La plebe, parte I - 18

sul letto, tutto avvolto nel sudario; lo presero a braccia, lo recarono
nella barella coperta, e via, lasciando il letto disordinato.
«— Ora lo portano al gabinetto anatomico e domani sarà tagliuzzato per
lezione degli studenti: mi disse l'altro mio vicino di sinistra con una
specie di sogghigno e con una voce stridula che mi fece ghiacciare il
sangue e correre un fremito per tutti i nervi.
«Neanche dopo morto, il povero, crepato all'ospedale, non è tranquillo.
«Nella giornata furono portati via il materasso e il pagliericcio di
quel letto, ma due giorni dopo tutto era rimesso a posto, e un altro
infermo dolorava a quel medesimo luogo.
«Quando ebbi visto giungere, sostenuto a braccio da un infermiere, un
altro povero diavolo coi segni della miseria ancor esso negli abiti e
nelle sembianze e venir condotto a quel letto ed esser fatto in esso
coricare, un nuovo assalto d'amarezza mi prese. Pensai con ispavento che
in quel letto eziandio dove avevan posto me, poco tempo prima, il giorno
innanzi fors'anco, poteva esser morto un altro infelice, ed io era
venuto a prenderne il posto, come questo nuovo sopraggiunto si sdraiava
lì dove era spirato il suo predecessore.
«Per allora questi pensieri non facevano capo a nulla di preciso, ma più
tardi, quando anche più maturata la mia mente, tornandovi su ne' miei
fantasticari, si conchiusero in alcune opinioni che forse sono
paradossastiche, ma che a me pare contengano la verità — se non quella
dell'oggi — quella che condurrà seco il progresso di domani.
«La carità sociale ha già fatto molto creando quegli ospizi in cui si
raccolgono a curare gratuitamente i poveri caduti infermi; ha fatto
moltissimo, se si paragona codesto a quel tempo di barbarie, in cui si
lasciavano morire nei loro miserissimi tuguri senza od appena con
qualche stentato e inefficace soccorso. Gli è certo sotto l'ispirazione
d'un progresso che la società si disse: «quegl'infelici di proletari che
mancano di tutto alle case loro, come vi potranno ricevere assistenza
appena discreta nelle loro malattie? Raccogliamoli tutti insieme in
luoghi appositi, dove con minori mezzi appunto, per la forza
maravigliosa dell'associazione, potrà ciascuno dei ricoverati avere
tutto o quasi tutto quello che loro può occorrere.»
«Ma non si era tenuto conto a tutta prima di questo fatto, che se la
mancanza di mezzi materiali è cosa essenzialmente sventurata pur troppo
nella cura dei malati, di uguale forse o di poco minore importanza è
altresì il difetto dell'amorevolezza nell'assistenza, di quella soave
temperie che crea intorno l'animo del sofferente il vedersi circondato
da un vero interesse e da un caldo affetto. Ciò fu ben sentito più tardi
da quell'anima celeste che fu S. Vincenzo di Paola, il quale istituì
l'ammirabile ordine monastico delle _Suore di Carità_; ma per quanto
queste sieno pietose e zelanti e superiori ad ogni elogio (come niuno
può negare che sieno in generale), è tuttavia pur sempre ben diversa
cosa l'interessamento d'una persona estranea, la quale ancora, se
dall'abitudine acquista una certa pratica del servizio degl'infermi, ha
insieme da quest'abitudine medesima, o smussata d'alquanto la
sensibilità o quanto meno di certo non pari e non capace di rivaleggiare
con quella dei congiunti dell'infermo — madre, moglie, figliuola,
sorella.
«A codesto si ha da aggiungere tutto il resto di malessere e di
inconvenienti che risultano dall'agglomerazione nello stesso luogo,
nella stessa stanza di più malati, dei quali il soffrire dell'uno va ad
aumentare e rincrudire il soffrire dell'altro, e il servizio di questo è
un incomodo, un turbamento, un danno anche parecchie volte, alle
condizioni di quello.
