La plebe, parte I - 14

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«Mi serravo violentemente colle mani le tempia, come per concentrarvi le
idee e le forze del cervello che mi pareano disperdersi. Poi guardavo
innanzi a me sbalordito. Vedevo le vacche qua e colà sparse, nella beata
calma della loro stupidaggine. Una sdraiata ruminava cogli occhi
semichiusi; un'altra mordeva la poca erba del suolo infecondo; una
terza, andata a bere, sollevava il muso da cui gocciava l'acqua e
guardava fissamente innanzi a sè. Pensavano a di queste cose nelle tante
ore inoperose, quelle bestie così placidamente rassegnate alla loro
sorte? E se non le pensavano, non erano esse più felici di me? E perchè
tali pensieri dovevo averli io, e non li avevano nè Menico, nè Giovanna?
Era questo un mio torto, od un mio merito, od una mia sciagura? Non
sapevo nè anche questo, ma pure non avrei osato svelarli ad anima viva.
Qui Maurilio tacque un istante e parve esitare; poi fece quel suo strano
sorriso, scosse il capo; e riprese:
— Ned ora tuttavia, nemmeno con te, oso tutto disvelare degli intimi
pensieri del mio spirito, degli intimi fenomeni che ha nel suo segreto
l'anima mia...
— Perchè? Domandò con calore Giovanni Selva; tu dèi pure avere fiducia
nella mia amicizia.
Maurilio stette un minuto a capo chino, poi, come riscuotendosi, disse
risolutamente:
— Avrò il coraggio di dirti tutto, perchè molte volte ho bisogno d'aiuto
nelle mie interne battaglie, e il tuo affetto e la risolutezza del tuo
carattere potranno darmene... Ti dirò tutto, dovessi tu pure stimarmi un
allucinato o ridere della vanità delle mie illusioni.
Selva lo interruppe vivamente.
— Ridere non mai!... E per crederti così agevolmente allucinato, conosco
troppo già la tempra del tuo ingegno e la forza dell'anima tua.
— Giovanni, disse Maurilio volgendo verso l'amico il viso diventato più
pallido e gli occhi di una strana luce illuminati: Giovanni, credi tu
alle apparizioni? Credi tu al mondo degli spiriti? Credi tu che fra
questi vivi della vita d'un giorno e i vivi della vita eterna possa
esservi comunicazione diretta?... Io credo!... A me parlano gli spiriti
dei morti; io sento nell'anima il susurro de' loro ispiratimi pensieri,
alcune rare volte io ne vedo nelle ombre della sera disegnarsi, lievi
come il fumo di poco incenso, le loro incerte sembianze... Non
interrompermi, non parlarmi, non dirmi che vaneggio... Odimi sino al
fine.
«Non avevo più di sette anni. Ero al solito pascolo. Una sera
orridamente bella per lo strano spettacolo del cielo. All'occidente un
ammasso di nubi di temporale, nero come il fondo dell'abisso, squarciate
di quando in quando da un lampo sanguigno. All'estremità di queste nubi,
pei raggi rifratti del sole già tramontato, un orlo vivo color di
fiamma. Più in su dell'orizzonte un altro accavallamento di nubi bianche
come la neve che correvano, avresti detto spaventate, avvolgendosi su se
stesse sotto il soffio dell'aquilone. Per la campagna una luce incerta,
biancolastra, freddiccia che dava delle tinte livide a tutti gli
oggetti. Un gran silenzio in tutta la natura, cui rompevano tratto
tratto il rombare del tuono lontano e l'ululato del vento che faceva
piegare con gemiti gli alberi, che sollevava altissimi nembi di polvere
e li cacciava in disordine innanzi a sè, e passava. Le vacche di quando
in quando levavano il muso verso il cielo e muggivano dolorosamente.
