La plebe, parte I - 22

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alimento che quello d'un po' d'acqua bevuta ai rigagnoli della campagna,
rompendo la crosta superiore del ghiaccio: ed ora lo stimolo della fame
erasi fatto intollerabile.
«Girai lo sguardo intorno, e vidi non molto lontano dalla strada un
casolare sul cui tetto fumava direi quasi allegramente il comignolo del
camino, mi diressi con coraggio a quella volta. I villani stavano giusto
per sedere al desco su cui esalavano un odoroso vapore le scodelle
schierate pel pasto mattutino, mentre la massaia con in mano l'asta
d'una gran padella stava curva sopra una vivace fiamma di fascine a
friggere un'enorme frittata.
«Il mio aspetto miserissimo e le mie vesti dissero senza bisogno d'altro
il motivo che mi spingeva, e destarono la diffidenza degli uomini e la
compassione delle donne. È raro, anzi quasi direi non succeder mai, che
una famiglia di nostri villici ad un povero sopraggiunto all'ora del
pasto, rifiuti una scodella di minestra. Gli uomini non vollero negarmi
questa carità, ma non vedevano di buon occhio che mi assidessi al
focolare domestico; le donne più pietose mi fecero posto sorridendo
presso al fuoco fiammante, al cui calore sentivo in realtà immenso
bisogno di riconfortare il mio povero corpo intirizzito.
«Prima di accettare dalle mani del capo di casa la scodella ammanitami,
dissi ad alta voce:
«— Vi ringrazio della vostra carità, brava gente; ma io vi prego che
non sia a titolo d'elemosina che mi concediate quel cibo onde pure tanto
abbisogno; penso che ciascuno deve guadagnarsi coll'opera il suo
sostentamento, e vi domando come un favore che mi diate poscia alcun
lavoro, per cui io possa almeno in parte compensarvi di quanto fate per
me.
«Mostrarono tutti una qualche sorpresa; gli uomini sorrisero, le donne
mi guardarono con una certa benigna ironia, quasi volessero dire e
queste e quelli che di poco o nulla era capace un miseruzzo della mia
fatta.
«— Bene, bene; disse bonariamente il capo casa: cominciate per mangiare
e poi vedremo a che cosa siete buono.
«Servii quel giorno ai più umili lavori della stalla, in cui c'era da
rigovernare il letame, e ci posi tanta buona volontà che ognuno ebbe a
rimanere di me soddisfatto. Ma il domani potei rendere a quella buona
famiglia un servizio ben più importante e ad essa ben più gradito. La
madre veniva sollecitando uno de' figliuoli a scrivere una lettera al
primogenito della famiglia, il quale da due anni era soldato e di cui da
più mesi non avevano ricevuto notizia, e vivevano perciò inquieti. Il
figliuolo se ne schermiva, perchè, quantunque fosse il solo che sapesse
scrivere, e' lo sapeva tanto poco che gli tornava uno stento ed una
fatica a cui egli preferiva qualunque più aspro travaglio materiale.
Udito codesto, mi proffersi a scriver io la lettera come la buona donna
desiderava, e tutti ne furono sì contenti che per poco non parve io
avessi compito a loro vantaggio un miracolo.
«Povera gente! Vivono e muoiono nella più crassa ignoranza; come non
sarebbero essi vittime di superstizioni e pregiudizii che ne deturpano
anche le più generose e favorite nature?
«Per quella famiglia c'erano due esseri che raccoglievano tutto l'odio
di cui era capace, odio che essa pur dissimulava sotto le sembianze del
più umile rispetto. Questi due esseri erano: uno il padrone della terra
ch'eglino coltivavano, ed il quale senza spargere su di essa la menoma
goccia di sudore, toglieva dei frutti della medesima la miglior parte,
l'altro il Governo, cui non conoscevano altrimenti che per l'alto prezzo
del sale cui dovevano pagare, per le contravvenzioni loro accagionate e
dovute pagare per violazione alle leggi della caccia, e finalmente per
quello che giudicavano il peggior eccesso della tirannia: lo aver loro
tolto quel figliuolo, il cui lavoro era più utile, per trascinarlo
lontano chi sa a qual vita, chi sa con quali effetti per quell'infelice
temporali e spirituali, del corpo e dell'anima!
«Questo della coscrizione, è veramente il più duro e terribile tributo
che la società abbia inventato a danno delle famiglie e dell'individuo —
e in definitiva anche a danno di se medesima.
