La plebe, parte I - 19

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«Mi accolse con quel suo sorriso che mi parve ghiacciato; mi fece un
discorso impacciato in cui le parole si affoltavano senza troppo senso e
senza nessun ordine, mentre uno dei suoi occhi guardava la punta delle
sue scarpe e l'altro il luciore degli stivalini di vernicato di
Gian-Luigi. Trovò la maniera di ficcare in tutti i periodi la Madonna, i
Santi, le piaghe di Gesù, il timor di Dio e il gesuita padre Bonaventura
del Carmine, suo confessore.
— Buono! Interruppe Giovanni Selva. Gli è anche il confessore di mia
madre; e conosco che pollo è.
«— Mi disse in sostanza, continuò Maurilio, che, giovane com'ero, col
lavoro e coll'ingegno, avrei potuto arrivare ai favori della fortuna se
avessi saputo guadagnarmi colla religione gli aiuti del Cielo. Prendessi
ad esempio lui; venticinque anni prima egli era venuto a Torino dalle
sue montagne di V... più povero e più solo di quello che fossi in
allora, sapendo appena appena leggere e scrivere e già presso ai 25
anni. Ma egli aveva coraggio, buona voglia di lavorare e il santo timor
di Dio. Egli entrò come servitore — vero servitore, a spazzar camere e
lavar anche i piatti di cucina, e non se ne vergognava, perchè Iddio gli
aveva fatta la grazia di non lasciargli perdere mai la umiltà, — entrò
dunque come servitore nel collegio-convitto tenuto dai PP. Gesuiti al
Carmine, dove tutte le principali famiglie torinesi della nobiltà e
della borghesia facevano educare i loro figliuoli. Era appunto allora il
1815, quando colla ristaurazione in Piemonte dell'antico Principato
Sabaudo, tornavano a regnare, secondo ch'egli diceva, i buoni principii
e la vera religione; ed egli diede prove serie, costanti e solenni ai
suoi superiori di essere il meglio pensante e il più zeloso e fedel
servo della buona causa, onde si cominciò a distinguerlo e ben volergli,
e poichè la Madonna dei sette dolori e quella della Consolata e S. Luigi
Gonzaga di cui era specialmente devoto, lo aiutavano per loro bontà
celeste, più che non fossero i poveri meriti suoi, ebbe campo di avere
al suo zelo sì buona riuscita che quei santi uomini dei PP. Gesuiti lo
elevarono a poco a poco di grado e di uffici, e giunse ad essere il
dispensiere del collegio.
«Sempre aiutandolo Iddio, secondo la sua espressione, e la più severa
economia, era già riuscito a mettersi in disparte un piccolo nucleo di
capitale cui si guardava bene dal lasciare inoperoso, ma faceva senza
riposo lavorare come lavorava instancabilmente egli stesso. I superiori
del collegio, incantati delle sue virtù e della sua abilità, ne
parlavano tanto bene che il marchese di Baldissero, avendo avuto bisogno
d'un intendente, non volle saperne d'altri che di lui, e benchè assai
gli rincrescesse abbandonare i buoni Padri del Carmine, tuttavia dietro
le istanti sollecitazioni del marchese, animato a cedere anche dai
Reverendi i quali contavano fra i primi loro protettori e amici il
marchese medesimo, egli finì per acconsentire.
«Questo marchese di Baldissero non era mica l'attuale padre del
marchesino, ma quello che Nariccia chiamava il vecchio marchese, padre
al capo presente della famiglia ed avolo di quel tracotante insultatore
di Benda. Ah quello era un uomo! esclamava pieno di compunzione e di
ammirazione il sig. Nariccia. Il marchese attuale, soggiungeva egli, è
certo un degno signore pieno di mille meriti; oh non era egli che ne
volesse dire il menomo male; era ben pensante ancor egli, certo, ma il
padre suo!... Che fermezza! che rigore! che testa e che mano d'acciaio
contro i liberali! Che zelo per la buona causa, la religione, la
monarchia legittima, i privilegi della nobiltà! Era un piacerone, per
uomini della stampa di cui Nariccia si vantava di essere, lo aver da
fare con lui.
