La plebe, parte I - 10

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alla quale invece arrecherete irreparabil danno, rimandandone il trionfo
a chi sa qual più tarda età.
«Secondo lui i tempi vengono sì maturandosi e facendosi propizi ad un
miglior destino per l'Italia, ma ciò, mediante altri mezzi da quelli
della violenza, coi quali non può e non deve combattere il diritto.
Invece che colle congiure e colle rivolte, diss'egli, noi liberali
dovremmo combattere colla esposizione aperta, moderata, legale dei
nostri diritti. Il tempo delle opere fatte nelle tenebre è finito,
afferma D'Azeglio, bisogna congiurare pel bene della patria, pel bene
morale, per qualunque siasi progresso alla chiara luce del sole. A suo
avviso hanno giovato di più all'Italia i libri di Gioberti e di Balbo
(per modestia non disse i suoi) che tutte le cospirazioni e le rivolture
avvenute dal vent'uno in qua. L'esposizione pubblica dei voti, dei
diritti del popolo forma la pubblica opinione, la cui forza nel nostro
secolo è somma, e va ancora ogni giorno crescendo. Nè meno coraggiosa è
l'opera di chi all'aperto proclama la verità che quella di chi affronta
la morte o l'esilio, celatamente lavorando per questa verità medesima.
Che un profondo e radicale rimutamento si venga facendo in Italia, cieco
è chi non veda; ma questo moto affatto nuovo ha da regolarsi con nuovi
mezzi, abbandonati i vieti e dannosi delle congiure. I liberali hanno
poca forza contro i proprii principi e contro lo straniero riuniti. Non
sarebb'egli abile politica ed immenso guadagno dividere questi due
elementi di nostra oppressione ed avere compagni, complici, direi, nella
crociata contro gli stranieri i nostri principi medesimi? Le nostre
forze non ne sarebbero esse centuplicate?
«Qui io l'interruppi, dicendo ciò che vi dicevo poc'anzi: il confidar
ne' principi essere un'utopia più arditamente folle che la nostra di
confidare nei popoli.
«D'Azeglio riprese con calore: — No, Mario, non è assolutamente vero ciò
che dite. Anzi tutto, i principi sono italiani ancor essi oramai.
«Io scossi la testa.
«— Sono nati in Italia, ma hanno il cuore a Vienna od il sangue
spagnuolo.
«— Non tutti, non tutti: riprese egli tornando a mettermi la mano sul
ginocchio. Vi è una dinastia che da otto secoli — donde sia venuta non
importa — da otto secoli ha le sue radici in Italia, e da più di quattro
ebbe per obbiettivo della sua politica l'aspirazione di costituire
l'Italia: chiamatela pure ambizione, un'enorme ambizione, ma grande e
nobilissima. Questa dinastia ha una qualità caratteristica, attinta al
popolo su cui domina da tanto tempo, benevisa quasi sempre, abborrita nè
anche disamata mai: la tenacità dei propositi, e la prudenza, non
disgiunta dall'audacia a tempo opportuno, negli atti. Nello scorrere di
tanto tempo, fra tante sostenute vicende, in mezzo a così profondi
rivolgimenti, ella non ha rinunziato mai al suo scopo finale; si è
fermata, s'è raccolta, ha taciuto, ha dissimulato fors'anche, ma tosto
che il potè, sempre riprese la via verso quella meta, a cui la chiamano
la sua ambizione, il destino, lo svolgimento necessario delle sue
premesse politiche. Voi mi direte che non c'è da fidarsi nell'amor
patrio e nel liberalismo dei principi; ed io pel momento ve lo voglio
anche concedere; ma per casa Savoia, o far l'Italia, od essere soggetta
allo straniero, o collo svolgersi del tempo vedersi fors'anche
schiacciata fra due contendenti e cancellata dalla lista dei regnanti, è
una necessità fatale che le incombe inesorabilmente. Ne volete una
prova? De-Maistre, il gran profeta della reazione, non vedeva altra
sicurezza per la Monarchia Sabauda restaurata, in faccia all'Austria,
che nella formazione in suo vantaggio di un regno solo dell'alta Italia.