«La famiglia si alleva con mille stenti, con mille cure un figliuolo, e
quando questo comincia ad essere in grado di compensare col frutto del
suo lavoro i sacrifizi che ha costato ai suoi, di corrispondere
degnamente col suo all'affetto dei genitori, di restituire alla
vecchiaia del padre e della madre quei beneficii di amorosi riguardi con
cui padre e madre allevarono la sua infanzia, allora appunto intravviene
il Governo che afferra questo figliuolo, lo strappa alle braccia,
all'affetto, ai bisogni della famiglia, nulla si cura delle tendenze,
degli studi precedenti, della vocazione del medesimo, ed impiccatolo in
un cravattino duro, insaccatolo in un _cappotto_, lo caccia sotto la
ferrea prepotenza d'un istruttore militare burbero, grossolano, il più
spesso manesco, ad imparare le delizie dell'_un-doi_.
«Questo povero diavolo, sceverato sino allora dagli urti e dalle malizie
del mondo per la soave cerchia della famiglia, stretto coll'amore tenace
dei campagnuoli alla sua terra, ai suoi campi, attaccato alla sua
officina, ai suoi studi, deve ad un tratto rinunciare a tutte le sue
abitudini, guastare il suo avvenire, interrompendo la sua carriera,
trovasi a contatto con una turba di compagni cui la vita soldatesca ha
già svezzati da ogni domestica delicatezza, in cui sono rappresentati
tutti i vizi sociali che fermentano e prosperano nelle agglomerazioni, a
cui pare qualità di buon armigero ostentare un certo cinismo nella
corruzion dei costumi, nell'assenza di gentilezza. Trasportato in paese
lontano dal suo, obbligato a faticoso esercizio d'un mestiere faticoso,
minutamente pesante, composto di atti di cui non vede l'utilità,
oppresso da una disciplina che offende la sua libera personalità,
costretto ad una vita innaturale, a cui tutto il più spesso in lui
ripugna, l'infelice giovane soffre finchè o soccombe, ed il caso non è
raro pur troppo[8], o vi si assuefa, avendo perciò obliterate alcune e
delle più preziose qualità del suo animo; così bene che l'esercito
avendo preso al villaggio un giovane onesto, morigerato, laborioso, buon
figliuolo, che sarebbe buon marito e buon padre, gli rende poi molte
volte un uomo vizioso, giuocatore, libertino, scaldapanche d'osteria,
inavvezzo al lavoro, prepotente, rissoso, desolazione della famiglia e
spargitore di funeste cattive abitudini fra la gioventù[9].
[8] Una statistica francese ha calcolato che fra i coscritti
mandati all'esercito, nel primo anno la mortalità è più del
doppio di quel che dovrebb'essere; negli anni successivi questa
mortalità diminuisce, finchè dopo quattro anni è ridotta allo
stato normale. I superstiti si sono _acclimatati_.
[9] Non sono molti giorni passati che io stesso ne vidi coi miei
occhi un esempio. Una povera vedova campagnuola ha due figliuoli
maschi ed una femmina; tutti tre allevati con somma cura dalla
brava donna e rinomati un tempo per i migliori che fossero nel
villaggio. Uno dei figliuoli andò soldato e fece i suoi cinque
anni. Quando tornò, nessuno l'avrebbe più riconosciuto per quel
desso, essendosi dato al vizio dell'ubriachezza, al
libertinaggio, ed avendo perso quella religione che alle
passioni del popolo è il maggior freno. Fu la disperazione
dell'intiera famiglia. Ultimamente fu richiamato sotto le armi
per la nuova guerra contro l'Austria. Cominciò per ispillare
dalla madre, dal fratello, ed anche dalla sorella — e non senza
minaccie e cattivi trattamenti — tutto il denaro che avevano e
che poterono procurarsi, vendendo questa o quella di loro robe;
e non era ancora partito a raggiungere il Corpo, che tutto già
aveva consumato in bagordi. Giunto all'esercito, non iscrisse
mai che per domandar denari, e la povera gente a farsi in
quattro per procacciarsene e mandargliene. Alla battaglia del 24
giugno cadde ferito, fu recato in un ospedale di Brescia, e
figuratevi se la povera famiglia non ebbe a tagliarsi le vene
per nuovi sussidi. Breve! Gli fu amputata una gamba e rinviato a
casa con congedo assoluto. Ci giunse appunto di questi giorni. I
suoi lo aspettavano con affetto trepidante. Egli arrivò ubriaco
marcio, e non era passata un'ora ch'egli aveva battuta la
sorella, minacciato il fratello e perso il rispetto alla madre.
