La plebe, parte I - 23

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circostanti si accalca una folla elegante, fra gli abiti neri della
quale spiccano brillantemente le decorazioni che ingemmano gli stomachi
impettiti degli uomini d'importanza, i ricami indorati e inargentati
degli abiti di Corte, gli spallini, i bottoni e le armi delle divise
militari, e i diamanti e gli ori e le splendide acconciature delle dame.
Nello slargo che in mezzo al gran salone si è fatto fra la siepe fitta
dei riguardanti si avvolgono in ispire concitatamente le coppie dei
danzatori, cui, come sferza che flagella la trottola, sospinge ed incita
il ritmo balzante della musica da ballo; mentre nelle sale vicine si
allunga e si contorce come un serpente in riposo la coda di quelle
coppie che lasciano ansimando affannosamente la danza e il salone da una
porta, per rientrare, dopo il lento progredire traverso il cammino
segnato da cordoni di seta, da un'altra porta e precipitarsi con nuova
foga in quella voragine, in quel turbine della danza.
Nelle sale più lontane la folla meno densa consente ai gruppi
degl'invitati di assettarsi sopra i soffici sedili e godere quel gran
diletto del mondo che è il mormorare, in conversazione cui accompagna il
suono travelato della musica. Colà esercita il suo impero sovrano la
critica malignamente urbana, armata di malvagie insinuazioni e di più
malvagie apologie; le donne passano colà al crivello le assettature di
tutte le altre donne, fanno il conto addosso alle trine, alle sete, a
quelle nebbie che sono le stoffe d'un abito di danza, ai gioielli, alle
grazie, alla bellezza, allo spirito delle loro rivali. Ogni donna che
mette il piede in una simil festa è rivale a tutte ed ha per rivale ogni
altra che vi si trova. Colà si susurrano all'orecchio con sorrisi che
dicon troppo le spiegazioni del lusso misterioso della tale e della tal
altra; fiorisce l'aneddoto calunnioso su quelle labbra color di corallo,
si lacerano con motti arguti le rinomanze di donne, da bellimbusti e da
vecchi celibi che la pretendono allo spirito e che si fanno un giuoco
dell'onore delle famiglie. S'incrociano, si emulano, corrono il palio,
per vincere la più ingegnosamente crudele, quelle maledette ciarle che
con tanta leggerezza assassinano la fama altrui.
Più in là, in una sala meglio appartata, stanno i tavolieri da giuoco.
In paragone allo splendore delle altre stanze questa la troverete
oscura. Sopra il tappeto verde d'ogni tavolino riflettono la luce delle
candele accesevi i coprilumi bianchi all'interno, verdi al di fuori.
Intorno a quei tavolieri siedono giovani e vecchi con quell'uniformità
di vestire che forma, direi quasi, la livrea della gente elegante; e
nascondono sotto un'urbanità ostentata ed un'indifferenza d'accatto la
gioia di guadagnare e il dispetto di perdere. Fra quanti sono giuocatori
in quella sala piacemi additarvene uno, la cui figura, in verità non è
tale da confondersi colla massa delle fisionomie volgari.
È un uomo di età inoltrata, sulle cui sembianze un osservatore
riconoscerebbe tosto che i vizi e gli abusi della vita e dei piaceri
materiali andarono a gara cogli anni a togliere ogni fiore di
giovinezza, ogni soavità d'espressione, ogni mostra di affettuoso
sentimento. La sua fronte è calva, del colore dell'avorio antico,
l'occhio grifagno, il naso adunco; un sogghigno permanente, pieno di
scherno e d'ironia piega le pallide, sottili labbra tirate. Ha voce
fioca e bassa, parola maligna, arguta, crudamente epigrammatica. Un
egoismo che non si dissimula, un'aridità di cuore apertamente confessata
con un cinismo, che per l'audacia e l'ingegnosità della forma ne impone
altrui. Udendo parlare il scetticismo di quell'uomo, un'anima debole,
tutto sbalordita, si prende a dubitare di ogni cosa ancor essa, e si
domanda se non è una gran giunteria la virtù, se la filosofia della vita
e la legge ultima dei rapporti sociali, non sono quell'egoismo di vizio
avviluppato in forme eleganti, che colla vernice dell'urbanità la più
squisita ride di tutto e non si dà un pensiero serio di nulla. Veste con
eleganza inappuntabile secondo le leggi della moda e del gusto, senza
smancerie da giovinotto che stonerebbero colla sua età, col suo stomaco
curvo e colla calvizie della sua fronte. La beltà che gli è rimasta è
quella d'una mano fina, ben fatta, per dirla in una parola,
aristocratica, e come si usa dire e credere, _vero indizio di razza_.