«I pregiudizi del popolo, anche i più falsi e perniciosi, hanno quasi
sempre un fondamento in alcuna realtà che viene pur troppo esagerata:
consulta tutta la povera gente in proposito, e fra quei miseri, che pure
non hanno modo alcuno da questo in fuori di aver soccorso, troverai
pochi, per non dire nessuno, che non senta una viva ripugnanza a farsi
ricoverare negli ospedali. Senza ragionarvi sopra, senza avere
fors'anche un'idea precisa della causa di questa ripugnanza, ciascuno di
essi sente che molto lascia a desiderare in quel modo di soccorsi la
carità pubblica; ed accrescendo colla mobile e impressionabile fantasia
i mali di quel sistema, per lo più non si acconsente a recarsi allo
spedale che quando la necessità lo comanda loro in guisa assoluta, e per
molti già con soverchio ritardo pur troppo.
«Io credo che un nuovo progresso sarà quello in cui il malato non venga
più tolto dalla sua famiglia, ma nel seno di questa al medesimo vengano
apprestati tutti quei soccorsi e d'assistenza, per mezzo delle stesse
_Suore di Carità_ per esempio, e di medici e di farmaci, per goder dei
quali ora lo si costringe a recarsi negli appositi ospizi, e che in
questi non saranno ricoverati altri più che quelli i quali o non hanno
famiglia di sorta, od anche avendola consentono volonterosi a
staccarsene per riparare all'ospedale.
«Codesta quistione sta legata con quell'altra non irrilevante essa pure
degli alloggi della povera gente; ma se io entrassi a parlare di ciò la
tirerei troppo in lungo. Forse verrà tempo in cui avrò da parlartene di
proposito.... Ora perdonami la digressione e ritorno al mio racconto.
«Ero pressochè guarito, quando fra le molte Don Venanzio venne a vedermi
una volta. Mi disse che si preoccupava del mio avvenire, che era tempo
oramai di pensarci e mi domandò se avessi qualche idea, qualche progetto
in proposito. Gli confessai che non avevo su codesto nè anche un
principio di decisione: che bene mi era balenato il pensiero e il
desiderio di tornarmene alla dimora ed alla vita del villaggio, ma che
non avevo tardato ad accorgermi ciò essere impossibile; che cosa sarei
andato ancora a far colà peggio disprezzato di prima, e forse in
sospetto ancora dei più? Alquanto mi allettava pure il soggiorno nella
popolosa città, dove avrei trovato forse di meglio impiego alla mia
attività. Se io fossi stato padrone del mio destino, forse non sarei
venuto in questo viavai agitato e pericoloso, comecchè il segreto
desiderio mi vi spingesse, ma poichè era il caso che mi ci aveva a forza
trascinato, pensavo rimanerci. In che modo e con quali opere non sapevo
ancora, ma speravo trovare occasione e compenso a lavorare, come ne
avevo volontà.