E codesto come volete che non lo capisca re Carlo Alberto, in cui gli
umori liberali del vent'uno non possono essere affatto spenti, in cui
l'umiliazione inflittagli dall'Austria per la bocca insolente del
generale Bubna, e il minacciato trono, e l'imposta suggezione devono
aver destato potente — tanto più potente, quanto più contenuto — il
desiderio della vendetta?
«Io sorsi con impeto non potendo frenarmi.
«— Ah! non parlatemi di questo principe: esclamai. Le sue velleità
liberali del ventuno, troppo ha egli ripagate col suo accorrere al campo
austriaco, col Trocadero, colle fucilazioni e colle forche di
Alessandria. Qual fede volete che si nutra pel re che si è stretto in
legame di sangue colla casa austriaca, il cui governo perseguita
accanitamente il pensiero e protegge i Gesuiti?
«D'Azeglio tacque un istante guardandomi commosso, ma senza il menomo
segno di risentimento; poi mi disse con più amorevolezza ancora:
«— Sedete di nuovo, Mario Tiburzio, ed abbiate ancora la pazienza
d'ascoltarmi un poco.
«Feci a suo senno, ed egli ripigliò a parlare. Mi disse che la condotta
di Carlo Alberto era una necessità per conservarsi prima il diritto alla
corona, quest'essa poi. Ma nell'animo di quel re taciturno, chi può
leggere sicuramente e dire i pensieri e i propositi che vi si agitano?
Un giorno — egli ne va persuaso — dovremmo benedire quegli atti che ora
malediciamo, perchè, avendo dato lo scettro del Piemonte a questo re
calunniato, lo avranno posto in grado di compire il riscatto d'Italia.
«— No, no: io proruppi. Codesto non crederò mai. Se cotali generosi
propositi si covano sotto quella fronte coronata, perchè, una volta
stretto in mano lo scettro, non s'è egli gittato francamente col popolo
e non ha fatto suo programma di regno la stupenda lettera che gli
indirizzava Giuseppe Mazzini?
«— Perchè, caro mio, rispose d'Azeglio, altro è far disegni di politica
e di governo a scrittoio colle briglie abbandonate alla fantasia audace
e poetica, altro è trovarsi all'atto pratico, nel cimento delle
contingenze e potendo apprezzare la fattibilità delle cose. Io non
voglio dire che Carlo Alberto, venuto al trono, non avesse potuto
adottare un regime un po' più liberale; ma i pericoli per lui,
sospettato dalla reazione interna e dall'influenza estera, circondato di
stromenti avversi e malfidi che non poteva cambiare senza sovvertire
tutto il regno, i pericoli erano molti e gravi e da atterrire facilmente
qualunque animo più fermo. Gittarsi francamente col popolo, voi dite? Ma
qual popolo? La gran massa ignorante è più facile stromento al
sanfedismo che non altro. L'aristocrazia e la maggior parte
dell'esercito erano per la reazione. La borghesia, poco illuminata ancor
essa, non dava che un lieve contingente di gioventù alle schiere
rivoluzionarie. Dov'era questo popolo che avrebbe potuto sostenerlo?
Formiamolo noi, suscitiamolo noi, questo popolo, col lavoro palese,
aperto, calmo e coraggiosamente tranquillo d'una propaganda nazionale; e
quando Carlo Alberto sarà sicuro di avere in esso una leva contro lo
straniero, rivelerà quei segreti propositi che cova nel suo animo
generoso.
«Io l'interruppi dicendo che la proposta propaganda era impossibile; la
censura dei governi l'avrebbe contesa alla stampa, la polizia sospettosa
e prepotente, e più che altrove in Piemonte, l'avrebbe impedita alla
parola.