«Egli era entrato al servizio del marchese nel 1821, quando, dopo il
ridicolo tentativo dei Costituzionali, diceva il buon messer Nariccia,
quel capo duro di Carlo Felice era venuto a metterli alla ragione. Il
figliuolo — l'attuale marchese — aveva in quell'occasione dato qualche
dispiacere al vecchio gentiluomo. Trentenne allora, il padre del
marchesino erasi intromesso in quella schiera che si radunava intorno al
principe di Carignano, nobili con velleità liberali, e benchè non fosse
stato veramente compromesso nella rivoluzione, il partito dei puri lo
guardava con occhio sospettoso. Il padre lo aveva fatto partire per un
viaggio, e quindi lo aveva fatto nominare addetto all'ambasciata in
Ispagna, così che durante quasi tutto il tempo in cui Nariccia fu al
servizio della famiglia, egli era stato assente dal paese.
«Quando poi il vecchio marchese, nel 1825, morì e fu capo della famiglia
l'attuale, Nariccia già da un anno era uscito di quella casa. Iddio
aveva continuato, diceva egli, a favorirlo, e con quel poco di ben di
Dio che aveva potuto raggranellare coi suoi risparmi, s'era posto più
definitivamente in certi traffichi che già aveva intrapresi, e colla
benedizione del Cielo, colla protezione della Beata Vergine e dei Santi
a cui lo legava una particolare divozione, i suoi affari avevano
prosperato. Dunque accogliessi buona speranza anche pel mio avvenire, se
avevo la ferma intenzione di seguitare il suo esempio e di adottare le
sue umili virtù da buon cristiano. Egli, da canto suo, avrebbe fatto di
tutto per tenermi nella buona via del Signore e rendermi degno dei
favori del Cielo.
«— _Amen!_ Disse a questo punto Gian-Luigi, il quale aveva già
sbadigliato più volte durante quel lungo ed indigesto e scomposto
discorso.
«Io mi sentiva invadere l'anima da un freddo morale, che era uguale e
fors'anche conseguenza a quello fisico onde avevo tutte oramai
ingranchite le membra, per lo star fermo in piedi in quel freddo salotto
dove il sig. Nariccia ne aveva accolti. La casa in cui egli abitava ed
abita tuttavia, di sua proprietà, è posta in via **, una delle più
anguste di Torino. Tutto era grigio colà dentro; il color delle pareti,
la vernice delle intelaiature delle porte, il pavimento, il soffitto, il
colore del legno e della stoffa dei mobili, le cortine delle finestre
sopraccariche di polvere, la poca luce che si stacciava traverso ai
vetri sporchi in quella nuvolosa giornata d'inverno. Non c'era pure una
favilla di fuoco, e il camino ornato d'un marmo grigio, con un po' di
cenere rammucchiata nel focolare pareva, invece di calore, com'è suo
ufficio, mandare anzi nella camera un freddo maggiore. Con quella
freddolosità che ci entrava nel corpo per tutti i pori veniva compagna
una mestizia, quasi un abbattimento che ti ammortava ogni vigore
dell'anima. Ascoltai tutta la lunga diceria del mio nuovo padrone a capo
basso; e sentivo una stanchezza, una malavoglia, quasi un'antipatia per
quest'uomo, una impressione sgradevole insomma, che era forse
accresciuta in me dalla debolezza in cui mi trovavo ancora per la
recente malattia.
«Gian-Luigi, che era impaziente di finirla, fece osservare a Nariccia
che io aveva bisogno di due cose: di riposarmi, perchè ero ancora in
convalescenza, di venir vestito un po' convenientemente, perchè portavo
tuttavia gli abiti rozzi e laceri che avevo nel villaggio.