«Don Venanzio, prima di rispondermi, stette un poco a pensarci su;
poscia mi disse che non avevo affatto il torto, e che una parte di
quelle cose che gli avevo espresse, aveva pensato ancor egli. Suo primo
proposito, a mio riguardo, era stato quello, appena vistomi dotato d'una
certa intelligenza, di allevarmi al sacerdozio; vestito della rispettata
cotta pretesca, mi avrebb'egli ottenuto d'esser maestro al suo
villaggio, diventato anche mio. La mia qualità di trovatello sarebbe
così stata riscattata agli occhi dei contadini dalla dignità dell'abito
sacerdotale, e i padri di famiglia non avrebbero avuto scrupolo nè
ripugnanza più ad affidarmi i loro figliuoli da educare, cosa che forse
e senza forse sarebbe accaduta conservando io le vesti da secolare. A
vedermi insignito degli ordini sacri, aveva egli rinunciato già da un
poco, e non senza pena, me lo confessava, quando ebbe visto in me cedere
sventuratamente, coll'aumentar dell'istruzione, la fede. Ora nè a vestir
io la cotta talare, nè a farmi maestro del villaggio, nè pel momento a
tornar neppure in quest'ultimo non era da pensarsi più. Dopo quanto era
intravvenuto, quella popolazione rurale mi avrebbe peggio riguardato di
prima, e mettermi ad educare la prole di essa era impossibile impresa
anzi tutto, e tale ancora di poi, cui egli nemmanco non avrebbe più
voluto affidarmi, perocchè fosse sua ferma persuasione, il maestro
dell'infanzia dovere agli allievi, coi primi rudimenti del sapere,
istillare quella preziosa e doverosa cosa che io non aveva più, il
tesoro delle credenze religiose ortodosse; creder egli quindi necessario
cercassi qualche modo di ricavarmela a Torino stessa dove mi trovavo. Io
abbisognava d'un impiego dove avessi potuto guadagnar subito, imperocchè
non avessi modo alcuno di sparagni nè d'altro da sostentarmi, e la cosa
era difficile assai a trovare, perchè, sapendo pur io molte cose in
paragone del mio stato, in sostanza poi, che cosa per allora ero buono a
fare? Ma egli aveva conoscenza con certe famiglie ricche e potenti, fra
cui principale quella all'intromissione del cui capo io andava debitore
della mia liberazione dal carcere; avrebbe parlato a questo ed a
quest'altro ed avrebbe senza fallo trovato ad allogarmi o qua o colà per
fare qualche servizio che mi potesse convenire e che mi guadagnasse
onestamente il pane.
«Lo ringraziai con effusione, e ci lasciammo con questo fermato
proposito. Si trattava insomma di entrare a far da servo in qualche
famiglia signorile. La cosa a tutta prima mi tornò la meglio conveniente
che mi si parasse dinanzi. Non ero io servitore poc'anzi di Menico e di
Giovanna? Ma essi mi avevano preso fanciullo, mi avevano allevato, ero
come cosa loro; entrare non conosciuto in una famiglia ignota per
sottostare alle volontà di chi sa chi, più ci pensavo e vieppiù mi
appariva di poi cosa diversa. Mi ricordai ad un tratto del bottone di
livrea che tenevo sempre meco del pari che il rosario, come cosa
preziosissima. Questi oggetti mi erano stati tolti all'entrare nel
carcere, ma me n'era stata fatta la restituzione all'uscire di colà, ed
ora all'ospedale, appena tornato in me, li avevo ridomandati e li tenevo
sotto il guanciale ove posavo la testa. Trassi fuori quel bottone e lo
stetti contemplando per un poco. Era forse un indizio della condizione a
cui apparteneva mio padre. Ancor egli probabilmente aveva servito; nulla
era più naturale che il figliuolo altresì mangiasse di quel pane.
Eppure, a seconda che mi ingolfavo in questi pensieri, mi nasceva in
cuore e si faceva sempre più viva una ripugnanza contro siffatta
condizione, la quale mi pareva un umiliarsi, cui finivo per apprezzare
come una vergogna alla mia personalità. Guardando quel bottone vedevo il
soprabito a cui doveva essere attaccato, e vedevo me vestito del
medesimo ai cenni d'un padrone capriccioso. A codesto doveva far capo
quella intelligenza che sentivo in me? Nient'altro di meglio dovevano
conseguire il tumulto de' miei pensieri, le mie audaci aspirazioni,
quello che avevo imparato e la capacità, onde avevo coscienza, di
imparare assai più?