«Ed ecco quindi come anche la società ne riesce ad avere un danno più
grave di quel che paia. Avrebbe potuto contare un buon operaio, un
onesto agricoltore, un lavorante, insomma, che avrebbe concorso alla
produzione della ricchezza comune; invece ne ha fatto per tanto tempo un
consumatore improduttivo, e ne' più de' casi si è preparato un membro
cancrenoso che diffonde il guasto intorno a sè.
«Quando il bisogno urgente della patria lo vuole, allora va benissimo
che si passi sopra ad ogni altra considerazione, e tutti quelli che
valgono accorrano a recare il braccio ed il sangue in difesa della
sicurezza comune, ma in tempi ordinarii, quel sistematico sottrarre una
parte della gioventù agli utili lavori, che è la coscrizione annuale, mi
pare la più ingiusta barbarie che abbia saputo inventare la nostra
vantata ma troppo manchevole civiltà. Più progrediti di noi
l'Inghilterra e gli Stati Uniti d'America che non conoscono questo
tremendo tributo, cui introdusse l'ambiziosa sete di dominio di
Napoleone, e cui condannò pur tuttavia egli stesso negli ozi di S.
Elena.
«Ma lasciamo codesto. Quasi una settimana io restai in casa di quei
buoni campagnuoli, e quando mi partii, e' mi fecero mille sollecitazioni
perchè rimanessi con loro, che un boccon di pane non mi sarebbe mancato
più mai. Il mio destino mi traeva qui. Quando ci arrivai una delle prime
persone in cui m'imbattei fu Graffigna.
«— Lo stupido animale che siete! Egli mi disse venendomi incontro con
un'aria quasi minacciosa. Non solamente rifiutate la fortuna per voi, ma
impedite che altri la colga. Voi avete avvertito Nariccia, e quel caro
amico che il diavolo attanagli, ha fatto cambiare tutte le serrature. È
una cattiva azione la vostra.
«— Sì, risposi sogghignando con disprezzo, come fu buona la vostra di
farmi scacciare di là.
«Egli si strinse nelle spalle.
«— Vi rincresce forse aver abbandonato quel dabbene scellerato d'un
avaro che vi faceva vivere di stenti? Ho agito pel vostro vantaggio.
Sicuro! Voi, contento di quel poco pane, vi sareste anneghittito come un
minchione che siete, caro martuffino dell'amor mio, e non sareste mai
più stato buono da nulla. Invece ora il bisogno vi aguzzerà l'ingegno e
vi farà capire la morale del mondo. Sarete quanto prima dei nostri, ve
lo predico io.
«— Mai! Dissi con tutta la forza del mio accento.
«Graffigna scrollò le spalle.
«— Peuh! Avete dei redditi da vivere? Vi è capitata qualche eredità dal
mondo della luna?
«— Lavorerò.
«Egli ruppe in una risata secca e stridente:
«— Lavorare! Esclamò. Che cosa? Che mestiere è il vostro? E la forza
dove la prenderete? Se non ci avete altra rivalsa, mi aspetto a vedervi
morir di fame. Gira, gira, tirerete la vita coi denti, afferrerete il
diavolo per la coda e finirete per essere dei nostri, ve lo dico io.
«— Ed io vi dico che voi non vi conosco, che non ho nulla da che fare
con voi, e vi prego quindi a non parlarmi più, a non venirmi oltre fra i
piedi.
«E con queste parole io lo lasciai.
«Girai tutti i fondachi di parecchie strade, ad ognuno dicendo che
cercavo lavoro; non mi si chiedeva neppure che cosa fossi capace di
fare, ma mi si rigettava, il più spesso di mala grazia. Stanco e
scoraggiato, non sapevo più oramai a qual santo votarmi, quando in una
di quelle strade che percorrevo vidi arrivare con gran fracasso un
grosso carrozzone carico di viaggiatori e di bagagli. Una frotta di
facchini si precipitava intorno a coloro che ne discendevano per
offerirsi a portarne i rispettivi bagagli. Pensai che questo era intanto
un modo di guadagnarmi qualche cosa; ma come aprirmi la strada in mezzo
a quegli omaccioni che facevan ressa per contendersi la preda? E ci
fossi anche arrivato, avrei potuto caricarmi di un pesante fardello
com'erano i bauli e le casse che vedevo i facchini trasportare sulle
loro spalle?