«Nariccia mi guardò alla sfuggita con un occhio, mentre coll'altro
pareva sbirciare Gian-Luigi, e poi mi disse:
«— Vi condurrò nella vostra camera. Vi permetto anche di andare a
letto, se ne avete bisogno... D'ordinario io mi alzo alla mattina alle
cinque — anche d'inverno — e occorrerà che siate in piedi a quell'ora
anche voi, ma pei primi giorni potrete stare in letto a crogiolarvi
anche sino alle sei... Quanto agli abiti, cercherò fra i miei vecchi
panni se qualche cosa potrà adattarvisi, e ve lo manderò dalla Dorotea.
Venite.
«Gian-Luigi si partì, ed io seguii messer Nariccia nella camera che mi
aveva assegnata.
«Era un camerino stretto ed alto, posto verso il cortile, non illuminato
che da un finestruolo così elevato da non poterci arrivare senza una
scala, più nudo, più grigio, più uggioso del salotto che avevamo
lasciato. In un angolo stavano per terra due grandi casse di quelle che
si usano pel trasporto delle mercatanzie e sopravi gettato un
pagliericcio che mi aveva da servire per letto; al disopra di esso
tendeva le braccia, appesa al muro, una gran croce di legno nero; li
presso, da una parte, un vecchio baule di cui la pelle, liberatasi dalle
bullette, si rivolgeva contorta allo insù con volute che avresti detto
rabbiose, dall'altra parte un tavolino che aveva perduto la vernice ed
aveva acquistato una ricca crosta di polvere accumulata, zoppo e
reggentesi a stento contro la parete; compieva il novero di quelle
masserizie una seggiola che perdeva l'impagliatura del suo piano ed
aveva perduto affatto la traversa della sua spalliera.
«Non era a me, avvezzo al fenile di Menico ed uscito allor allora di
prigione e dell'ospedale, che la povertà di quella stanza e di quelle
robe potesse parer soverchia o produrre soltanto alcun effetto; ma pure,
entrando colà dentro, io sentii rinnovarsi e più forte quella specie di
freddo onde avevo provato l'impressione sensibilissima al primo porre il
piede in quella casa. Parvemi che una voce interna mi dicesse che la
vita che avrei dovuto passare colà dentro sarebbe stata la più ingrata
del mondo; feci girare intorno l'occhio quasi atterrito, come per
cercare un mezzo di fuggire, e poichè l'uscio spesso e grossolano di
abete si serrò con fracasso dietro di noi, e il mio sguardo non corse
più che sulle pareti nude e scuramente grigiastre, mi sembrò d'essere
entrato in una nuova carcere.
«— Suvvia, mettetevi a letto, mi disse il mio nuovo padrone,
riposatevi, dormite, e domani stesso comincierete le vostre funzioni.
«Si avviò per uscire, ma quando fu alla porta si fermò per soggiungere:
«— Forse avete bisogno di qualche cosa; or ora che venga Dorotea da
voi, le direte ciò che v'occorre. Qui già non si mangia mai fuori pasto,
ma per voi che siete ancora convalescente, credo bene che vi sarà un po'
di brodo. Intanto dite le vostre orazioni e se aggiungerete un pater e
una ave alla mia intenzione, mi farete piacere. Io da mia parte non vi
dimenticherò nelle mie.
«Strinse le mani come uomo che prega, storse il collo e borbottò fra le
labbra con aria compunta come chi dice una giaculatoria, quindi uscì. Io
stetti un poco li piantato al luogo in cui mi trovavo, senza quasi
sapermi render conto esattamente delle mie condizioni, di quello che
succedeva e di me stesso. Una nuova vita incominciava per me, ciò era
certo. Il passato cadeva irrevocabilmente nel baratro delle cose
distrutte per sempre e che non tornano più. Questo passato ben era stato
abbastanza infelice perchè io non avessi a rimpiangerlo: eppure sentivo
un'esitazione, quasi una paura nell'affacciarmi all'oscurità di quel
futuro che stava per incominciare.