«Ad un tratto una subita idea mi assalse. Qui a Torino era Gian-Luigi;
perchè non sarei ricorso a lui? La memoria dell'infanzia passata
insieme, la promessa ch'egli stesso mi aveva fatta di ciò, lo avrebbero
sicuro spinto a darsi alcuna briga per me. Non avevo bisogno di cercar
molto affine di rintracciarlo, perchè in quell'ospedale ov'egli veniva —
quantunque frequenti fossero le mancanze — avrebbero saputo dirmi di
certo dove lo avrei potuto rinvenire. Mi parve quella la più felice
ispirazione che fosse, e me ne sentii tutto lieto e quasi sollevato
dell'animo.
«Ed ecco, quasi che la fortuna mi volesse in codesto assecondar proprio
del tutto, ecco che io non aveva nemmanco finito di pensare ciò, quando
vidi spuntare nel camerone la brigata degli studenti di medicina per la
solita visita, col professore in capo, e nella schiera, aitante e sempre
più per distinzione sopra ogni altro notevole, Gian-Luigi medesimo.
«Quando i visitatori furono al mio letto, siccome ero già in piena
convalescenza, non si fermarono neppure; passandomi innanzi il medico
volse verso me la testa e mi domandò:
«— La va sempre bene, giovinotto?
«E siccome io risposi di sì, continuò il suo cammino senz'altro.
«Gian-Luigi passava ancor egli, senza badare a me più questa che le
altre volte. Io radunai tutto il mio coraggio, e lo chiamai per nome ad
alta voce, ma un pochino tremante. Egli si riscosse, mi guardò fiso e mi
riconobbe: parve un po' conturbato, o per dir meglio contrariato; esitò
un istante e credetti fosse per tirar diritto cogli altri senza darmi
punto retta; siccome assolutamente mi premeva il parlargli, benchè
sentissi più tremante ancora farsi la mia voce, imperocchè il cuore mi
battesse concitato, mi apprestavo a ripeter l'appello, quand'egli, come
accortosi di quella mia intenzione, sembrò ravvisarsi e venne a me
sollecitamente.
«— Sei tu? mi disse affrettato senza lasciarmi aprir bocca. Ed io non
t'ho mai visto, o per dir meglio non riconosciuto? In fede mia non mi
sarei mai più aspettato di trovarti qui.
«Nella sua premura, nell'accento delle sue parole non sentii caldezza
nessuna d'affetto od interesse di sorta; ma piuttosto la fretta di
sbrigarsi da colloquio che non molto gli andasse a grado, l'impazienza
di trarsi fuori da cosa che lo contrariasse.
«Gli dissi del gran bisogno che avevo di parlargli.
«— Va bene: mi rispose interrompendomi; ma adesso no; adesso non posso.
Bisogna ch'io segua la visita. Continuo i miei studi da medico, ed è
perciò che tu mi vedi qui. Tornerò per udirti e parlarti in ora più
opportuna, quando lo potremo con più comodo. A rivederci.
«Non mi strinse neanche la mano e mi lasciò per raggiungere in fretta i
compagni.
«Quel suo contegno mi diede una tristezza che potrei chiamare un dolore.
Ricordai la freddezza dell'addio nella sua partenza, e mi dissi che
questo accoglimento nel rivedermi era peggio ancora scevro d'ogni
affezione. Entro il suo cuore io dunque non ci aveva proprio più posto,
e non sapevo capirne il perchè. Ero troppo inavvezzo ancora per
indovinare che in presenza de' suoi attuali compagni, egli — il mio
compagno d'infanzia, un trovatello al pari di me — si vergognasse di
conoscere un cencioso villanello malato all'ospedale.
«Egli però mantenne la sua parola e quel giorno stesso venne a vedermi
da solo. Il suo contegno fu tutt'altro da quello della mattina. Mi serrò
con effusione tuttedue le mani, mi prese fra le sue braccia e mi strinse
al suo seno, baciandomi e ribaciandomi; sedette presso il mio letto, e
tenendo fra le sue mani la mia destra ascoltò con viva attenzione il
racconto dei fatti miei.