Giuoca con ardore coperto da quella continua attenzione agli atti ed
alle parole che ha un uomo in guardia contro le sue impressioni.
L'indifferenza abituale e beffarda della sua fisionomia, direste ora un
po' simulata nell'atto con cui prende ed esaminar le carte da giuoco,
dal valore delle quali dipende la sorte di quelle somme vistose in oro
ed in argento che stanno in monete accumulate innanzi a ciascuno dei
giuocatori. Dal suo occhio grigio e vivacissimo, l'unica parte del suo
viso che conservi alcuna apparenza di gioventù, quasi direi di vitalità,
partono a tratti a tratti lampi accesi, veri getti di fiamme, cui tosto
s'abbassano a spegnere ed a velare le palpebre. Il mucchio di denari
ch'egli tiene sul tappeto verde là al suo destro lato, è maggiore di
quelli che stanno presso gli altri giuocatori. La sua mano affilata e
bianca giuocherella sbadatamente colle monete; e soltanto alcuna
rarissima volta si potrebbe notare in quella mano alcun movimento più
secco, più convulso, come determinato da un sussulto, da un
raggrinzamento di nervi. Un osservatore potrebbe, dopo sottile
investigazione, conchiuderne che in quell'essere fatto apatico ad ogni
cosa, una sola può tuttavia farne vibrare una fibra, che in quell'animo
spento ad ogni passione, una ancora vi rimane e si suscita, ed è quella
del giuoco. Quando perde, vede con volto inalterato passare i cumuli
d'oro dalla sua alla parte dell'avversario; quando guadagna gli è con
una superba freddezza che le sue dita sottili tirano le vinte monete
verso il mucchio che gli sta davanti: ma gli è nel prendere le carte che
la sua mano ha quelle certe lievissime contrazioni, gli è quando
l'avversario le batte che il suo occhio, affissandosi su di lui, mandano
quelle cotali faville.
Per sua ordinaria abitudine, ogni qual volta parla con qualcheduno, egli
serra le ciglia ed usa guardare il suo interlocutore «come vecchio
sartor fa nella cruna,» se non che a questo suo stringer degli occhi
egli sa dare le più varie e diverse espressioni; ora di una specie di
bonarietà fiduciosa, ora di una ironia profonda, ora, ed è il più
frequente, d'un orgoglio che tocca l'impertinenza. Adesso ch'egli
giuoca, codesto sogguardare è più intenso, direi quasi, e più maligno
che mai. Da quelle sue ciglia socchiuse pare che scocchino vere puntine
sottili d'acciaio a ferire gli occhi entro cui si piantano.
Questo personaggio si chiama Amedeo Filiberto Langosco conte di
Staffarda; ed a quanti aveste a quel tempo chiesto di lui in Torino,
tutti vi avrebbero risposto che era il più perfetto e il miglior
gentiluomo che vi fosse.
Nato quando appunto era incominciata la rivoluzione francese che doveva
abbattere i privilegi di casta, egli apparteneva ad una delle più
antiche famiglie della più privilegiata aristocrazia piemontese. La sua
stirpe feudale aveva conservato di primogenitura in primogenitura la
maggior parte delle vaste tenute che erano state concesse in beneficio
ai suoi antenati nella divisione delle terre fatta colla legge del più
forte dai nordici invasori, a cui appartenevano. L'asse patrimoniale era
stato accresciuto dalle graziose concessioni dei sovrani, alla causa dei
quali essi erano stati dei primi a disposare la loro, dai vistosi
stipendi goduti, dalle commende acquistate pei servigi resi allo Stato,
per le arti cortigianesche presso il principe.