«Io non sentiva paura; quell'imponente spettacolo piaceva anzi di molto
agli occhi miei; ma pure avevo una certa ansietà nell'animo e un palpito
nel cuore, di cui non sapevo dirmi il perchè. Sdraiato sotto gli ontani,
guardavo i lampi nel cielo e stavo lì come aspettando qualche cosa che
dovesse intravvenire.
«Ad un punto il vento cessò del tutto e il tuono si tacque. L'orlo di
fiamma delle nubi all'occaso si spense, quelle altre nubi bianchissime
che correvano pel cielo si fermarono, si oscurarono e diventarono color
di piombo; parve cessasse dal respirare la natura intiera. Il mio cuore
palpitava più forte. Udii al di sopra del mio capo le frondi degli
ontani scuotersi leggermente, e mi stupii che il vento tacesse
dappertutto e là soltanto agitasse i rami. Una voce — era essa bene una
voce? — certo non umana, la suonava in modo così dolce e così nuovo che
io non aveva udito nè udii mai rumore terreno che le si potesse
paragonare. La sentii non cogli orecchi, ma coll'anima. Non avrei saputo
dire se parlasse fuori di me o dentro me stesso; ma era una voce d'altra
persona che non io, perocchè mi stupì forte e mi fece rivolgere a cercar
chi fosse che parlava. Una voce mi disse: — Bambino! Povero bambino!
«Guardai tutt'intorno; non vidi nessuno. Mi alzai non atterrito, ma
commosso. Gli ontani tornarono ad agitarsi; ed allora vidi — oh certo
vidi — una figura, un'ombra bianca, diafana, leggiera, che pareva di
donna, le cui sembianze non potevo discernere con precisione, ma che
avrei detto mi guardasse benignamente affettuosa.
«Non ebbi timore di sorta. — Chi siete? Le domandai.
«Invece di rispondere alla mia richiesta l'ombra mi disse con quella sua
voce di cui non posso spiegare la natura, nè l'incanto:
«— Iddio ti ha dato un'intelligenza, e tu devi coltivarla. Un'anima
eletta verrà pietosamente a cercarti nelle tenebre della tua ignoranza.
Studia. I tuoi patimenti non ti facciano tristo. Soffri, perdona e
credi!
«E si dileguò alla mia vista.
«La notte era discesa quasi del tutto, le vacche muggivan più forte, il
tuono e il vento romoreggiavano più intensamente; qualche gocciolone di
piova cominciava a cadere con impeto qua e colà. Io mi sentiva tutto
commosso e quasi lieto nell'animo. Avviai le bestie verso casa e ci
arrivammo correndo che la piova incominciava a crosciare con iscatenato
furore.
«Fui crudelmente percosso e condannato a star senza cena, perchè avevo
tardato a rientrare. Coi panni tutti bagnati addosso fui mandato sul mio
giaciglio. M'addormentai placidamente, senza pure una lagrima. Sentivo
ancora dentro di me, come una musica, il suono delle parole della
visione.»
— Questa visione, disse Giovanni, altro non era che la tua coscienza. In
te latente era fin d'allora il sentimento del tuo valore intellettuale,
e per un fenomeno psicologico siffatto sentimento nell'estrinsecarsi
prendeva quasi persona di essere estraneo, affine di incitarti
all'opera.
Maurilio crollò con impazienza le spalle.
— Lascia stare, ti prego, le tue spiegazioni del razionalismo terreno a
corta vista. Ascolta tutto in prima, e poi vedrai se quelle spiegazioni
possono bastare.
«Il domattina corsi a quel solito luogo con una specie d'ansia desiosa.
Speravo di rivedere quella forma indistinta, di riudire quella voce
soave. Il fatto nè mi pareva meraviglioso, nè cercavo di darmene
spiegazione alcuna. Non l'avrei detto a persona al mondo; già non avevo
nessuno a cui favellarne, perchè a Menico ed a Giovanna non rivolgevo
mai la parola che quando la necessità lo volesse; ma fossi pure stato
uso a tutto svelare a qualcheduno, quel fatto avrei avuto caro di
tenerlo segreto, per me solo, e un'istintiva ripugnanza avrei sentito a
parlarne.