«Innanzi a quei suoi modi gentilmente affettuosi tutta quell'amarezza
che era nata in me contro di lui pel trattamento usatomi quel mattino
medesimo si dileguò ratto come la prima neve sottile ai raggi caldi d'un
bel sole. Mi sentii l'animo riconfortato; e la irresistibile seduzione
che quel giovane esercita sopra ognuno quando voglia, riprese tutto il
suo impero su me.
«Egli mostrò caldamente interessarsi ai miei casi cui compatì, si mostrò
spiacente assai di ciò sopratutto che io fossi stato in prigione, e
vivamente disse e ripetè insistendo che anzi ogni cosa io aveva da
mettere tutte le mie cure nel nascondere ad ognuno e sempre questa
circostanza. Le sue parole a tal proposito mi ricordarono quelle di
Graffigna.
«— Il carcere, vedi, così mi diss'egli, nella nostra stupida società
che vive di pregiudizi e di pecorili usanze, imprime a chi lo subisce
una specie di marchio indelebile che lo addita al sospetto ed alla
disistima di tutti — specialmente degli sciocchi che sono l'immenso
maggior numero — e ciò qualunque sia la causa, fosse pure un errore, per
cui questo carcere fu subìto. Codesto di certo non accade con me. Prima
di tutto io ti conosco per bene; e poi sono superiore al volgo d'ogni
fatta — anche a quello che calza guanti e va in carrozza, il quale in
molte cose è più crassamente volgo dell'altro. Ma faremo bene in modo
che niuno abbia mai da saperne un'acca. Per presentarsi nel mondo
bisogna avere un nome ed una famiglia ed un passato che si possa
raccontare francamente a tutti. Nè tu, nè io non abbiamo nulla di
codesto; ebbene faremo per te ciò che ho già fatto per mio uso; ti
fabbricheremo un passato, una famiglia ed un nome. Dimmi frattanto se tu
hai qualche progetto sul tuo avvenire.
«Gli contai ciò che s'era detto e deciso fra Don Venanzio e me, e gli
confessai la mia ripugnanza ad acconciarmi come servo. Gian-Luigi crollò
il capo e levò le spalle.
«— Quel Don Venanzio è il miglior prete del mondo, diss'egli, ma il più
disadatto ad immischiarsi in queste cose. Eppoi ti ho detto che
bisognava fabbricarsi un passato acconcio, ed il vecchio parroco è la
realtà vivente del passato che occorre nascondere. M'incarico io del tuo
avvenire; ho già in vista quello che fa per te; manda a spasso il
parroco e lasciami fare.
«Mi affidai tutto in esso, e promisi avrei fatto a suo modo. Quindi lo
richiesi di lui, della sua vita e delle sue condizioni.
«Egli mi rispose con una leggerezza spensierata e piena di allegro brio:
«— Io? Sono niente ancora, ma tendo le fila per diventare..... che
cosa? Non so bene, ma pur tale che conti..... Vivo tuttavia sulla somma
pagatami dagli eredi del mio protettore. Il giuoco, in cui la fortuna mi
seconda, accresce i miei proventi ed allunga la vita a quel capitale che
faccio correre al gran trotto a tiro a quattro sullo stradone delle
spese e del lusso, lasciandone un lembo ad ogni segnacolo della via. È
una vita turbinosa che inebria. Prima che quel capitale sia finito,
qualche cosa avrò trovato. Seguito gli studii di medicina _pro forma_; e
poi perchè la fisiologia, oltre all'essere curiosissima scienza, mi può
diventar utile; ma intanto studio più profondamente il mondo e la
società, questo gran libro in cui tutto è scritto e in pochi sanno
leggere, questo malato cui la cancrena travaglia e il medico da saperlo
curare non è ancora nato. Tu studierai meco; e ci aiuteremo a vicenda.