Il padre di Amedeo Filiberto possedeva due o tre villaggi e tre o
quattro cariche di Corte. Il palazzo dei conti di Staffarda, fabbricato
nuovo in uno dei quartieri nuovi della città rinnovellata dopo la pace
d'Utrecht, con disegno del celebre Juvara, sta uno dei pochi monumenti
di vera arte architettonica del secolo scorso che esistano in Torino. La
grandiosa sontuosità di esso — forse troppo solenne — non è superata da
nessun'altra, per quanto signorile, fra le abitazioni dei privati. Alla
magnificenza delle forme esteriori corrisponde intieramente lo sfarzo
degl'interni ornamenti ed addobbi, dipinti, intagli in legno, dorature,
arazzi e tappeti; ma anche tutto questo ha un'aria solenne, a cui
aggiungendosi ora la vetustà, ne riesce un'apparenza melanconiosa più
che non si potrebbe dire. Sotto le ampie volte di quelle sale fatte
scuriccie dalle pesanti cortine, innanzi a quelle preziose antiche
tappezzerie d'alto liccio a gran personaggi ed a grandi fiorami, in
cospetto a quelle forme di mobili che appartengono ad un secolo spento,
uno si trova rimpiccinito, quasi perduto, come fuor di luogo, e gli pare
che la sua personalità, le foggie del suo vestire, le idee che sono
nella sua testa stonino affatto con quell'ambiente che là si trova.
Un inesplicabile fastidio, un'uggiosa tristezza direste che emanino da
quelle pareti, che regnino sovrani in quel cortile quadrato colle
finestre a cartocci di genere _rococò_, sotto gli alti archi di quelle
gallerie, come in volto ai ritratti polverosi degli antenati, che si
schierano a costa l'un dell'altro, contando la storia di dieci secoli
nelle date scritte sulle cornici dalla doratura annerita dei loro
quadri.
Gli era in questa temperie che Amedeo Filiberto aveva passata la più
triste e noiosa infanzia che possa toccare a creatura umana.
Suo padre, ciambellano di Corte, non pensava che ai suoi cavalli, alle
sue partite di caccia, ai suoi uffici di cortigiano, alle sue belle, che
con iscandalo manteneva spendiosamente; la madre era tutta presa dalla
galanteria, che dalla Francia di Luigi XV aveva passate le Alpi ed aveva
finito per piantarsi dominatrice anche intorno l'onesta Corte di Savoia;
per l'uno e per l'altra l'ultimo soggetto della loro preoccupazione era
il figliuolo che il più spesso riuscivano ad obliare, come appunto era
lor desiderio.
Amedeo cresceva abbandonato alle cure d'un prete zotico ed ignorante,
che lo annoiava di latino mettendo tutta la sua cura a insegnargli
niente, egli che con la sua prosopopea non sapeva di niente. Sotto la
cotta del prete c'era il villano rifatto che era gonfio di orgoglio coi
suoi pari sopra cui credeva essersi innalzato, ed umile piaggiatore
verso i titolati che gli davano il pane; un che di mezzo fra il
domestico e il parassita, impertinenza da questa, servilità da quella
parte, la crassa ignoranza su tutto.
Il padre e la madre, il bambino sapeva appena che esistessero. Se non li
avesse visti una volta alla settimana, il mattino della domenica,
avrebbe potuto avere di loro la stessa idea confusa che gli davano di
Dio i barocchi insegnamenti del precettore. Quel momento in cui veniva
introdotto alla presenza dei genitori, era per Amedeo un momento solenne
che gli destava nessuna impressione di gioia, nessun movimento
d'affetto, si invece un sentimento di soggezione, quasi di paura.
Gli era nel gran salone dell'appartamento da ricevere dove stavano il
conte e la contessa; questa ordinariamente seduta sopra il seggiolone,
dura stecchita nel suo busto, pettinata ed incipriata in grande
acconciatura, con uno specchio in mano a guardarsi il bell'effetto
seducente dei finti nèi sparsi con arte sulla sua faccia imbellettata,
il marito dritto per solito presso la finestra fischiando fra i denti
un'aria di caccia che accompagnava col tamburinar delle dita sui vetri.
Il bambino veniva introdotto, tenuto, quasi tirato per mano dal prete.
Ci entrava con una segreta riluttanza che non osava manifestarsi, ma che
gli faceva sembrare sempre più fastidioso e più grave quel momento. Se
lo avessero lasciato fare e' sarebbe scappato le mille miglia lontano.
— Siete qui Amedeo? Diceva con sussiego la madre, staccando per un
momento lo sguardo dallo specchietto affine di volgerlo sul figliuolo.
Dio! com'egli cresce giorno per giorno questo disgraziato!