«Il temporale era passato e splendeva in una bella mattina il più
allegro sole del mondo. Mi sedetti sotto gli ontani, là, a quel medesimo
posto, e stetti aspettando. Inutilmente!.... Cioè no, inutilmente. La
visione mi aveva annunziato che un'anima eletta sarebbe venuta a
cercarmi nelle tenebre della mia ignoranza; e quest'anima venne.
«Nell'attesa che la desiata visione si manifestasse al mio spirito, io
m'era siffattamente assorto fuori del mondo reale, che non vedevo e non
sentivo più nulla. Ad un punto fra i miei occhi e lo splendore del sole
nella pianura, cui fissavo inconsciamente, venne a frapporsi un corpo
opaco, una persona vestita di nero. Levai lo sguardo, e mi trovai
dinanzi le sembianze paternamente affettuose e il sorriso bonario di Don
Venanzio.
«— Che fai tu? Mi disse. Dormi?
«— No, diss'io, penso.
«— Oh oh! Pensare, soggiunse egli ridendo, con quella testolina, alla
tua età!.... Ma intanto non badi ai fatti tuoi; e vedi un po' che una
delle tue vacche è fuori del pascolo, ha invaso il campo di Giammaria e
sta mangiando a piene ganascie il suo trifoglio. Così cominci per
lasciar far danno a quel pover uomo: e poi la bestia pasciuta di
trifoglio gonfierà e potrà anche morire; e per Menico la sarà brutta, e
la vedranno brutta anche le tue spalle.
«Mi scossi in sussulto «come persona che per forza è desta» e corsi a
parar via la vacca dal campo di trifoglio.
«Quando tornai presso al parroco, questi mi pose amorevolmente una mano
sul capo; e guardandomi non senza affettuoso interesse, mi disse:
«— Come sei concio! Tu non ti lavi mai, ci scommetto. Non sai che la
pulizia è l'eleganza del povero?
«Io mi sentii arrossire e chinai la testa senza rispondere.
«— La Giovanna, continuava egli, non ti ha mostrato a tenerti pulito?
«— No.
«— Ebbene, ciò non ostante avresti dovuto impararlo da te stesso.
«Io arrossii ancora di più, e chinai più basso ancora la testa. Don
Venanzio stette un poco a guardarmi così in silenzio, e il suo sguardo
mi rendeva impacciato bensì, ma non mi faceva pena, tanto ci sentivo in
esso di pietà e di affetto.
«— Oh Signor benedetto! Esclamò egli di poi come parlando a se stesso;
è egli possibile che delle creature umane tirino su un'altra creatura a
questo modo senza pulirne in niuna guisa nè il corpo nè lo spirito?
«E volgendo allora di nuovo a me la parola, chiese:
«— Tu non sai nemmeno che cosa sia leggere e scrivere, non è vero?
«— Sì, lo so: risposi levando gli occhi in volto al buon parroco. Vedo
bene Menico che fa certi segni su certo suo libretto per tenere le
ragioni di quanto vende e di quanto gli si paga, e alla domenica a messa
vedo bene Lei che legge nel grosso libro in sull'altare, e al catechismo
il vicecurato che legge la dottrina per ispiegarcela.
«— E ne avresti voglia tu di saper fare l'una cosa e l'altra?
«Veramente fino a quel punto, io non ci aveva ancora pensato mai: ma
bastò che Don Venanzio me ne dicesse, perchè di subito io me ne sentissi
invasare da un grandissimo desiderio.
«— Oh tanto, tanto..., risposi con calore.
«Il parroco mi fece una carezza alla mascella a dispetto dello sporco
che m'impiastrava la faccia, e mi disse:
«— Va bene. Io faccio scuola a tutti i ragazzi che mi vogliono mandare,
e la farò anche a te. Dirò a Menico che vi ti lasci venire, e siccome la
scuola è gratuita, non dubito punto ch'egli acconsenta.