«Mi riscossi sentendo invadermi sempre più le membra da quel freddo
fisico a cui andava compagno un freddo morale che mi veniva avvolgendo
l'anima. Tutto intirizzito mi affrettai a pormi a letto, il quale trovai
ben diverso, quanto a comodità ed agiatezza, da quello che avevo
all'ospedale. Ero inoltre non coperto abbastanza e per quanto
rammontassi addosso a me quei pochi panni mezzo laceri che avevo allor
allora svestito, sentivo tuttavia crescermi lo intirizzimento che mi
faceva battere i denti come a chi è assalito dalla terzana.
«Poco stante entrò una vecchia trascinando le pianelle entro cui teneva
i piedi, burbera d'aspetto, grossa e robusta della persona, con qualche
cosa di virile nelle sembianze, che mi fece il più scontroso effetto del
mondo. Come certe volte si è mai ingiusti nell'apprezzamento fatto
dietro la prima impressione! Per quella creatura brutta e grossolana, io
provai di botto una viva ripugnanza che mi fece sembrare di vedermi
davanti risuscitata la Giovanna, più niquitosa che mai. Ella portava
sopra il suo braccio in un fascio alcune vestimenta, destinatemi da
messer Nariccia.
«— Ebbene, giovinotto, mi diss'ella coll'accento con cui si parla colle
persone che si vogliono strapazzare, di che cosa avete bisogno? Orsù
parlate.
«Io levai timidamente lo sguardo verso quella megera e il suo viso scuro
colle sopracciglia aggrottate mi fece una vera paura. Mi parve che se
domandassi alcuna cosa a quella donna, avrei incorso chi sa qual
pericolo: risposi tremando e di freddo e di suggezione:
«— Non ho bisogno di nulla, non voglio nulla.
«La vecchia Dorotea mi guardò con aria più feroce di prima.
«— Che storie sono queste? Come, non avete bisogno di nulla? Avete
mangiato? Non vedete che avete l'aria d'un pulcino colla pipita? E se
_monsù_ mi ha detto di venirvi a domandare se volete qualche cosa,
bisogna prendere qualche cosa. È già un fatto straordinario che monsù
offra una goccia d'acqua; andate là, che se fate delle cerimonie siete
uno stolido.
«La verità era che io mi sentiva proprio un gran bisogno di ristoro; ma
pure non osavo muovere la menoma domanda. Tacqui non osando pur levare
più lo sguardo sulla faccia per me terribile di quella vecchia
colossale.
«Dorotea stette un poco, gettò sopra il baule le vesti che aveva recate,
poi crollò le spalle con impazienza soggiungendo colla sua voce più
aspra ed ingrata:
«— E tal sia di voi! E così non avrò da pigliarmi altri incomodi, che
se credete ch'io vi avessi da servire anche voi, la sbagliereste di
grosso. Ne ho già di soverchio a servire _monsù_, che non c'era nessun
bisogno che venisse a ficcarsi in casa un terzo che sarà buon da niente
e che mi accrescerà lavoro, alla mia età!..... Eccovi intanto i panni
che _monsù_ vi manda. Li vestirete domani. Oh ci starete proprio bene
dentro, come un bastone in un sacco.
«Mi pareva sempre più di riaver dinanzi viva e tal quale la moglie di
Menico; onde la mia ripugnanza e il mio disagio crescevano sempre più.
«Ad un punto Dorotea s'accorse che battevo i denti.
«— Avete freddo? Mi domandò.
«— Sì, un poco: risposi con voce mozzicata, appena da potersi udire.
«Mi cacciò bruscamente le mani sotto le coltri a soppesarle.
«— Parevami pure che queste coperte dovessero bastare.