«— Tutto si cambia, tutto si va cambiando a questi giorni: ribattè
egli. Se vi dicessi che, fatta colla voluta prudenza, quest'opera
aggradirebbe al re medesimo? Se vi dicessi che qualche patriota, — qui
esitò un momento, e poi soggiunse: — che io stesso parlando con esso
lui, trovai sulle sue labbra le espressioni d'amore all'Italia, di
desiderio, d'indipendenza che potremmo pronunziare noi stessi, io, voi
Tiburzio, rivoluzionario ad ogni costo[3]? Se vi dicessi che per sua
impresa segreta Carlo Alberto ha scritto: ATTENDO LA MIA STELLA; e che
questa stella è il momento in cui potrà snudare la spada per la santa
causa d'Italia? Che io stesso ho letto — letto con questi miei occhi,
Mario — una lettera del re ad un suo confidente, in cui esso dice a
chiare parole che il più bel giorno di sua vita sarà quello in cui potrà
salire a cavallo in compagnia de' suoi figli, mettersi a capo al suo
esercito, e farsi lo Sciamìl dell'Italia?[4]»
[3] Vedi nel volume 2º dei _Miei Ricordi_ di Massimo d'Azeglio
la narrazione dell'abboccamento avvenuto fra lui e Carlo
Alberto.
[4] Questa lettera fu scritta al conte di C.... nell'autunno del
1845.
A queste parole l'impetuoso Giovanni Selva proruppe:
— Oh! se ciò fosse mai vero? Ma tutto il Piemonte sorgerebbe con
entusiasmo dietro il suo principe, e si rovescierebbe addosso ai
Tedeschi. Ed io, io stesso griderei: viva il re!
— Ed io? Corpo di bacco! Esclamò Vanardi il quale, all'idea di poter
essere liberale e patriota d'accordo col governo, sentiva l'animo
rassicurarsi non poco.
— Certo che sì! Soggiunse ancor egli Romualdo. Questa sarebbe pure la
miglior ventura per l'Italia.
Maurilio solo si tacque e non si mosse nemmanco, sempre tenendo il mento
appoggiato alle mani, l'occhio fisso nel crepitar della fiamma.
Tiburzio fece pausa un istante, come per dar tempo allo sfogo di quel
subito nuovo sentimento nei compagni; poi girando attorno su di essi lo
sguardo freddo ed acuto dei suoi occhi neri disse con ispiccato accento:
— Udite la risposta che io gliene diedi, e se vi parrà che in essa meco
non possiate convenire, accusatemi pure d'aver errato respingendo
assolutamente ogni accordo col partito monarchico, ogni fiducia nel
liberalismo principesco. Signore, io gli dissi, quando un uomo ha nel
suo passato i fatti del ventuno — chiamateli pure, con termine il più
mite possibile, un abbandono soltanto; — quando quindici e più anni di
regno assoluto e tirannico in cui si è governato coi poliziotti, col
predominio della sciabola, del nobilume e dei gesuiti, a beneplacito
dello straniero, hanno dato la misura dell'amore d'un principe verso il
suo popolo, non è mercè alcune belle parole buttate là in una
conversazione privata, scritte forse per arte politica in una lettera
che non avrà mai carattere ufficiale di realtà, che quest'uomo e questo
re possa far credere alla sincerità de' suoi sentimenti liberali,
all'ardore del suo patriotismo. A nome di tutti i patrioti italiani che
hanno travagliato e si travagliano per la libertà del loro paese, a nome
di tutto il popolo che ha sofferto e che soffre, io sento il diritto di
chiedere a questo come ad ogni altro principe d'Italia qualche maggiore
e più effettiva guarentigia che questa non sia, per porre fidanza in
esso lui.