«E così fu di fatto. Benchè la Giovanna brontolasse assai, che quella,
secondo lei, sciocca superfluità della scuola mi toglieva da farle in
casa quei pochi servigi a cui ero buono, e quindi che le mangiavo più
che mai il pane a ufo e a tradimento, pure non si osò contraddire Don
Venanzio, e tutti i giorni, in quello spazio di tempo che le bestie non
istavano alla pastura, io con immensa voglia, insieme con una frotta di
altri ragazzi del villaggio, prendevo dal buon parroco due ore di
lezione.
«Ben presto fui primo tra i primi, e a seconda che imparavo con ardore,
una smania indicibile di sapere s'impadroniva di me. Don Venanzio
meravigliato de' miei progressi, e, come diceva egli, della precocità
della mia intelligenza, mi pose affetto forse maggiore che non ad altri;
e un anno appena era trascorso dal dì ch'egli mi aveva mostrato a
discernere le lettere, quando egli mi ammetteva già alla prima comunione
e, come ti ho raccontato poc'anzi, mi rendeva istrutto di quanto era a
sua cognizione circa la mia origine.
«Un altro fra i ragazzi meco istruiti corrispondeva coi più lusinghieri
successi all'insegnamento del parroco, ed era perciò ancor egli
distintamente apprezzato da Don Venanzio.
«Per una strana combinazione della sorte, questo tale trovai, dopo lungo
intervallo che eravamo divisi, questa sera medesima; e ciò valse ancora
non poco a far più vivo in me il ricordo di quegli anni infantili.
«Eravamo ambidue superiori a tutti i nostri compagni per l'intelligenza;
egli era tale altresì per la forza e l'avvenenza del corpo. Avevamo la
sorte comune; ancor egli è un trovatello al pari di me; oltre ciò molte
idee compagne, molte aspirazioni medesime ci assembravano. Fu quello il
mio primo amico che avessi; l'unico finchè non ebbi trovato voi altri.
«Il suo nome è Gian-Luigi. Una buona donna lo tolse dall'ospizio per
balìrlo, e lo ebbe come suo. Ancor egli ha un segno che può essergli
stato messo per riconoscerlo di poi da chi lo abbandonò nella ruota
degli esposti; ma un segno vago al pari del mio: una lettera stracciata
longitudinalmente per metà di cui non si scorge data nè firma, e non si
può capir nulla. Un altro segno di ricognizione a lui diede poi la
natura in una macchia che par proprio un fiore di viola mammola sopra
una spalla.
«La natura volle esser prodiga con lui d'ogni dono: bellezza, forza,
intelligenza, coraggio; ma la sua anima irrequieta ed ambiziosa è
dominata da un superbo egoismo che è capace di tutto. Un ardore di
sapere ci possedeva entrambi, e ci animavamo l'un l'altro, e ci
aiutavamo a vicenda, egli coi meravigliosi indovinamenti della sua ratta
percezione e del suo intuito potente, io colle deduzioni forse più
profonde della mia riflessione. In breve il buon parroco non ebbe più
nulla ad insegnarci, perchè aveva trasmesso in noi tutta quella scienza
ch'egli possedeva. Ah perchè quel sant'uomo non ci potè trasmetter del
paro la calma sua acquiescenza nella sublime umiltà della fede? Quel
poco che avevamo bevuto alla coppa del sapere era ben lungi dal bastare
a dissetarci. Il nostro spirito audace andava al di là di quella cerchia
che ci pareva troppo stretta e in cui si trovava pure a suo agio l'anima
modesta del sacerdote. Avevamo divorato, poi letto di nuovo e riletto
tutti i pochi libri posseduti da Don Venanzio. Per questi libri in modo
incompleto e leggero pur anche, ma tuttavia in modo efficacissimo per le
nostre anime giovanilmente vaghe e ansiosamente curiose, ci parlava il
mondo coi suoi gran problemi filosofici, morali, sociali e politici.