La tua potenza d'osservazione e la mia nativa acutezza di scetticismo
diffidente sono fatte apposta. Comincieremo per mettere a nudo questo
mondo mascherato e imbellettato; lo sviscereremo come fa l'oste che
aggiusta un pollo per farlo arrostire; poi lo domineremo. L'anatomia
d'un cadavere è cosa interessantissima: è tale a mille doppi quella d'un
organismo vivo, quella d'una personalità immensa quale si è la società
umana. Siamo dunque intesi. Di quest'oggi stesso mi occuperò de' fatti
tuoi, e non tarderò molto a venirtene a dire i buoni risultamenti.
Addio.
«Si partì così, lasciandomi nel cuore un poco di quella vivacità, di
quelle speranze, di quell'ambizione fors'anco che davano al suo
carattere ed ai suoi modi animazione cotanta; e con ansia stetti
aspettando il suo ritorno.
«Non tardò infatti gran tempo. Il domani stesso, non essendosi lasciato
vedere alla visita, venne da me all'ora stessa in cui avevamo avuto il
colloquio che t'ho detto, e mi apparve tutto raggiante.
«— È cosa fatta, mi diss'egli senza indugio, sedendosi presso il mio
letto. Tu sei bello ed allogato. Lo stipendio non è dei più grassi:
sessanta lire al mese, alloggio, tavola, bucato..... e qualche incerto
guadagno che vedrai venire fuori e di cui imparerai ad approfittarti.
Non è uno stipendio da ministro, ma per cominciare!..... I grassi
stipendii verranno poi. Hai tu mai sentito a nominare il sig.
Nariccia?... No? — È giusto. Laggiù nel villaggio nessuno lo conosce. Ma
qui in Torino è cosa diversa. Ei tiene mezza la città nei suoi artigli —
artigli è il vero termine — e tutta la gente lo conosce e nutre per lui
un'osservanza!.... l'osservanza che si merita un Rotschild acconciato
alle proporzioni del nostro paese! Questo personaggio, in apparenza
umile, vestito come un vecchio usciere, maneggia i milioni come tu non
hai potuto ancora fare coi centesimi. Ha denari da tutte parti. La banca
Bancone lavora a suo conto; tutti gl'impresari di lavori pubblici vanno
avanti co' suoi capitali; è il segreto padrone di tutti i pubblicani
delle gabelle. Ti ricordi del bastone di Bruto? Una verga d'oro in una
corteccia di ramo di sambuco. Questo è un milionario nei panni d'un
usuraio. Ma un usuraio che sa fare ammodo; di quanti pela, nessuno ha
gettato ancora mai un grido che lo compromettesse. Io l'ho conosciuto
per azzardo, e ne ho coltivata la conoscenza per progetto. Ho acquistato
presso di lui una domestichezza cui non accorda a chicchessia. C'è molto
da imparare praticandolo, e mi sono fatto promessa solenne che avrei
imparato tutto e per bene. Ha bisogno d'un cotale che gli scriva le sue
lettere senza errori di grammatica e con buona ortografia, e che gli
rediga con sintassi i discorsi che ha da pronunziare nelle congregazioni
religiose e di carità di cui è membro zelantissimo e nelle società
commerciali in cui abbindola pulitamente soci ed azionisti. Aveva
offerto a me questo impiego: ma io sono già troppo innanzi negli occhi
del mondo per accettarlo. Tu cominci appena, ed è questo il miglior
principio e più vantaggioso economicamente che ti si possa presentare.
Mi sono fatto dar parola che avrebbe accolto il mio raccomandato.
Inventeremo una storiella apposita che ti intrometta colla più naturale
verosimiglianza. Ponendo il piede sulla soglia di quella casa, tu
entrerai nella strada che mena alla ricchezza. Mi dirai un bel giorno
che mi devi la tua fortuna. Guarisci adunque sollecitamente perchè io
possa presentarti a messer Nariccia. Le cose più presto si fanno e
meglio è per ogni verso.