«D'Azeglio mi prese per la mano e mi disse vivamente:
«— Ma se questo re vedeste scendere in campo e cimentare la corona e la
vita per la nostra patria, non gli credereste? Non lo seguitereste voi?
«— Sì, risposi, allora sì: ma allora soltanto.
«— Ebbene aspettate: soggiunse egli, e questo bel momento verrà.
«Volle persuadermi ad ammorzar la congiura ch'egli sa ordita e presso
allo scoppio; mi disse che l'esplosione della medesima non avrebbe
ottenuto che di ricacciare indietro dalla strada del partito nazionale
Carlo Alberto e gli altri principi che verso di essa si avviano: che
saremmo immancabilmente oppressi: che era somma virtù anche quella di
saper aspettare.
«— Ma l'Italia, io risposi, ha già di troppo aspettato, e i mali suoi
sono intollerabili. Aspettare è molte volte una virtù, ma sovente ancora
codardia. Noi siamo giunti al punto da meritarci quest'ultima nota in
faccia alla vergognosa tirannia che ci opprime, di fronte alle altre
nazioni che hanno il diritto di disprezzare la nostra ignavia, e la
disprezzano. Noi cadremo? Spero di no perchè la giustizia è dalla nostra
parte, e non sempre essa soccomberà; perchè il popolo abbiam prova
essersi desto finalmente, e volontà di popolo ha la forza della
Provvidenza. Ma fosse pur anche, non pentiti cadremmo ed oso dire non
inutili, perchè ogni martirio radica la fede e la religione d'un'idea;
il cristianesimo si fondò colle successive persecuzioni sanguinose che
furono altrettante sconfitte materiali, ma altrettante morali vittorie;
e l'amor della patria e della libertà è una vera religione ancor esso.
Non inutili cadremmo, perchè in una gente schiava è opportuno, è
necessario, è sacrosanto debito dei forti che di quando in quando il
sacrifizio di alcuni generosi dia esempio di animo maschio ed innalzi il
livello de' caratteri cui la schiavitù e le codardie della servilità
accasciano e corrompono. Si versi pure il nostro sangue di vinti: esso
concorrerà a fecondare con quello dei martiri che ci precedettero, il
sacro germe della libertà. Per noi, per me, la sorte è tratta, e bisogna
che il destino si compia.»
Mario Tiburzio a queste parole sorse in piedi, levò risolutamente la sua
bella testa e scosse le chiome con nobil mossa onde si accrebbe ancora
l'aspetto di forza e di coraggio che improntava la sua fisionomia, tese
la mano verso Romualdo, Selva e Vanardi, che s'erano alzati ancor essi,
e soggiunse con accento di cui impossibile dire l'efficacia ed il
fascino:
— E la risposta fatta all'Azeglio vi dica la mia decisione suprema.
Fuori i ferri e via le guaine Viva Italia e libertà! E combattiamo per
esse fino all'ultima stilla di sangue.
— Viva Italia! Gridò Selva scosso, trascinato dall'influsso magnetico,
direi quasi, di Mario Tiburzio. La vostra decisione è la mia.
— Ed anche la mia; soggiunse Romualdo, affascinato egli pure.
— E la mia; mormorò Vanardi, che impallidì maggiormente.
— Ed anche quella di Benda, ne rispondo io: riprese Giovanni.
Maurilio solo si tacque, rimanendo al suo posto, a quel modo, senza dare
il menomo segno di che pensasse o volesse.
Tiburzio gli si accostò e gli pose lievemente una mano sulla spalla.
— E voi, domandò, che avviso è il vostro?
Maurilio alzò il capo dalle mani e gli occhi in volto al richiedente;
poi rispose con tranquilla indifferenza:
— Avete detto tutti di sì; tanto vale che lo dica ancor io. Ad ogni
modo, sapete che io sarò sempre con voi; ma se, per via di discorrere,
mi voleste lasciar dire quattro parole, io vorrei snocciolarvi alcune
mie osservazioni.