Sull'arido tema datoci da quei libri innocenti lavorava con ardore la
nostra fantasia intemperante. Figurati che uno dei libri che più mi
agitassero fu il _Discorso sulla storia universale_ di Bossuet.
L'umanità allora mi apparve primamente come una grande individualità
esplicantesi traverso ai secoli per incarnare un disegno, un tipo, per
effettuare un ideale. Afferrai il concetto della filosofia della storia,
senza pur saperne il nome nè conoscerne nemmanco che altri l'avesse
fondata, esplicata, tentato determinarla in leggi generali. Fui a me
medesimo il mio Vico, mi credetti inventore e ci lavorai intorno con la
superba passione dell'inventore. Creai il mio sistema, e con fatale
orgoglio non conchiusi in favore d'una paterna provvidenza. La necessità
generantesi delle cose e l'ingranaggio della dipendenza ineluttabile di
cause e d'effetti, di premesse e di conseguenze mi parvero spiegazione
sufficiente. Preso per guida e per esemplare il Bossuet, riuscii ad
opposte conclusioni.
«Il verme che rode la moderna umanità intellettuale, lo scettico
criticismo ci possedeva entrambi, me e Gian-Luigi. Eravamo proprio
figliuoli di quella generazione, che avendo visto rovinar tutto, avendo
tentato infinite cose e riuscito a nulla, non poteva più aver fede in
cosa nessuna. Gian-Luigi, senza mai aver letto Voltaire, aveva il
sarcasmo potente di questo demolitore; quando più tardi mi vennero tra
mano le brillanti prose di quell'arguto polemista francese che il secolo
scorso scambiò per un filosofo, stupii nel trovarvi le scherzose empietà
del mio compagno d'infanzia.
«Don Venanzio s'accorse degli effetti dell'opera sua e molto se ne
dolse. Forse si pentì d'averci tolti all'ignoranza, nella quale
probabilmente avrebbe continuata la nostra fede. Volle argomentare,
vincere la nostra incredulità colla potenza della sua teologia: ma le
vivaci uscite di Gian-Luigi lo confondevano, le serrate deduzioni dei
miei ragionamenti lo imbarazzavano. Atterrito esclamava che per bocca
nostra parlava il demonio. Povero prete! Così buono e ci amava cotanto!
E l'abbiamo fatto soffrire!....
«Però se io non aveva più la cieca fede del cattolico insegnatami dal
curato, non ero neppure andato all'assoluta negazione, a cui aveva fatto
capo Gian-Luigi, il quale, di alcuni anni più innanzi nella vita di me,
aveva nelle sue concitate passioni di giovane ribollenti nella sua anima
audacissima un incitamento alle maggiori temerità della coscienza. Oltre
ciò quell'educazione che il parroco aveva incominciata di lui, era stata
compita da un altro, ammirato pure dei tanti e luminosi talenti di quel
giovanetto. Quest'altro era il medico del villaggio e, come tutti i
medici d'un tempo, aveva per dottrina il più puro e franco materialismo.
Gian-Luigi era troppo acconcio a far suoi quel sistema e quelle
opinioni. Accusava me, timido ed inconseguente, perchè non sapevo
spastoiarmi dagli assurdi pregiudizi, secondo lui, dello spiritualismo.
«Se avesse saputo poi che io nutriva entro me peggio di codesto, una
credenza che tutti i dotti battezzano per superstizione; la credenza
alle apparizioni degli spiriti umani spogliati della carne!....
«Ti confesso la mia viltà. Non ebbi mai l'ardire di pur fargliene cenno.