«Toccò le mie guancie e le braccia e le mani.
«— Questo babbuino è freddo come una manciata di neve. E' non ha niente
affatto sangue nelle vene. Bel coso che _monsù_ s'è andato a caricare!
Egli ci basirà qui come un pippione da imbeccare tolto troppo presto dal
nido.
«Stette un momentino in silenzio, poi mi disse ruvidamente, colla guisa
che altri avrebbe fatta una minaccia o scaraventata in faccia
un'ingiuria:
«— E vostra madre? Dove l'avete vostra madre?
«Queste parole mi scesero profondo nell'anima come una punta di lama che
mi ferisse. A quell'essere sconosciuto che era stato mia madre pensavo
cotanto e sentivo verso di essa tante e sì forti aspirazioni! Il
rammentarmi ad un tratto in quelle condizioni che non avevo, nè mai
avevo avuto intorno a me una madre, mi fece sentire più doloroso, più
disperante il mio isolamento, così che, senza potermi in nessun modo
frenare, ruppi in un subito pianto.
«Dorotea stette un poco a guardarmi come stupita, poi mi disse collo
stesso accento, senza che la sua voce avesse pure il menomo cenno di
pietà:
«— Che? vostra madre è morta?
«Mi rasciugai le lagrime, soffocai a forza i singhiozzi, e risposi con
più ferma voce che potei:
«— Non la ho mai conosciuta.
«E poi, come sentivo l'emozione vincermi nuovamente, nascosi la faccia
sotto le coltri e mi premetti coi pugni chiusi gli occhi che a forza
volevano piangere. Dopo un poco, non avendo udito più alcun rumore,
alzai la testa, e non vidi più nessuno. Dorotea, forse infastidita di
quelle mie lagrime, avevami lasciato lì, senza tentar pure una parola di
consolazione. Provai quasi un sentimento di sollievo a trovarmi solo; ma
il bisogno di ristoro si faceva sempre più forte, aumentava quel freddo
che m'intirizziva e cominciava a darmi un vero tormento. Eppure
domandare non osavo; avevo rifiutato un minuto prima ciò che mi si era
offerto; ed ancora, se avessi pur domandato, non ero sicuro che alcuno
sarebbe venuto al mio appello.
«Il bisogno divenuto incomportabile era lì lì per farmi superare la mia
timidità e spingermi ad un tentativo di chiamar per aiuto, quando udii
nello andito che conduceva al mio stambugio lo strascico delle pianelle
di Dorotea, e tosto dopo vidi l'uscio aprirsi e quella vecchia con
faccia da megera comparirmi dinanzi più burbera e stizzosa che mai,
tenendo sopra un braccio una coperta e in una mano una scodella fumante.
«Non disse una parola ned io parlai. Io guardava quella benedetta
scodella coll'occhio intentamente desioso d'un affamato. Dorotea
s'avanzò, pose la scodella sul tavolino, e poi di mala grazia mi gettò
addosso la coperta, cui non si diede punto cura di aggiustarmi intorno,
ma lasciò spiegazzata come volle stare; poi ripigliata in mano la
scodella me la pose innanzi a farmi venire alle nari l'odore
riconfortante di un sugoso brodo di carne.
«Presi avidamente la ciotola con ambe le mani che mi tremavano.
«— Grazie! Mormorai osando levare lo sguardo su quella terribile faccia
di donna.
«Ella nè rispose, nè parve tocca in alcun modo dal sentimento di
riconoscenza che pur c'era nell'accento della mia voce. Mi volse le
spalle ed uscì col suo passo lento e pesante, trascinando quelle sue
ciabatte come aveva fatto venendo.
«Quella scodella di buon brodo mi riconfortò tutto; mi ravviluppai
poscia per bene colla coperta stata aggiunta alle mie coltri e tornando
nelle mie membra per ciò un benefico calore, io sentii un certo
benessere invadermi il quale mi condusse senza ritardo un
tranquillissimo sonno.