«Stavo guardando mestamente sfilarmi dinanzi e i viaggiatori che
s'affrettavano verso le loro case e i facchini che li seguivano col loro
carico, quando mi passò accosto uno di questi arrivati, la cui
fisionomia o non mi era nuova, o mi era simpatica di tanto da ispirarmi
fiducia più che non altri. Egli recava in sua mano un piccolo sacco da
viaggio, ed a parecchi che gli avevano chiesto se volesse farlo portare
da loro, aveva risposto con impazienza di no. Ebbi tanto ardire da fare
un passo verso di lui, ed additandogli il sacco dirgli in tono pieno di
supplicazione che me lo desse a portare; ma in quella il rossore mi
saliva sino sulla fronte. Fosse il mio accento, il rossore, o l'aspetto,
il fatto è che quel signore si fermò ad osservarmi.
«— Tu non sei di Torino? Mi diss'egli.
«— Signor no.
«— E ci sei venuto colla famiglia?
«— Non ho famiglia.
«— Come? Nessuno?
«— Sono affatto solo.
«Senza dir altro quel brav'uomo mi pose il sacco nelle mani.
«— Seguimi.
«Mi condusse in una delle principali strade ed entrò in una bottega da
libraio che appariva aggiustata ed aperta di fresco. A quel punto
riconobbi chi egli fosse, e dove l'avessi già visto. L'avevo veduto in
casa di Nariccia, ed era quel libraio che aveva dato in pegno le casse
di libri. Anzi queste benedette casse erano là ancor esse in mezzo a
quella bottega, come se recatevi da poco tempo. Quell'eccellente uomo di
libraio, come appresi di poi, aveva di nuovo avuta prospera la sorte, e
dal _baraccone_ era passato ad una bottega considerevole, al di sopra
della quale, negli ammezzati, aveva preso l'alloggio per la sua
famiglia. Pagato tutto il suo debito a Nariccia, ne aveva ottenuta la
restituzione del pegno; e quel giorno egli tornava da un piccol viaggio
che aveva dovuto imprendere in una delle primarie città di provincia per
cagione del suo commercio.
«Appena entrato egli nella bottega, un giovinetto, che stava dietro il
banco, s'alzò con impeto e venne a gettarsi nelle braccia di lui,
dicendo:
«— Buon giorno, babbo. Hai tu fatto buon viaggio?
«Il libraio lo abbracciò e baciò con molta tenerezza, e poi gli domandò
della madre e dei fratelli. Il giovanetto rispose che erano sopra
nell'alloggio, e allora tutti due sollecitamente s'avviarono verso la
scala che dalla retrobottega conduceva al piano superiore. Ma mentre il
figliuolo, correndo, saliva ad annunziare tutto festoso che era giunto
il padre, questi s'arrestava ricordandosi di me, e, prendendomi il sacco
di mano, accennava volermi dare qualche moneta in pagamento; ma poi,
come cambiando avviso, ripose di nuovo in tasca la borsa che ne aveva
tratta, e mi disse:
«— Aspetta qui un momento. Vado ad abbracciare i miei figli e mia
moglie e poi verrò a discorrerla teco.
«Fui lasciato solo in quella bottega dove da tutte parti non vedevo che
libri. Essi esercitavano su me una specie di fascino. Avrei voluto ad un
tratto poterli esaminar tutti. Un ladro introdotto nella bottega d'un
gioielliere piena di ori e diamanti, e lasciatovi solo, non ha più vive
tentazioni di quella che io sentiva a quel punto. Quel sapere a cui
anelava con tanto ardore l'anima mia, mi appariva là raccolto e fatto
concreto in quei libri schierati nelle scancìe onde tutte le pareti
erano coperte, rammontati in quelle casse aperte nel mezzo della stanza.
«Mi accostai a queste ultime. Al di sopra di una era appunto un volume
che stavo leggendo e non avevo ancor finito quando venni scacciato da
Nariccia. Lo presi in mano, quasi per atto meccanico, involontario; e
pochi istanti dopo io era assorto nella lettura, avendo obliato tutto il
resto del mondo.
«Fui interrotto ad un punto da una mano che si posò sopra la mia spalla.
