cose ve le dissi fino da principio e le ripetei a
Vanardi, perchè badasse ai casi suoi. Io, tu Romualdo e tu Giovanni
siamo soli, e non portiamo con noi la sorte di altre esistenze; libero a
noi, anzi doveroso l'avventurarsi in questi tentativi che hanno pure un
merito ed un benefizio: quello di mantener viva l'idea e di legare
traverso le età per una tradizione di sacrifizi la catena dei cultori
d'un santo principio che un dì, certo, avrà pur da trionfare; e poi è
opportuno, è buono che in una società si trovino alcuni generosi che si
consacrino alla follia dell'eroismo. Ciò serve di sale a difendere alcun
poco il corpo d'una nazione caduta dalla corruzione che l'invade. Amo ed
ammiro Mario Tiburzio, perchè è il tipo di codesti generosi; e lo seguo
senza riluttanza ancorchè non fiducioso dei suoi mezzi. Il patibolo con
lui, mi parrebbe davvero l'aureola del martirio. Ma Antonio non può
regalarsi questa gloria, senza offendere altri suoi doveri. La famiglia
per lui deve stare innanzi alla patria; e non deve posporre il bene
certo di quella ad un bene incertissimo di questa. Tu, Antonio, non hai
miglior partito da prendere che abbandonarci in questa via scabrosa, che
probabilmente trae soltanto al precipizio, e ritrarti sotto la tenda
della tua felicità domestica.
Vanardi si fece rosso in volto come una ciliegia.
— Tu mi consigli una viltà: proruppe egli con impeto; ed io non sono
capace di commetterne. Ho dato il nome e tutto me stesso con voi
all'impresa, e non me ne toglierò per Dio! qualunque cosa abbia ad
avvenire, che colla vostra sconfitta o colla vostra vittoria.
Maurilio tornò a volgersi verso il fuoco ed affondò di nuovo lo sguardo
nelle fiamme.
— Non esageriamo in nulla: disse con molta serietà Romualdo. La cosa non
è sicuramente da pigliarsi a gabbo; ma non è poi così disperata che non
ci resti altro davanti dalla probabilità in fuori d'un inutile
sacrificio. Le condizioni d'Italia voi le sapete al pari di me, e le
relazioni che abbiamo, specialmente pei carteggi di Tiburzio, la
dipingono davvero nello stato d'una mina in cui già sono rammentate le
polveri, e per cui basta una sola scintilla a far succedere lo scoppio.
La scintilla sarà il primo moto popolare che avvenga, sia egli qui in
Piemonte, sia in Lombardia, sia nelle Romagne, sia pur anche a Napoli.
Gli elementi da ciò sono dappertutto. Quando sieno tutte a dovere
ordinate le fila, quando accuratamente organata la impresa, un cenno e
basta.
Maurilio, senza abbandonare la sua positura, scosse la testa, cui
tornava a sorreggere colle sue mani e disse a mezza voce:
— Sì, se fosse possibile far muovere i popoli come le compagnie d'un
reggimento al comando del colonnello nella manovra di piazza d'Armi. Ma
i popoli sono guidati da altre norme e da ben altre leggi, e trama di
congiure, per quanto astutamente combinata, non varrà mai a ridurli a
questa certezza d'esecuzione, su cui i cospiratori fanno i loro calcoli.
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