Tendeva con atto solenne e di protezione le dita della sua mano
sovraccariche di anelli verso il piccino, il quale deponeva un timido
bacio su quelle falangi che uscivano fuori del mezzo guanto.
— È egli buono il vostro allievo, Don Tabusso? Domandava la contessa col
tono indifferente di chi chiede ad alcuno le novelle del suo cagnuolo,
alzando un momento i suoi occhi brillanti in faccia al prete che si
profondava in una riverenza.
— Buonissimo.
Il padre lasciava la sua finestra e s'accostava a passo lento.
— Che cosa gli fate studiare al contino? Diceva svogliatamente. Il
Mandosio?... Non rompetegli di troppo la testa. Capite bene ch'egli di
tutte le vostre bazzecole non ne avrà da far nulla mai.
Poneva la sua mano sul capo del figliuolo e soggiungeva:
— Ti piacerebbe più imparare la scherma e andare a cavallo, non è vero?
Sta buono che fra pochi anni ti metterò il _fioretto_ in mano, ti
comprerò un cavallino e ti darò per aio un cavallerizzo.
La madre gli pizzicava la guancia destra, facendogli alcune ammonizioni
a mezzo labbro; il padre _piroettava_ sui suoi talloni da agile
ballerino di minuetto ch'egli era, e il bambino veniva — sempre per mano
del prete — ricondotto al fastidio grave e continuo della sua
solitudine.
Quantunque a lui la Provvidenza avesse dato ricchezza e una famiglia,
ben potevasi tuttavia ascrivere alla infelice schiera dei derelitti, in
quanto che, scevrato d'ogni affetto, vivesse solo, senza compagni, in
mezzo alla poco nobile compagnia d'un corrotto e oziante servitorame.
Il destino gli avesse almeno conceduto dei fratelli! Ma no: solo a
quell'ostico studio, solo al sollazzo, solo in quel vasto palagio pieno
di ombra e di silenzio.
Ad interrompere quella uggiosa monotonia venne il terremoto, un compiuto
cataclisma — la rivoluzione francese, che come la lava d'un vulcano in
eruzione si sparse per tutta Europa.
La contessa che aveva fatto strette relazioni con alcuni emigrati
francesi nel tempo ch'essi erano rimasti alla Corte di Torino, fuggì con
loro in Germania; il conte, uomo coraggioso, si pose alla testa d'una di
quelle bande che uccidevano i francesi sbandati e i _giacobini_ isolati
per amore del re legittimo e della religione cattolica; e la durò finchè
un giorno, sorpreso in una forra egli ed i suoi uomini da un drappello
di truppa repubblicana, piuttosto che arrendersi, lasciò che una palla
gli spaccasse la testa. I beni della famiglia furono sequestrati;
dall'alto della facciata del palazzo fu atterrato lo stemma dei conti di
Staffarda; in quelle belle sale venne a crogiuolarsi la democrazia d'un
commissario francese qualunque.
E Amedeo Filiberto?
Preso da un parente lontano, che viveva in provincia, passò da una
solitudine ad un'altra, da una uggia ad una peggiore. Quando fu in caso
di portar le armi, e' si partì ed andò a sostenere il grado di
sottotenente nei reggimenti stranieri di cui allora si serviva
l'esercito inglese. Visse qua e colà la vita scioperata dei campi e
delle guarnigioni, senza amare, senz'essere amato, senza provare
menomamente il bisogno d'un affetto. A forza d'essere privo d'ogni
amore, il suo cuore ne aveva perduto ogni bisogno, come ogni stimolo.