— Parlate: disse Mario.
— Parla, parla: esclamarono gli altri.
Il nostro protagonista levò via i piedi dal fuoco e battè con essi sullo
scalino del focolare per scuoterne la cenere, si volse sulla seggiola
verso i compagni, e con tono lento e quasi indeciso, come se si
peritasse o non avesse ben chiaro innanzi ciò che avesse da dire,
incominciò a parlare con voce esitante e sommessa. Ma poi nel progredire
del discorso venne via via rinfrancandosi, e le parole più fluidamente e
più ordinatamente gli uscirono dalle labbra, e la voce eziandio si
raffermò e crebbe di forza e d'efficacia nell'accento.
— Sì..... certo.... Mario Tiburzio ha ragione.... Credere così di piano
all'amore dei re assoluti per la libertà è..... direi quasi..... almeno
almeno poca prudenza..... Ma pure questa misteriosa figura di Carlo
Alberto ha qualche cosa in sè di.... di speciale..... che accenna ad
un'eccezione..... Non voglio già dire con ciò..... Io non vi parlo che
di mie impressioni, e so bene che valore queste possono avere..... A me
è avvenuto poc'anzi, per la prima volta, di trovarmi innanzi al re, a
due passi..... alla distanza a cui ora sono da te, Selva.... e di
guardarlo fisso negli occhi..... così..... come guardo te..... Fu uno
sguardo e non più; fu un minuto, un attimo, un nulla, eppure vidi,
sentii pensai, conobbi, quasi oserei dire, di quell'enimma coronato
d'uomo assai cose.
Selva lo interruppe domandandogli dove e come gli fosse avvenuto questo
incontro col re, il quale, nelle condizioni del giovane plebeo, pareva
anzi che straordinario, impossibile.
Maurilio raccontò impacciatamente essersi introdotto, e tacendone il
vero motivo disse per curiosità, nell'atrio dell'_Accademia
filarmonica_, e ciò che colà eragli accaduto; poscia riprese tornando al
suo discorso:
— Io credo alla teoria di Lavater, la quale se non ha tutte le rigorose
deduzioni della scienza, ha i meravigliosi indovinamenti d'una
ispirazione e d'un istinto. L'anima parla, anche malgrado la volontà,
colle sembianze della faccia, coll'espressione dello sguardo, colle
forme del corpo onde s'è vestita; e l'arte dell'uomo nel mondo è appunto
di soffocare quel linguaggio, o dissimularlo, o fargli dire il contrario
della verità. Ma non tutti, non sempre, riescono a questo violentamento
della propria natura. Un sussulto, un atto, uno sguardo, rivelano ad un
punto all'osservatore il nascosto essere dell'anima, ed in un minuto
contraddicono alla finzione già perfino fatta abitudine di anni e di
anni. Ho incontrato col mio lo sguardo di re Carlo Alberto; io, uno zero
sulla terra, ho tenuti fissi i miei occhi in quelli del rappresentante
della maggior potenza terrena; ed ho tanto orgoglio da credere che,
meglio forse di tanti altri, per la ventura di averlo colto in uno di
quei momenti in cui anche al più in sull'avviso cade la maschera, io ho
letto nella sua anima. Stimo aver io travisto un istante i pensieri ed i
propositi che si agitano nell'intimo essere di quel re taciturno.
«Massimo d'Azeglio ha ragione. Quell'uomo non è il tiranno che noi
liberali accusiamo, non è il traditore che maledicono nelle loro
conventicole i carbonari: è uno schiavo esso stesso morso dalle
strettoie delle circostanze, che copre colla pallidezza ascetica del suo
volto e colla clamide di re le sue interne riluttanze e le ribellioni
soffocate della sua natura. Non è un Tiberio, quale Tommaseo lo
battezzò; è piuttosto una specie di Bruto primo incoronato.