«E in quello stato incerto di dormiveglia che precede l'addormentarsi mi
apparve annebbiato, ma non più spaventoso il sembiante di Dorotea che
ora mi pareva confondersi con quello della Giovanna, ed ora mi pareva
pigliare una tinta di benignità, facendomi oscillare fra la prima,
istintiva ripugnanza che quella donna mi aveva ispirata, e quel certo
sentimento di gratitudine che quel suo ultimo tratto mi aveva lasciato
nell'animo.
«Il domattina dormivo ancora della grossa, quando una mano venne a
scuotermi per una spalla ed una voce sottile e strillante mi gridò:
«— Ehi là giovinetto! Svegliatevi su! Altro che le sei, sono le sette.
«Mi destai in sussulto. A tutta prima non ebbi coscienza di dove mi
trovassi. La mia stanza era tuttavia oscura ed appena se dall'alto
finestrino discendeva un incerto albore in essa. Mi fregai gli occhi,
guardai intorno, pensai in un attimo al fenile di Menico, alla prigione,
all'ospedale, vidi che non ero in nessuno di questi luoghi, mi ricordai
ad un tratto di ciò che era avvenuto il giorno prima, sorsi a sedere sul
letto e riconobbi nell'uomo che mi aveva svegliato il signor Nariccia.
«— Orsù è più che il tempo di levarsi, soggiunse messer Nariccia. Avete
dormito oltre il bisogno, Tognino.
— Tognino! Esclamò a questo punto Selva, stupito d'udir così chiamato
Maurilio. Avevi tu cambiato di nome?
«— Era stato Nariccia medesimo, rispose Maurilio, a volere che così mi
chiamassi. Appunto, mi sono dimenticato di narrartelo. Gian-Luigi aveva
inventata una storiella sui fatti miei che si prese incarico egli stesso
di narrare a Nariccia per farmene accettare. Io era figliuolo di certi
negozianti che, avendo visto andare a male i loro affari, n'eran morti
di crepacuore, lasciandomi orfano in tenerissima età alle cure d'uno zio
prete, il quale mi aveva preso con sè, allevato ed istrutto in quel modo
di cui non avrei tardato a dargli prova. Che adesso, morto essendo, e
poverissimo ancor egli, lo zio, m'ero trovato affatto solo al mondo e
nella massima miseria, ch'egli, Gian-Luigi, statomi compagno di scuola,
s'interessava vivamente a me e perciò gli premeva vedermi allogato così
bene ecc. ecc.
«Nariccia aveva egli creduto a codesto? Io non so; il fatto è ch'egli
non se ne diede altra briga e forse, perchè io gli servissi all'uopo,
niente gli importava donde venissi e che cosa fossi: soltanto, al dire
di Gian-Luigi, poichè io a quel colloquio tra di loro non fui presente,
soltanto gli dispiacque assai il mio nome di battesimo, e qualunque ne
fosse la ragione, che io mal saprei indovinare, Gian-Luigi mi disse come
all'udire ch'io mi chiamava Maurilio, Nariccia avesse dato in un
trasalto, avesse corrugato la fronte e sclamato con una emozione che
invano avea cercato dissimulare:
«— Si chiama Maurilio?... Che razza di nome!... Ma ci sono dei Maurilii
qui in Piemonte? Non ho mai sentito nessuno del nostro paese che fosse
battezzato così.... Di che paese è egli mai?
«— Di Pinerolo, rispose francamente Gian-Luigi che non si lasciava
punto imbarazzare da nulla al mondo.
«Questa risposta parve acquetarlo.
«— È un nome che non mi piace: riprese egli poi. Un nome che appena è
se ha l'apparenza di esser cristiano. Non è un santo che abbiamo scritto
nel calendario della nostra diocesi. Ditegli che si chiamerà Antonio. È
il mio santo protettore; e sarà bene anche per lui l'essere sotto la sua
protezione.