«La proposizione di Gian-Luigi, a dire schiettamente il vero, non mi
lasciava del tutto soddisfatto; c'era anzi qualche segreta cosa che me
ne allontanava; ma la foga delle parole e la sicurezza di Gian-Luigi mi
stordivano quasi, e non mi permettevano il coraggio di pur manifestare
quella specie di mia malavoglia. Accettai e ringraziai. Se non altro
avevo un pane assicurato ed avevo i piedi fitti in questa folla agitata
della capitale che mi attirava e spaventava nello stesso tempo.
«Gian-Luigi mi aveva lasciato da pochi minuti, quando mi si presentò
sollecita la faccia ilare e improntata di tanta benevolenza di Don
Venanzio.
«— Il Signore ci ha aiutati: cominciò senz'altro il buon prete, tutto
giulivo: ti ho trovato il miglior posto che si potesse desiderare. Ho
parlato di te al marchese di Baldissero medesimo, e quel generoso ha
consentito a prenderti seco egli stesso e provarti per sapere quale
ufficio ti possa competere e debba quindi assegnarti. Gli ho detto tutto
di te; non hai perciò nulla da nascondergli, nulla da dissimulare; come
nulla del pari verrà più a farti ricordare le traversie passate. Il
marchese sa che il labbro di questo vecchio servo di Dio non si è
macchiato mai d'una menzogna, ed affermandogli io la tua innocenza, egli
crede ad essa come ad una verità di cui avesse la prova: per la medesima
ragione crede al tuo ingegno ed alla tua istruzione. Volentieri egli si
presta per salvare dalla miseria e da ogni pericolo di male una creatura
di Dio, i cui mezzi non comuni furono forse dalla Provvidenza concessi
ad ottenere un gran bene. Se vi è uomo che possa coll'esempio,
coll'autorità, cogli ammaestramenti indirizzare un'anima umana sulla
buona strada, ispirarle i più sani principii e le più maschie e
cristiane virtù; se v'è uomo che meriti rispetto, quello è il marchese.
Tu, ne son certo, benedirai la benignità della Provvidenza, e me che fui
di essa stromento, per averne ottenuto un tanto favore.
«Io rimasi imbarazzatissimo e non seppi di botto che cosa dire. Se il
parroco fosse venuto a propormi d'entrar precisamente da domestico,
avrei avuto il coraggio di manifestargli senza esitazione la mia
ripugnanza e il mio rifiuto; ma ora le parole di lui mi adombravano una
condizione ben diversa da quella che io aveva supposta, e in tal caso,
posto in bilancia la fiducia che si meritava la prudenza affettuosa del
buon vecchio e quella che l'avventatezza egoistica di Gian-Luigi, le
qualità di gentiluomo presso cui voleva allogarmi Don Venanzio e quelle
del trafficatore di denaro, al quale aveva promesso l'opera mia il
giovane mio amico, non c'era da esitare un momentino nella scelta, anche
per la mia inesperienza d'allora. Oltre ciò al marchese di Baldissero
non doveva io già una certa riconoscenza per essere egli stato l'autore
della mia sollecita liberazione? Quindi se alcun valore era in me, non
mi toccava forse l'obbligo di questo impiegare in servizio di lui
piuttosto che d'altri? Di più, senza che io me ne sapessi spiegare la
cagione menomamente, il nome solo di quella famiglia — di Baldissero —
fin dalla prima volta che io l'aveva udito, forse perchè il capo di essa
m'era apparso come un genio tutelare che mi avesse protetto, m'aveva
ispirato un certo non so che d'indefinito che era simpatia, che era
reverenza, un misto confuso di sentimenti il cui effetto era di farmi
sembrare che a quella famiglia io non fossi affatto affatto estraneo,
che alcun legame segreto mi vi avvincesse, non so come; onde alle parole
di Don Venanzio fortissimo di colpo mi si era destato il desiderio di
entrare in essa.