«Quell'uomo soffre e pensa. Il pensiero ed il dolore nei re li fanno più
acconci a comprendere ed amare i popoli. Quel principe ha una fede e
un'ambizione. Vuole che il suo nome non passi inosservato fra la schiera
dei regnanti di cui recita la litania lo scolaretto che ha mandato a
memoria il trattatello di storia patria, ma che obliano le povere plebi
memori soltanto di chi ha fatto loro molto bene o molto male; e crede
che colla preghiera potrà ottenere da Dio le fortunate vicende onde
conseguire il suo scopo. Quali mezzi trascegliere non sa, e forse non
giunge sinora a vederne alcuno ad arrivo di sua mano. Esita ed oscilla
forse innanzi a due grandissimi còmpiti: far la nazione e risuscitar
l'Italia; o farsi il riformatore del suo popolo e lasciare al re venturo
un paese più ricco, una popolazione più omogenea, una società meglio
ordinata. Forse gli mancano la forza e l'intelligenza sia per l'uno che
per l'altro di questi sommi propositi; e la turba di cortigiani, di
mediocrità ignoranti e prosuntuose, di uomini del passato che si
assiepano intorno al suo trono, non gli lascia scorgere nè la
possibilità nè i modi per affrontare l'una o l'altra, o tuttedue codeste
imprese. Vuole e disvuole; ora si rincora, ora si stanca e s'accascia;
tenta tenersi preparato per questo e per quello; rinuncia ad ogni cosa;
riprende lo sperare e l'agire; ma tace e tutto rinserra nel profondo
dell'animo.
«Quell'indole incerta si lascia in balìa degli avvenimenti: forse egli
non si deciderà mai e morrà senz'aver fatto nulla, dopo aver vagheggiato
tutto, mantenendosi in quella timidità d'atti malgrado la temeraria
audacia dei pensieri, se la forza delle circostanze o l'influenza d'una
potente volontà non vengono ad esercitare un impulso su di lui.
Bisognerebbe quest'impulso produrlo e farsi collaboratori, a sua stessa
insaputa, dei suoi segreti, non anco ben precisi intendimenti.
«Il più agevol modo sarebbe quello d'una potente personalità, d'una
grande intelligenza che lo accostasse, gli leggesse per entro, prestasse
alle sue aspirazioni, forse ancora troppo vaghe, la precisione ed il
vigore di concetti politici, lo persuadesse della possibile attuabilità
di essi, lo dominasse coll'influsso della verità e coll'autorevolezza
del genio. Ma dove trovarla questa eminente intelligenza speciale? Io
non la so per ora vedere in Italia. Gioberti è un altissimo e vastissimo
intelletto; nella sua un po' confusa filosofia si hanno degli sprazzi
luminosissimi di vero; il suo _Primato_ è un'esercitazione rettorica in
cui rivive la potenza dei grandi scrittori italiani del cinquecento, in
cui la vena immaginosa e ridondante dello stile va fino al paradosso, ma
in cui non si mostra per nulla il politico pratico ed effettivo. Questa
qualità ha di meglio Cesare Balbo, ma è troppo rimesso e senza le
audacie prudenti di nuovi principii. Massimo d'Azeglio stesso è un buon
scrittore, un egregio patriota, ma non discerno ancora in lui quelle
qualità, che mi sembrano opportune, di operosità intellettiva
infaticabile, di prontezza e continuità fecondissima di spedienti, di
tenacità e d'unità di pensiero, pure colla varietà infinita delle
capacità e dei modi, a seconda delle circostanze, degli uomini, dei
casi, il quale, sempre presente a se stesso, tutto volge a benefizio,
tutto intende all'ottenimento del suo fine; e su tutto codesto
quell'influsso inesplicabile, quel fascino di superiorità che si fa
riconoscere da chicchessia, e che anche i malvolenti obbliga a
sottostare al predominio del genio. Forse — e voglio sperarlo per la
nostra patria[5] — quest'uomo esiste nella massa dei nostri
concittadini: ma chi sa additarlo? E donde potrebbe il re trarselo ai
suoi fianchi consigliatore, ispiratore e ministro?