«Io dunque doveva rassegnarmi a diventar Tognino per quanto tempo sarei
rimasto in casa di messer Nariccia, e benchè mi rincrescesse non poco
abbandonare il mio nome cui posso credere postomi da mia madre medesima,
Gian-Luigi facilmente mi persuase che sarei stato pazzo a rinunciare a
quel posto per sì futile ragione, protestando ch'egli in caso simile si
sarebbe acconciato a lasciarsi chiamare anche Bernardone.
«Per continuare adunque, Nariccia, quella prima mattina mi svegliò come
io ti ho detto, e fattomi levare e vestire in fretta di que' suoi panni,
che secondo l'espressione di Dorotea mi stavano proprio come un sacco ad
un bastone, mi condusse poscia in un suo studiòlo che era mille volte
ancora più triste del melanconico salotto in cui mi aveva accolto il
giorno prima, e del tetro stambugio che mi era dato per istanza da
dormire.
«Figurati una camera più lunga che larga, illuminata da una sola
finestra, la quale, munita d'una grossa inferriata, poi d'una fitta
graticola di ferro lasciava passare a stento la luce traverso i vetri
sporchi tanto da esser ridotti poco meno che opachi. Pareva che quella
benedetta luce si avesse in odio nella casa di messer Nariccia e le si
misurasse a stento il passaggio e si premunisse contro di lei l'accesso
come contro un nemico. Verso la finestra in questo freddo studiòlo senza
camino, nè stufa, eravi una scrivania con sopravi una piccola scancia
divisa in caselle da riporvi delle carte. La scrivania era del tutto
adattata al resto della casa; vecchia, sverniciata, polverosa, il panno
verde tirato sul piano dove scrivere frusto con larghe macchie d'olio e
d'inchiostro, scollato da una parte, ed a chiamarlo verde ancora era un
adularlo, tanto n'era misto di mille tinte sporche il colore. In faccia,
presso l'altra parete, un semplice tavolino. Verso la parte più scura un
cancello di sbarre di ferro con una fitta grata separava dal resto un
angolo della stanza: in questo cancello s'aprivano un usciòlo per
entrarvi ed uno sportello come quello che si trova presso i
cambiamonete, per cui dare e ricevere il denaro, sportello che si
chiudeva con una specie di cateratta che scorreva fra due scanalature da
sottinsù e viceversa. Perchè non si vedesse entro questo cancello per i
fori della grata, dietro di questa era tirata tutt'intorno una cortina
di tela verde. Nessuno penetrava mai in quel sacrario, ma quando lo
sportello ora aperto, chi vi gettasse dentro un'occhiata poteva sorgere
nell'angolo una voluminosa e pesante cassa-forte di ferro, irta di
grosse capocchie di chiodi piantati nelle lastre.
«Dietro la scrivania era un seggiolone frusto, di cuoio spellato, a
spalliera altissima; sopra questa spalliera pendeva appeso al muro un
almanacco, e lì vicino appiccata alla parete per quattro bullette una
tavola di riduzione delle antiche misure, pesi e monete del Piemonte in
monete, pesi e misure decimali. In prospetto a quel seggiolone e quindi
al disopra del tavolino stava attaccato per un chiodo al muro
un'incisione grossolana, grossolanamente colorita della Santa Vergine,
inquadrata in una cornice di legno inverniciato a color naturale. Nel
mezzo della stanza un braciere di ferro a tre piedi conteneva molta
cenere ed un poco di carboncina mezzo spenta.
«Nariccia mi menò innanzi al tavolino sotto il quadro della Vergine e mi
disse:
«— Questo è il luogo in cui lavorerete, in cui lavoreremo insieme,
poichè io starò là (e mi additava la scrivania); e coll'aiuto del
Signore e della Madonna della Consolata, spero che sarà benedetto il
nostro lavoro.