Mi riscossi, alzai la testa, mi vidi innanzi la faccia tutto stupita del
libraio, e lasciai cadere il libro, coprendomi di rossore sino alla
fronte.
«— Che stai tu facendo costì con quel libro in mano, e così assorto che
non senti nemmanco la gente venirti addosso?
«— Mi scusi: diss'io balbuziando; leggevo e...
«— Tu leggevi? Mi stupisce già che tu sappia leggere, mi stupisce di
poi che tu legga di questi libri. Quello è il trattato di economia
politica di Say. Ora sai tu pure che bestia sia l'economia politica?
«Cedetti ad un impulso d'orgoglio e colla mia risposta gli feci
conoscere che lo sapevo e che non ero digiuno di qualche idea intorno a
quella disciplina, di cui, alla nostra Università, ancora oggidì non si
trova neanche registrato il nome[10].
[10] La prima cattedra di economia politica fu istituita
all'Università di Torino nella primavera del 1847, e fu chiamato
a professarvi lo Scialoja. Parve quella allora una gran
concessione liberale.
«Il libraio allargava tanto d'occhi.
«— Ma chi sei tu dunque? E come in quest'arnese? Qual mistero nascondi
tu sotto quei miserabili cenci?
«Io esitai. Il primo mio avviso fu di dire a quel brav'uomo tutta la
verità. In me il subitaneo impulso è sempre il migliore; gli è colla
riflessione e col ragionamento che imparo a credere più conveniente la
simulazione o i miseri consigli della diffidenza. L'offendere la verità
è un peccato che quasi sempre si volge in danno di quel medesimo che lo
commette. Anche dal lato dell'interesse, la sincerità è un buon partito
da adottarsi: io ne ho fatto in tal occasione l'esperienza a mie spese.
Se avessi detto le cose come erano realmente a quell'eccellente uomo,
egli di certo avrebbe avutomi compassione ciò nullameno, e io non mi
sarei messo nel brutto caso di perdere un giorno la sua simpatia e la
sua stima; come avvenne pur troppo. Ma l'esitazione condusse tosto in me
il timore e la vergogna. Non osai confessare le ragioni che dal mio
villaggio mi condussero a Torino, quelle che dalla casa di Nariccia mi
trassero sul selciato delle vie. Temei che se il libraio sapesse il
vero, mai più non mi avrebbe accordato alcun interesse, come parevami da
tanti indizi più che disposto a fare. Mi venne alla mente in quel punto
la favola immaginata sul mio conto da Gian-Luigi per introdurmi da
Nariccia, e la dissi macchinalmente, quasi ripugnante la mia volontà,
condannandomi meco stesso di ciò pur nel parlare.
«La mia oscitanza e il mio imbarazzo apparvero certamente a quel bravo
sig. Defasi (chè così chiamavasi) la timidità naturale e la pena
impacciosa di un giovanetto che si trova con tali condizioni infelici
nel mondo; epperò, compassionatomi assai e confortatomi a sperar bene
nell'avvenire e nell'aiuto della Provvidenza, mi domandò che cosa
volessi fare e quali progetti più mi arridessero. Risposi che ero fermo
nella volontà di guadagnarmi la vita con qualunque sorta di lavoro anche
il più umile, purchè onesto; ed egli, lodatomi assai di queste buone
intenzioni, mi disse che tornassi poscia il domani da lui che avrebbe
pensato ad alcun modo di darmi intanto qualche occupazione, e datomi,
del piccolo servigio che gli avevo reso, un largo compenso che potesse
bastare ad ogni mio bisogno per quella giornata, mi congedò con
affettuose parole.
«Il primo mio pensiero, uscendo dalla bottega del sig. Defasi, fu quello
di rifocillare il mio povero corpo affamato. Entrare in un'osteria un
po' ammodo, con quei panni addosso, non osavo; più fiate passai e
ripassai innanzi alle lucenti invetrate su cui stava scritto in
caratteri d'oro restaurant, e la eleganza di quelle sale, che a me
pareva allora la più sontuosa del mondo, mi toglieva ogni coraggio di
pure approssimarmi a quelle tavole di marmo, a cui vedevo, traverso i
cristalli, seduti signori riccamente vestiti.