[5] Maurilio aveva ragione. Quest'uomo esisteva già nelle file
della nazione: ed era lo allora ignoto — anzi, peggio che
ignoto, malvisto — Camillo Cavour. Se questi fosse stato
ministro di Carlo Alberto a quei tempi, chi sa quante cose a
benefizio del Piemonte prima, dell'Italia poi non si sarebbero
allora compiute!
«Se non l'influsso d'un uomo, rimane allora che il concorso delle
circostanze sia quello che mostri la via, che dia la spinta per essa
all'animo esitante del nostro re. Possiamo noi crearle queste
circostanze? Massimo d'Azeglio, secondo me, ha ragione: noi lo possiamo.
E quando dico noi, intendo dire non soltanto i congiurati in nome della
libertà, carbonari od altri, non solamente i Piemontesi e Liguri, non
solo gli appartenenti alla classe mezzana che sono abbastanza istrutti
da apprezzare che cosa sia nazionalità e libertà e da capire che non
possedono nè l'una nè l'altra; ma intendo tutti quanti sono italiani da
un estremo all'altro della penisola.
«Io sono d'accordo col semplice, ma vero e grandioso concetto di Massimo
d'Azeglio: congiura universale, pubblica, aperta, in favore del bene e
del progresso. Agire sopra un uomo solo che ha il potere, sarebbe più
semplice e più speditivo; ma ce ne mancano i mezzi: agire sopra tutta la
massa della nazione è più lungo, ma più sicuramente efficace ancora.
Quest'opera ammette, include e comprende un'infinita varietà di mezzi,
che tutti poi si raccolgono in una sola parola — una santa parola, amici
miei: — EDUCAZIONE POPOLARE. Chiunque diminuirà non sia pure che d'un
centellino l'ignoranza della nostra plebe, avrà lavorato pel bene, per
la libertà e per l'emancipazione d'Italia, più certo che non noi coi
generosi giuramenti delle nostre segrete congreghe.
Mario Tiburzio accennò parlare; Maurilio fece segno non l'interrompesse,
e continuando con più calore, soggiunse:
— Certo l'opera è più umile, ma è di tanto più fruttuosa di bene, poichè
possiamo essere certi, quand'anche il propostoci fine da noi non si
ottenga, che infiniti vantaggi resteranno nel popolo. Val cento mila
volte più una scuola aperta nell'ultimo dei villaggi, che una
insurrezione anche vittoriosa. Noi prepareremo un popolo conoscitore de'
suoi diritti e scientemente desioso di libertà. Con un popolo tale sarà
patriota anche il principe; e se per la lentezza dei progressi Carlo
Alberto morrà senza aver potuto sguainar la spada contro l'Austria,
legherà a suo figlio la vendetta del suo nome ed il debito della santa
guerra.
«Nella nostra insurrezione credete voi d'avere il popolo dalla nostra
parte? La parola popolo ha mille sensi; e noi siamo troppo usi ad
intendere per essa quelli soltanto che partecipano dei nostri sentimenti
e delle nostre opinioni. Io voglio significare l'universalità di quanti
sono cittadini, fra cui il maggior numero non si merita ancora che il
titolo di plebe. Questa plebe non l'abbiamo con noi; ben disse Massimo
d'Azeglio. I nostri interessi patriotici e liberali si agitano al di
fuori della sfera di quella misera gente e non la toccano. Ben altra è
la quistione che incombe con tirannica pressura su quei diseredati: la
questione del pane, la sicurezza della esistenza delle loro famiglie.