Una specie di atrofia l'aveva inaridito. Le forze della giovinezza che
cercano e trovano solamente sfogo nella passione, sviate da tutto ciò
che è sentimento, si volsero precipitose e prepotenti a tutto quanto è
vizio. L'ardore della voluttà, le ansie del giuoco, gli eccitamenti
dell'ebbrezza la più volgare tennero luogo in lui dei diletti soavi e
dei trasporti dell'amore. A 26 anni, nel 1814, succeduta la
ristaurazione, e' gettò via l'uniforme rossa e tornò in patria, logoro,
disgustato, bacato nell'anima ed affralito di corpo. Si trovò in faccia
con uno spettro imbellettato, un vero _revenant_ del secolo spento, sua
madre, cogli stessi sentimenti, cogli stessi nèi finti sulle guancie,
cogli stessi modi, colle stesse abitudini, ma colle rughe in più sulla
faccia e con diciasette anni di vantaggio sulle spalle. Si guardarono
stupiti come una spiegazione ridicola d'un enimma di cui si fu lungo
tempo curiosi. Nel petto loro non sentirono battere l'un per l'altro a
vicenda, nemmanco un'apparenza di cuore. La madre si sgomentò di
trovarsi innanzi un figliuolo così vecchio: il conte ebbe difficoltà a
reprimere un sorriso nel vedere gli atti e l'aspetto di quella poppatola
vecchia, imbellettata e mascherata da giovane. Fra di loro nessuna
corrente di simpatia, nessun legame di fiducia, nessuna comunanza di
sentimenti. Vissero come estranei, vedendosi raramente, quantunque
abitatori del medesimo palazzo, finchè la contessa andò ad abitare il
monumento sepolcrale della famiglia nella chiesa dell'antico feudo,
restituito dalla ristaurata monarchia, monumento cui la fittizia pietà
del figliuolo ornò di due statue e di una epigrafe latina di più in
onore della memoria materna.
Amedeo Filiberto era proprio solo nel mondo. Non aveva amici, perchè il
suo carattere non era simpatico a nessuno. Anche in amicizia è vera la
profonda massima scritta in una sua novella dal Boccaccio: se vuoi
essere amato, ama. E chi amava egli il giovane profondamente blasé, se
non appena se stesso? Ebbe compagnia di parassiti, di mezzani, di
cozzoni, di cortigiani, di complici nelle orgie; non ebbe nè amante, nè
amico. Al matrimonio ci pensò — ma per giudicarlo una catena e un giogo
che non avrebbe mai voluto portare.
Il giuoco e i soverchi dispendi gli avrebbero consumato il patrimonio,
se il re non glie lo avesse salvato con un _biglietto regio_, per cui
s'imponeva ai creditori di non molestarlo oltre, e di contentarsi di
essere pagati a centellini del capitale, perdendo gl'interessi[11].
[11] Queste cose, che ora sembrano incredibili, succedevano
allora nel nostro paese. Quando un nobile era troppo
perseguitato dai suoi creditori, il sovrano lo traeva dalle
peste in siffatta guisa, ma bisognava che egli fosse proprio
nobile di tutti i quarti. Così rispettavasi a quel tempo la
giustizia civile!
Sei anni prima del giorno in cui lo vediamo introdotto nel nostro
racconto, egli aveva fatto strabiliare tutta la elegante società
torinese, e massimamente coloro che lo conoscevano più davvicino,
annunziando il suo matrimonio con una delle più belle ragazze della
città, madamigella Candida, figliuola del ricco barone La Cappa.
Il conte di Staffarda aveva 52 anni e ne mostrava 60; la sua sposa ne
aveva 18 e compariva di 16. Egli era pieno di debiti, ed ella recava un
mezzo milione di dote allo stringer del contratto, forse più di due
milioni d'eredità alla morte del padre.
La spiegazione di questo mistero era la seguente:
Anatolio La Cappa era un nobile di fresca data che avrebbe sacrificato
la metà della sua ricchezza (la quale eragli pure la cosa la più cara
del mondo) affine di poter vantare senza menzogna di compilatori
d'alberi genealogici un lungo ordine d'avi illustri con sangue azzurro
di centinaia di generazioni. Egli aveva bensì una galleria di ritratti
di antenati, ma suo padre — primo a portare il titolo di barone (ed era
stato barone dell'impero) — li aveva comperati belli e fatti e polverosi
da un rigattiere. La fantasia di un araldista aveva inventato per
ciascuno di essi un nome, una qualità, una carica ed una data. L'avolo
dell'attuale barone era stato commerciante, e la tradizione di ciò — il
che scottava tremendamente al padre di Candida — non si era ancor
affatto perduta in Torino. Il padre aveva incominciato ad innalzarsi col
favore appunto delle ricchezze ammassate dal commercio dell'antenato. Il
figliuolo del bottegaio era entrato nella magistratura, divenuto
presidente o che so io, ed insignito del titolo di barone, cui
ristaurata la Casa di Savoia, ottenne per gran ventura di avere
riconfermato al suo nome. Il figliuolo era entrato nell'amministrazione,
si era spinto su, parte per merito, parte per protezioni, che sapeva
accortissimamente procurarsi e sfruttare, alle prime cariche dello
Stato, si era coperto il petto di croci d'ogni ordine cavalleresco,
aveva acquistata un'autorità, un'influenza delle prime ed aveva inoltre
avuto il talento di saper accrescere ancora il patrimonio raccolto
dall'avo, già aumentato dal padre.