Avrei temuto un suo scherno su questo proposito come una crudele
trafittura nel più delicato dell'anima. Ci credevo, — e ci credo — e
quella credenza era ed è una consolazione segreta ed un segreto conforto
d'indefinita speranza. Questa credenza nel domma superbo
dell'immortalità dell'anima, della permanenza della personalità umana,
della perfezione dello spirito, mi riattaccava alla credenza di Dio.
— Ma dopo quella prima visione, disse Giovanni Selva a questo punto, ne
avesti tu delle altre?
Maurilio fece un cenno affermativo col capo e con accento sommesso e
commosso rispose:
— Sì, ma più vaghe ed incerte ancora della prima; tali però da non
lasciare in me il menomo dubbio. Sempre quella medesima forma donnesca
in atto pietoso. La voce soave non l'udii più, o qualche rara volta, un
monosillabo, un'esclamazione soltanto. Mi appariva — e da qualche tempo
tornò ad apparirmi — nel crepuscolo vespertino ad ogni volta. Io vedeva
nell'aria un mesto sorriso; e mi si cancellava dinanzi. Le tendevo le
braccia, la invocavo col grido dell'anima: era sparita. Quando avevo
sofferto di più, quando Giovanna e Menico mi avevano peggio maltrattato,
ella soleva consolarmi del suo fugace passare innanzi ai miei occhi.
L'aspettavo. Certe volte ero contento d'aver patito assai lungo la
giornata, perchè speravo che la sera avrei visto il mio buono spirito. E
non sempre veniva, ed era allora in me un'amarissima delusione, nuovo
più forte dolore. Mi sentivo allora tanto solo nell'universo! Poichè Don
Venanzio mi aveva narrato dell'esser mio, avevo dato un nome a quella
ombra, e non avevo pure un dubbio che quel nome non fosse suo. La
chiamavo mia madre.
«Il mondo soprasensibile mi parlava così all'anima, ed il mondo reale,
crescendo negli anni, mi parlava con agognante curiosità alla mente.
Cominciò a travagliare il mio spirito intorno al problema della mia
nascita. Volli cercare la ragione per cui de' genitori erano costretti a
condannare i nati dal sangue loro a quell'insulto che mi gettavano in
faccia gli uomini spietatamente colla parola bastardo; e questa ragione,
in mezzo ai miei studi incompleti, mal digesti, fatti alla ventura, mi
apparve circondata dagli spinosi avvolgimenti della quistione sociale.
Il problema della ricchezza e della povertà mi affannò allora ancor esso
con una dolorosa confusione del mio spirito. Il buon Don Venanzio non
era a gran pezza capace di dire una parola che mi fosse in quello
scombuiamento un richiamo, una guida; egli non aveva che una spiegazione
sola, un unico principio a cui tutto subordinava come effetto a causa:
la volontà di Dio. Questa spiegazione più non bastava al mio scetticismo
crescente. Mi ribellavo a veder chiudere in quell'angiporto i miei
audaci perchè. Il concetto dell'armonia universale mi sfuggiva, e
facendo, come avviene, centro all'universo della mia povera
individualità e tutto ad essa recando, conchiudevo suprema ragione delle
cose terrene essere l'ingiustizia. L'umanità, quindi, credevo affatto
fuor di strada; la rivoluzione sociale essere una necessità assoluta,
chi non volesse la civiltà caduta in vecchiaia, fatta impotente,
cristallizzata, per dir così, in forme inefficaci, colpite di morte, e
però da spegnersi come le civiltà dell'antico Oriente.
«Non abbracciavo tutte le parti dell'immenso quesito. Non apprezzavo e
non conoscevo la virtù immensa, e sola effettiva, e sola creatrice, del
graduato e lento moto di riforma, in una parola, del progresso, a cui la
terra medesima e tutto l'universo deve l'attuale suo stato e dovrà
gl'immegliamenti avvenire. Circonchiuso in istretti limiti segnati, me
inconscio, dal mio interesse personale, esageravo colla foga esuberante
della prima giovinezza.