«Questa massa di popolazione ha in sè una forza latente di cui è
inconscia essa stessa; e da tal forza soltanto noi potremo aver i mezzi
da vincere le monarchie e lo straniero e l'attuale ordinamento politico;
ma allorquando soltanto questa massa si gettasse volonterosa,
confidente, spinta da un evidente suo vantaggio con noi. Invece che
vantaggio possiamo noi arrecarle? Che cosa prometterle che poi siamo in
grado di mantenere? La libertà? Ma se ella è in tali condizioni di mente
da non capire che cosa sia. L'indipendenza della nazione? Sa ella forse
che cosa sia una nazione? Domandate al villano piemontese, al _cafone_
napolitano s'egli sia italiano. L'unità della patria? Ma per lui la
patria è il campanile del villaggio, è la fangosa strada della sua
officina. Come volete ch'egli abbia un amore platonico per quelle
sublimi idee che ci commovono, noi che abbiamo studiato? La plebe vi
domanderà, prima di scendere ad urtarsi contro il trono cui la
tradizione se non altro le ha mostrato a rispettare: — Avrò meno miseria
e men lavoro? — Se voi le rispondete affermativamente, mentite; ed ove
questa menzogna la persuada, ne sarete puniti di poi tremendamente. Ma
il vero è che nè anche se voi le affermaste questo suo riscatto dalla
miseria, la plebe onesta non vi crederebbe, e non avreste con voi che la
bordaglia ribelle ad ogni autorità, mantenuta nel dovere soltanto dal
rigore delle leggi, la quale non vedrebbe in un rivolgimento che la
guerra ai ricchi, e non farebbe altro che danneggiare e disonorare la
vostra causa.
«La plebe dunque non l'avremo con noi, non bisogna nemmanco pensarci; e
senza di essa noi siamo debolissimi nemici alle forze della
monarchia....
— Avremo anche la plebe: interruppe Mario. Le cose che voi mi dite,
Maurilio, credete voi che io non le abbia pensate? Ho cercato d'aver
alleata — e dirò anzi complice — anche quella parte di popolo. In essa
pure serpeggia il malcontento, ed il suo malessere presta favorevole
occasione alla nostra propaganda. Quando si sta male, torna un vantaggio
ogni cambiamento. Vi ha un uomo qui che si afferma — e me ne diede prove
incontrastabili — avere sopra la plebe di questa città direttamente o
indirettamente autorità grandissima ed impero sicuro. Con quest'uomo mi
son posto in istretti rapporti. Sotto certe condizioni egli ci promette
il suo appoggio.
— Chi è quest'uomo? Domandò vivamente Maurilio, a cui traverso la mente
balenò un sospetto.
— È un essere misterioso che pur vivendo in mezzo alla più elegante
società ha strette attinenze coi più bassi fondi della plebe. Nei
salotti lo chiamano il dottore Luigi Quercia, nelle taverne dei più
miseri cenciosi è conosciuto col nomignolo di _Medichino_.
— Lui! Esclamò Maurilio. Gian-Luigi?
— Voi lo conoscete?
— Lo conosco.
Maurilio curvò il capo e stette in silenzio, con atteggio di abbandono,
come subitamente oppresso da una prepotente invasione di varii e
tumultuosi innumeri pensieri.
Tiburzio continuava:
— Nella plebe, specialmente fra certe classi di operai, si intromisero e
serpeggiano e già vastamente si dilatarono alcune segrete associazioni
simili a queste nostre che hanno per iscopo la indipendenza della patria
e la libertà del genere umano. Le associazioni plebee hanno un fine più
speciale ai loro interessi: quello di abolir la miseria, di assicurare a
tutti che vivono su questa terra i mezzi della loro sussistenza, di por
fine agli stenti ed alle privazioni dolorose di tanta parte
dell'umanità. Per giungere a codesto, una cosa hanno certa i guidatori
di quelle società segrete: che bisogna intanto distruggere il presente
regime politico, il quale grava con tutto il suo peso sulle classi
povere e ne rende immutabili le sciagurate condizioni. Noi abbiamo
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