La fortuna, in ciò solo avversa, gli aveva negato un figliuolo maschio.
La sua Candida avrebbe adunato in sè tutte le glorie e tutti i denari
dei La Cappa. Il padre, ambiziosissimo per sè e per lei, voleva ad ogni
modo imbrancarla con una delle più antiche e delle più illustri prosapie
della nobiltà torinese.
Il conte Langosco s'incontrò col barone e con sua figlia, un autunno,
alla villa d'un comune conoscente. La fresca gioventù di Candida,
rincalzata da una pura ingenuità di modi, di sembiante, di parole,
accese un ultimo ardore stantio nel sangue corrotto del vecchio
libertino.
A trent'anni, quando aveva l'audacia e la spensieratezza di Don
Giovanni, avrebbe tentato sedurla. A cinquanta, con qualche reumatismo
nelle ossa, fiacco della persona e poco acconcio ormai alle scalate dei
balconi ed alle frasi incendiarie, sentì una certa tal quale lusinga del
suo egoismo nel pensare ad una brava donnina che facesse da curatrice
amorosa alle sue infermità, e che rallegrasse l'ora dell'addormentarsi
ed il momento dello svegliarsi la mattina con un visino color di rosa,
assai più gradevole a vedersi, che non la faccia senza garbo di un
domestico.
Alla prima idea che gli balenò allora alla mente del matrimonio, il
conte rise di se stesso a gola spalancata, e si promise di chiudere la
porta del suo cervello ad ogni simile pensiero biscornuto, diceva egli
con un sogghigno, che osasse ancora presentarglisi innanzi. Ma il giorno
dopo, il barone La Cappa fu leggermente indisposto, ed il conte, come
gli altri ospiti della villa, si recò a visitarlo nella sua stanza. Colà
vide Candida nell'esercizio di uno dei più preziosi e cari uffici che la
natura abbia affidato alle donne, quello di suora di carità; — e ancora
la pietà naturale in essa addoppiata dall'affetto di figlia; — e le
ironie del suo scetticismo si trovarono spuntate innanzi all'idea del
matrimonio, che profittò di quell'occasione per ricomparire più ardita
di prima. Candida, seduta presso il letto di suo padre con un lavoro in
mano, gli parve mandare in quella stanza, traverso la sua modestia, una
luce benigna e riconfortevole. Pensò alle lunghe ore ch'egli passava
nella sua solitudine, quando il male lo inchiodava sopra il suo letto
nelle ombre pesanti della sua alcova cortinata; e non ostante tutte le
promesse che s'era fatto non iscacciò con mal garbo la bandita idea, ma
anzi se ne compiacque. Ad un tratto sentì nascere in sè un sentimento
che fino allora non s'era ancora mai manifestato: la voglia di
continuare la nobile antica razza a cui aveva l'onore di appartenere.
Gli parve un suo debito supremo codesto, grave colpa il non adempierlo.
Che? Nessuno ci sarebbe stato, che, lui morto, com'egli aveva fatto per
la madre, aggiungesse nella cripta del sepolcro famigliare un monumento
ed un'epigrafe a ricordarlo? Nessuno più a portare negli alti gradi
dell'esercito, o nelle ambasciate, o nelle sale della Corte colla chiave
d'oro sulle reni, il fastoso, illustre nome di Langosco di Staffarda?
Come non aveva egli pensato mai fino allora col dovuto orrore a tanta
jattura della vera nobiltà e del paese? Finchè si era in tempo — e si
era egli veramente ancora in tempo? in quel momento il conte osava
sperarlo — finchè si era in tempo doveva affrettarsi ad antivenire un
tal pericolo.
Siffatti pensamenti occuparono la mente del conte fino all'inverno,
quando, raccolta di nuovo nella capitale tutta la società aristocratica,
egli tornò avere l'occasione di trovarsi in presenza dei belli occhioni
neri e delle lussureggianti chiome corvine di madamigella Candida.