«Più di me esagerava Gian-Luigi, anche in codesto. Il suo pensiero aveva
ancora più temerità e meno logica del mio. Dal medico, il quale con
tanto amore l'avea preso a proteggere, egli era ogni anno mandato a
Torino per gli studi. Il bravo uomo — senza prole — sognava vedere
Gian-Luigi addottorato in medicina, succedergli nella clientela del
villaggio, ed a lui vecchio prestare negli ultimi anni le amorose
assistenze d'un figliuolo.
«Ma quanto una simile sorte era lungi dal bastare all'irrequieta
ambizione del giovane! Fin dapprima questi non anelava che ad una cosa:
potersi allontanare di tanto da quel villaggio che nessuno udisse mai
più nulla di lui, fuorchè — com'egli si lusingava ottenere — la sua
fragorosa celebrità; e non tornarci mai più, fuorchè circondato da una
brillante aureola di gloria.
«— Vorrei, mi diceva più volte nei nostri confidenti colloqui, vorrei
che strabiliassero tutti che un uomo simile sia venuto fuori dal guscio
di quel bastardo che essi disprezzavan cotanto.
«Questo disprezzo era eziandio per lui un tormento uguale se pur non
maggiore a quello che io ne provava; quantunque verso di lui siffatto
sentimento si manifestasse assai meno che non verso di me, perchè egli
era forte, robusto, arditissimo, di sembiante meravigliosamente bello,
possedeva una certa autorevole imponenza di persona che faceva effetto
su tutti, ed inoltre gli era di salvaguardia la protezione del medico,
uomo nel villaggio assai considerevole e stimato.
«Molte volte Gian-Luigi protesse la mia debolezza contro gl'insulti dei
compagni, e talora — cosa che mi parve un'audacia incredibile — perfino
contro i maltrattamenti di Menico e di Giovanna che io temeva, massime
quest'ultima, più di ogni cosa al mondo. La comunanza dei pensieri e dei
sentimenti e la riconoscenza che io dovetti mettere in lui per queste
ragioni, fecero che io amassi allora Gian-Luigi più di tutti, più ancora
del buon Don Venanzio, il quale era pure il solo in cui avessi trovato
il tesoro d'un affetto che aveva del paterno. Credevo esser amato ancor
io dal mio compagno, ma quanto m'illudevo! Egli ha in codesto uno dei
privilegii consentiti alla sublimità del genio: non ama che sè, non
pensa che a sè.
«Dappoi che gli era solito venir a passare in Torino, per cagione degli
studi, la maggior parte dell'anno, il soggiorno del villaggio era
diventato a Gian-Luigi intollerabile. Fastidiva tutto. Nei primi giorni
dopo il suo arrivo, si piaceva alquanto a restar meco, per dirmi tutto
quello che aveva provato, tutto quello che aveva visto, pensato,
sentito, tutte le sue speranze, tutti i suoi pazzi progetti che detti da
lui parevano i più facili del mondo a compirsi, tutti i suoi sogni
impossibili, che passando per la sua bocca, nella foga eloquente del suo
discorso, pigliavano l'aspetto di cosa naturalissima. Ero io il solo in
quel paese che potesse capirlo, partecipare a quei suoi sentimenti,
completarli quasi coll'appassionato concorso. Io faceva sempre la mia
solita vita, se non che lavoravo assai più, pensavo ancora maggiormente,
e rubavo le ore al mio sonno, di cui avevo pur tanto bisogno, per
leggere e studiare di soppiatto. Gian-Luigi veniva a cercarmi là al
pascolo; e che festa per me il vederlo! Ad ogni volta però egli mi si
presentava così cambiato in signore che io rimaneva tutto interdetto e
non osavo più abbracciarlo. Egli mi recava innanzi gli abiti, le
maniere, il profumo, quasi direi, della vita signorile di città; e ti
lascio pensare qual effetto tutto ciò dovesse produrre in me. Maggior
effetto mi producevano ancora le sue parole. Esse mi svelavano alla
fantasia desiosa il mondo novello vagamente immaginato, l'Eden sociale
da cui eravamo esclusi noi due, ma di cui egli s'era già pur tuttavia
avanzato sino sulla soglia a mirarvi per entro ed in cui giurava di
voler entrare.