«In quella fredda, oscura stanza, seduto a quel tavolino, passai poco
meno di un anno, quasi incatenato, scrivendo lettere, facendo conti,
compilando discorsi per conto del mio padrone, del quale non tardai
molto a conoscere ed a prendere in disprezzo profondo l'industria
scellerata. Quell'uomo, sotto la sua volgare ipocrisia religiosa, non ha
altro sentimento, altro affetto, altra guida alle sue azioni che l'amor
del guadagno, che la smania di far denaro. Colla sua impostura cerca di
gettar polvere negli occhi alla gente, colla sua prudenza s'industria di
fare il peggio male possibile che gli frutti, senza dar di cozzo nel
Codice penale. Nello scrivere molte delle sue lettere, delle sue
memorie, di cui egli mi dava una traccia confusa perchè le mettessi in
netto, essendo che nè lingua, nè grammatica, nè sintassi egli non sapeva
affatto che si fossero; nello scrivere certe di quelle infamie, la mia
mano fremeva con ripugnanza e l'onestà che era in me si ribellava con
disdegno. Più volte fui lì lì per andar a gettar in volto all'ipocrita
quelle carte che conchiudevano la rovina di un onest'uomo, che stavano
per recar la disperazione in una povera famiglia; ma me ne trattenevano
la soggezione che quell'uomo mi aveva saputo ispirare, il non saper di
poi come avrei potuto guadagnarmi un tozzo di pane quando egli mi avesse
scacciato, e poi ancora un allettamento potente che avevo trovato in
quella dimora.....
— Ah ah! Interruppe Giovanni Selva, sorridendo, una sottana ci
scommetto.
Maurilio arrossò sino sulla fronte e rispose vivamente:
«— No. Di donne colà non c'erano altre che la vecchia Dorotea. Io poi
non aveva che diciasette anni, e ti assicuro che mai ancora il mio
pensiero si era a quest'argomento rivolto. Per una stranezza della mia
natura, in me s'era desto prima lo spirito che il cuore, e mentre quello
s'affannava precocemente in quelle peste ch'io t'ho detto, questo ancora
taceva per l'affatto. Era appunto un vivo allettamento pel mio spirito
quello di cui ti voglio parlare, ed era il seguente.
«Ti ho detto che per giaciglio avevo un pagliericcio gettato sopra certe
grandi casse in quello scuro stanzino che mi era stato assegnato. Un
giorno, rifacendomi il letto, mi venne la curiosità di sapere che cosa
fossevi colà dentro. Il coperchio inchiodato tutt'intorno, si sollevava
un po' da una parte, dove mancava uno dei chiodi. Tirai con tutte le mie
forze insù per allargare quell'apertura, e ci riuscii tanto da poterci
ficcare la mano. Rimasi tutto sorpreso di quel che ci rinvenni, ch'io
difatti non avrei mai immaginato di trovarci. Erano libri. Il primo
volume ch'io ne trassi era un volume dell'Enciclopedia francese del
secolo scorso. Figurati il mio disappunto! A sentire sotto la mia mano
un libro, io che da tanto tempo non avevo più potuto averne neppur uno,
il mio cuore aveva palpitato come all'incontro d'un amico da troppo
lungo non più visto; l'avevo preso con una desiosa sollecitudine, quasi
tremando, e i miei occhi s'erano spuntati, per così dire, contro pagine
scritte in una lingua che ben conoscevo essere la francese, ma non
sapevo leggere nè capire.
«Fui preso da una specie di furore che mi diede la forza di strappar via
tutto quel coperchio, e mi posi a frugare in quella cassa con una
ardenza quasi febbrile. Erano quasi tutti francesi i libri che vi si
contenevano. Libri di storia, di economia politica, di filosofia. Una
sola opera trovai in italiano e su quella mi gettai sto per dire
rabbiosamente. Erano i primi volumi, usciti non era guari, della prima
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