Allora, per maggior stimolo ad affrettare quella decisione che pur
tuttavia stentava a costituirsi e fermarsi, avvenne che i debiti dessero
maggior fastidio al conte scialacquatore, e nella sua distretta, gli
apparissero quali salvatori i denari della dote di Candida che facevano
come un'aureola d'oro intorno alla bellezza della giovinetta. Si
determinò ad un tratto al passaggio di questo rubicone matrimoniale. Che
la sua domanda potesse venire respinta, egli non lo sognò neppure. Aveva
troppa coscienza del vantaggio che gli dava il suo antico casato, troppo
riteneva per impareggiabile l'onore di portare il suo nome, sapeva
troppo la smania del barone di affratellarsi colla nobiltà _vera_, per
dubitare un momentino che la sua proposta non venisse accolta col
meritato entusiasmo. Quanto al consentimento di Candida ed a quello che
potesse avvenire nel cuore di lei, egli non se ne preoccupò menomamente.
Apparteneva ad una società in cui i matrimonii sogliono intendersi e
conchiudersi dietro dati tutto diversi da quelli delle reciproche
simpatie e della comunione dei sentimenti.
Fece dunque la sua domanda, e il fatto diede ragione alle sue superbe
previsioni. Il barone aveva fino allora invano tentato il terreno di qua
e di là, per trovare un vero discendente dei paladini delle crociate, al
quale piacesse guadagnare con un semplice sì la mano, la gioventù, la
venustà ed i milioni di madamigella Candida. Ben è vero che questa non
aveva che diciott'anni, ma il barone era premuroso di godere della gioia
di vedere la figliuola innalzata a quell'altezza a cui la voleva
spingere nell'olimpo degli Dei terreni, di vederla cinta di quello
splendore, del quale ben contava seco medesimo che un riflesso avrebbe
riverberato su di lui.
Il conte di Staffarda non era più giovane — ma la sua stirpe era tanto
antica!; non aveva fama di morigerato — ma nella distinzione delle
maniere non aveva chi lo superasse; aveva una infinità di debiti — ma il
suo palazzo, il castello e le terre del suo feudo erano inalienabili,
vincolate in un maggiorasco, e Candida aveva una fortuna che si
acconciava proprio a dovere colla grandezza e collo splendore del nome.
La possibilità d'una opposizione da parte della sua figliuola, non fu
nemmanco ammessa dal buon genitore. Ed invero la giovanetta non pensò
menomamente a ribellarsi alla volontà paterna. Era stata allevata con
questa idea; la felicità del matrimonio le era stata indicata nella
purità nobiliare d'un blasone. Si era insinuato in lei la convinzione
che il genere umano era diviso in ischiatte, una sovrapposta all'altra,
e che la superiore soltanto meritava il suo riguardo; tutti gli uomini
delle caste inferiori erano poco più che animali soggetti, bene o male
addomesticati.
— Avrai diritto di sedere a Corte, le disse il padre trionfante, e
potrai essere, sarai fatta di sicuro dama della regina.
Questo le parve un gran che. Certo avrebbe preferito che tutti questi
vantaggi le venissero innanzi rappresentati da un giovane e leggiadro
cavaliere; ma dove e quando mai si può ottenere tutto ciò che si
desidera? Il suo cuore non aveva ancora parlato; l'educazione fornitale
e il modo di vita adottato erano tali da impedirgli anzi che parlasse,
contento di far tranquillamente il suo dovere d'organo essenziale alla
vita. Non ebbe nessun trasporto di gioia, non travide colla fantasia
nessuna regione dorata nell'avvenire fra nubi di rose con amori
sorridenti; ma senza la menoma riluttanza si dispose a pronunziare quel
monosillabo fatale da cui tutta l'esistenza, tutto il suo destino
dovevano dipendere, senza più redenzione.
Quel giorno in cui essa andò innanzi all'altare, ad inginocchiarsi sul
cuscino di velluto rosso gallonato d'oro per mettere la sua fresca
manina nella destra asciutta del conte, potevasi scorgere una nube di
mestizia onde, a dispetto di tutto, era circonfusa la bella di lei
figura.
Quanto a bellezza, nessun indiscreto avrebbe potuto desiderare di più in
una creatura di ossa e di carne. Un pallore che si sarebbe potuto
chiamar pensoso, rendeva più brillanti i neri occhi della giovane, colla
cui pura e bianchissima fronte si accordavano a meraviglia i bianchi
fiori d'arancio della sua corona e del mazzolino appuntato al suo petto.
Ho detto pensoso il pallore della sposa in quell'istante, perchè
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