«Mi ricordai ad un punto che non molto lontano dalla casa di Nariccia,
nelle strette vie della parte più antica della città, eravi una bettola,
della quale le apparenze, gli accorrenti e tutto erano in quelle più
umili condizioni che alle mie si convenissero; e mi diressi allora con
passo deciso a quella volta. Quella brutta e sporca bettolaccia — sporca
moralmente e fisicamente — rividi stassera dopo assai tempo. Là dentro
condussi a sfamarsi, come sei anni sono c'ero entrato io, quel povero
bambino che ti ho detto aver trovato colà, in quelle luride viuzze, sul
fango del lordo selciato. Al momento di porre di nuovo il piede in quel
covo, uno strano superstizioso timore mi assalse. Fra quel tempo di cui
ora ti narro e questo in cui vivo circondato dalla vostra amicizia mi
pare sia avvenuta fortunatamente una soluzione di continuità. La tua
carità, salvandomi dal suicidio, la vostra carità di tutti, facendomi
intorno quasi un ambiente di famiglia, hanno scavato sto per dire un
abisso tra quelle prime prove della vita e queste che attualmente mi
toccano. Entrando in quella povera e sconcia osteria, mi sembrò per un
momento ch'io movessi incontro a quel destino che oso sperare mi abbia
abbandonato e mi esponessi al pericolo ch'esso mi riafferrasse. Dovetti
superare una istintiva ripugnanza, quasi ammonimento di minacciante
sventura.
«Quella bettolaccia, che ora ritrovai tal quale, era frequentata dalla
peggiore ciurmaglia in cui si reclutano i ribelli all'ordine sociale,
ladri ed assassini. I miei cenci non erano in disaccordo colla povertà
del luogo e colla qualità degli avventori. Alla miseria ed all'ambiente
di essa ero ausato quant'altri mai, perchè mi trovassi colà come a mio
posto. Per pochi soldi ebbero ristoro i miei bisogni. Per più tempo di
seguito presi poscia colà i miei pasti, finchè un giorno mi si fece
innanzi in quella fetida, fumosa atmosfera, la faccia maliziosa e
malvagia di Graffigna. Egli riprese da capo le solite insinuazioni
sarcastiche e le tentazioni. Risposi seccamente che avevo trovato onesto
lavoro ed onesto guadagno; abbandonai issofatto quel lurido antro, e da
quel giorno non ci entrai più.
«L'onesto lavoro e l'onesto guadagno l'avevo trovato per davvero in casa
del signor Defasi. La fortuna questa volta mi aveva sorriso, e dalla
casa di Nariccia conducendomi a quella del libraio aveva cambiato la mia
vita in tal guisa, che gli era come avermi fatto passare dai rigori i
più crudi d'un triste inverno alla mite e soave temperie d'una fiorente
primavera.
«Tornato dal sig. Defasi, com'egli mi aveva detto di fare, il giorno
dopo quel nostro incontro, io n'era stato accolto con ancora maggiore
umanità. In breve egli aveva assestato fra noi le cose a mio sommo
vantaggio. La buona piega presa dal suo avviato commercio gli consentiva
di avere un commesso, e mi proponeva di esser quello. Ragionevole era lo
stipendio; e per mettermi in grado di provvedere alle mie prime
necessità, ebbi una conveniente anticipazione di alcune mesate del
medesimo. Egli non poteva prendermi seco ad abitare. Dovetti adunque
cercarmi un alloggio, che trovai in quelle vicinanze in un'allegra
soffitta, contro i vetri della quale veniva sollecitamente a percuotere
coi suoi raggi dorati il sol nascente. Là vivevo solo, ma non sentivo la
solitudine, imperocchè quasi tutte le ore del giorno passassi nel
fondaco, e in quelle poche della sera e della mattina avessi meco la
compagnia de' più alti spiriti che furono nell'umanità, i quali, i
portati della loro immaginazione, della scienza, fecero concreti nelle
pagine di libri immortali....
«Ah! che felice tempo fu quello ch'io passai nella bottega del libraio e
nella mia povera soffitta! La mia intelligenza si aprì allora a tutti i
più severi ammaestramenti, e con quell'ardore che possiede la mia natura
si gettò sopra tutte le parti del sapere e in ognuna fece bottino,
confusamente, incompiuto, disordinato, ma con tanto trasporto
dell'anima!... Oh! le sere ch'io passava studiando al lume della
lucernetta, sere beate, in cui pareva che nel mio pensiero si
ripercotesse tutto il pensiero dell'umanità, che innanzi alla mia mente
venissero a schierarsi tutte le idee che sono e furono e saranno
patrimonio dell'intelligenza di questa audace stirpe d'Adamo! Oh le
mattinate che io stavo meditando in faccia al sole sorgente nella sua
aureola dorata, con sotto i piedi le miserie della città sonnecchiante,
sopra il capo l'infinito! Chi me le rende quelle ore? Chi può dirne la
soavità e la bellezza?