«Era forse già un presentimento d'un venturo legame che doveva stringere
il mio cuore.... Ah! più tardi mi domandai con profondo fremito di tutte
le fibre, che cosa sarebbe avvenuto di me se io allora fossi stato
intromesso in quella casa; e più vivo e doloroso ebbi il rammarico che
ciò non fosse avvenuto, e d'altra parte per contro quasi benedissi
l'error mio, perocchè più acuto sarebbe stato il tremendo dolore che mi
aspettava, che mi ha raggiunto, che mi travaglia quest'anima combattuta.
«Ma tu non puoi ancora comprendere queste parole, che presto verrò a
spiegarti, quantunque contengano il mio più caro e più tremendo segreto:
— ma non ho io deciso di svelarti tutto? — tutto l'esser mio?
«Avrei dunque voluto a quelle parole di D. Venanzio poter rispondere con
una sollecita accettazione; ma come, se avevo impegnata la mia parola
con Gian-Luigi?
«Il parroco s'accorse della mia esitazione e del mio imbarazzo, e volle
saperne la ragione. Tentennai alquanto; mi passò perfino nella mente il
pensiero di tacer tutto a D. Venanzio, e di accettare subitamente come
se nulla fossevi stato con Gian-Luigi. Però alla verità non sapevo
ancora, e non lo so nemmanco adesso, fallire; avevo poi per quel vecchio
sacerdote troppa reverenza perchè mi potesse durare a lungo il pensiero
di ingannarlo, di pur dissimulargli alcun che. Alla seconda volta
ch'egli inquieto e sollecito mi fece richiesta di che cosa avessi, gli
dissi tutto.
«Se ne mostrò molto contrariato, mi rampognò amorosamente perchè, avendo
egli promesso torsi briga de' fatti miei ed essendomi io affidato in
lui, avessi poi, senz'aspettare una sua risposta, disposto delle cose
mie; era quasi un mancar di parola verso di esso, era un mancar di
fiducia in lui, cose che in me lo affliggevano e l'una e l'altra.
«Proposi vivamente di non tener conto nessuno della promessa data a
Gian-Luigi; ed egli me ne ripigliò con severe parole. Avrei fatto
maggiore ancora il mio fallo; creder egli di certo che la condizione da
lui procacciatami sarebbe stata migliore sotto ogni riguardo, ma ora mio
obbligo esser quello di mantenere la data parola; imparassi da ciò ad
andar cauto a prendere impegni, ma allorquando ne avessi assunti, mi
facessi una legge ad adempirli.
«Mi lasciò con queste parole non offeso, chè troppo buono è il suo cuore
per offendersi mai, ma disgustato; ed io da mia parte, nell'animo sentii
una malavoglia, una scontentezza che era come il presentimento delle
poco liete cose che mi aspettavano.
«Ciò però non tolse che una settimana dopo, guarito, ma debolissimo
ancora, io non fossi insediato nel mio ufficio in casa di messer
Nariccia.
«Messer Nariccia aveva allora intorno a cinquant'anni. Un ometto piccolo
e grassotto a collo torto, a mani rozze e grossolane, a piedi enormi,
con ventre proeminente e voce fessa che mi ricordava quella del ladro
Graffigna. La faccia piena, la carnagione di color terreo, un'aria
sommessa e da buonuomo, un sorriso improntato sulle labbra, troppo
costante per essere sincero; i capelli grigi gli venivano giù bassi
sulla fronte piccola; gli occhi piccini e birci guizzavano via, per dir
così, innanzi allo sguardo degli altri, come timidi vergognosi. Portava
un po' di barba d'un biondiccio slavato alle gote, la quale sembrava
ancora lanugine; la cravatta bianca, pantaloni, panciotto e soprabito
scuri di panno sempre logoro; orologio d'argento con grossa catena
d'acciaio, scarponi da montagna, cappello a larga tesa da quacchero, e,
suo fido compagno, un grosso bastone.