«Le sue parole mi destavano un tumulto indescrivibile, e me lo destavano
del pari i libri che egli mi recava. Furono i primi romanzi che vennero
a dar forma più precisa a quella moltitudine di esseri immaginarii che
riempivano le scene svariate e confuse delle mie fantasticaggini. Come
divoravo quei volumi! Li recavo meco dappertutto e leggevo, leggevo,
leggevo, finchè mi bastasse la vista.
«Trascorsi alcuni giorni, quando egli mi avea detto tutto, anche la mia
compagnia tornava sazievole a Gian-Luigi. Non solamente non mi cercava
più, ma se io andava in traccia di lui, mi sfuggiva. Siccome l'amavo,
ciò mi faceva soffrire. Con colpa ben maggiore, egli sfuggiva altresì la
brava donna che l'ha allevato, e che aveva ed ha tuttavia in lui un
affetto più che materno. A chi gliene muovesse rimprovero, egli
rispondeva sdegnoso: non esser egli come tutti gli altri, e le sue
azioni quindi da non misurarsi alla regola comune; non aver egli legami
di sangue con nessuno sulla terra, epperò averlo sciolto il fato da ogni
e qualunque obbligo verso chicchessia. Come nessuno, egli non amava
nulla di colà, e quei luoghi che erano sì cari — e lo sono ancora — a
me, che pure in essi ho sofferto cotanto, quei luoghi non dicevano
niente all'anima sua; ed il suo più lieto momento era quello in cui li
dovea abbandonare per tornarsene col pretesto degli studi a Torino.
«Se il medico, il quale lo manteneva all'Università, fosse vissuto, io
non so che cosa sarebbe capitato di Gian-Luigi. Forse avrebbe finito per
acconciarsi alle voglie del suo protettore ed al destino che questi gli
preparava; ma prima che il giovane terminasse il suo corso di medicina,
il dottore, assalito da una violenta malattia, in pochi dì soccombette.
«Unico suo desiderio, sul letto di morte, fu di vedere ancora Gian-Luigi
che allora trovavasi a Torino. Mandato a chiamare in fretta in fretta,
il giovane venne ad assistere all'agonia del suo benefattore. A quello
che ne udii, fu uno spettacolo fatto per addolorare un credente, ma non
per ammollire l'anima di un incredulo. Il medico materialista, malgrado
tutti i tentativi di Don Venanzio, morì nell'interezza delle sue
opinioni antireligiose. Gian-Luigi assistette al desolante spettacolo di
un'anima che lotta fisicamente contro la morte e giace vinta da questa
senza recare seco pure un barlume di speranza. La vita conchiusa tutta
in questo breve periodo di tempo, per un'anima nata dal nulla e che
torna nel nulla, gli apparve sempre più una lotta in cui bisognava
sopravanzare, un giuoco in cui bisognava vincere. Si confermò nella sua
credenza: la soddisfazione dei proprii istinti, l'appagamento dei
desiderii, essere legittima e suprema regola di vita.
«Il buon parroco non rifiutò le preghiere della Chiesa a quell'incredulo
impenitente che ne avea rifiutato i sacramenti.
«— Preghiamo sempre, egli soleva dire in ogni occasione. La preghiera
non può dirsi inutile mai, e dirla proibita mi par quasi un'eresia.
D'altronde chi può porre un limite alla misericordia di Dio?
«Gian-Luigi accompagnò sino al cimitero la bara del suo benefattore.
Credevo di vederlo piangere. Invece l'occhio suo era asciutto e quasi
più vivace del solito; aveva le guancie un po' pallide. Stette muto, e
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