«Coll'erudizione qua e là afferrata, senza metodo e senza logica
distribuzione accatastata nel mio cervello, sobbolliva pure, non
soffocata, ma forse anco fatta più viva, una potente fiamma di poesia;
quella fiamma che avevo sentito desta fin dai primi giorni, innanzi ai
meravigliosi spettacoli della natura; quella fiamma che non aspettava se
non la forza meravigliosa d'un affetto divino per diventar luce
raggiante ed illuminare i misteri del mio cuore, i segreti della vita,
le tenebre dell'universo....
«O poesia! Come t'amai e come t'amo, figliuola divina, che sei il sole
morale nell'universo infinito delle intelligenze! E quanto ti debbo di
gioie tremende, di superbi conati onde l'anima s'innalza, di voluttà
supreme nella vita mentale! Ben disse un poeta che tu sei un elisire, di
cui basta una goccia nel sangue d'un uomo a dargli più devozione alla
patria, più amore alla sua donna, maggior grandezza all'esistenza.
Coloro che entro le vene ne hanno due goccie, sono i forti nella sfera
politica, regnano nell'eloquenza, e dettano le ammirevoli pagine della
miglior prosa; ma quegli in cui questo elisire è il liquore stesso della
vita, quegli è il re del pensiero nel primo dei linguaggi.
«Poesia ed amore!... Due termini della grandezza dell'anima umana!...»
Qui Maurilio s'interruppe; nascose un istante il volto fra le palme, e
quando lo rialzò mostrò all'amico i tratti sconvolti e le guancie
pallide più che non fossero prima.
— Ed ora, diss'egli, ho da svelarti il mio più caro e più importante
segreto.... Ma debbo io svelartelo?
Giovanni gli prese una mano e gli disse con molto affetto.
— L'ho indovinato, il tuo segreto. Tu ami! Maurilio fu riscosso da un
subito tremito, quasi convulso.
— Sì: rispose curvando il capo.
— Parla, dimmi tutto.....
— No..... non ancora..... Sono stanco, ho bisogno di rifletterci, lascia
che io raccolga ancora le mie idee..... La notte è passata..... Questa
sera ripiglierò il mio racconto, e ti dirò ogni cosa.
Un orologio suonò in quella con lenti rintocchi le sette ore.
Giovanni balzò con impeto giù del letto.
— Già le sette! E Francesco mi attende! Per fortuna ho buone gambe e,
quantunque la sua casa sia così lontana, in due minuti sono da lui.
Corse fuori di casa. Mario era partito. Maurilio, rimasto solo nella
stanza, appoggiò la testa alla sponda del letto e chiuse gli occhi, come
dormisse. Ed era un sogno diffatti quello che si svolgeva nel suo
eccitato cervello, ma un sogno da sveglio.


CAPITOLO XXII.

Noi ci siamo riservato il diritto (se vi ricorda) di introdurci nella
sontuosa festa da ballo che aveva luogo nelle sale dell'_Accademia
Filarmonica_, quella notte appunto in cui Mario Tiburzio raccoglieva i
fili della congiura per affrettarne lo scoppio in rivoluzione, in cui
Maurilio raccontava a Giovanni Selva una gran parte dei casi della sua
vita.
Se non vi dispiace, venite, ascendiamo anche noi l'illuminato scalone,
entriamo nell'ampia, vastissima sala che sta prima nell'appartamento
signorile che occupa quella eletta società in cui concorre la parte più
ricca della borghesia torinese.
Le sfarzose sale fanno risplendere le infinite loro dorature alle
fiammelle di migliaia di doppieri. Dalla tribuna dell'orchestra nel gran
salone, piovono onde d'armonia suscitate da quanti meglio valenti
artisti conta la città. In faccia all'orchestra, sopra un palco tutto
coperto di tappeti di velluto con frangie d'oro, sorge il trono per le
LL. MM., ed ai lati i seggi dorati per le persone della Real Famiglia e
della Real Corte, dalla presenza delle quali, dietro supplicazione dei
soci, la festa dell'_Accademia_ viene onorata. Nel salone e nelle sale
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