La plebe, parte I - 31

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che non nasconda, come una colpa, l'averlo riconosciuto; voglio che i
tuoi modi non dieno ansa all'impertinenza di quei scimiotti a trattarmi
come io non tollererò mai che nessuno mi tratti, da inferiore, perchè io
mi sento inferiore a nessuno.
— Ma io.....
— Tu ieri sera fosti complice di quell'imbecille di San-Luca, la cui
oltraggiosa superbia ho dovuto punire questa mattina con un colpo di
pistola.
La contessa fu presa da un subito sgomento retrospettivo.
— Che? Esclamò essa. Tu ti sei battuto!... O cielo! Esporti così al
pericolo... E non hai pensato a me? Oh che cosa sarebbe avvenuto di me
se alcuna disgrazia t'avesse colto!
— Ho pensato al mio onore: disse asciuttamente Luigi: ho pensato al mio
giusto risentimento. Ora il contino espia la sua sciocca insolenza con
una ferita nel braccio...
— E se io ho alcuna colpa, tu me la fai espiare più crudamente ancora
col tormento che mi dànno le tue parole, il tuo contegno.... Se tu
sapessi che brutta notte ho passata in seguito alla tua lettera!... Ma
tu non vuoi aver nissun riguardo, non vuoi comprender nulla delle mie
condizioni!... Che vuoi tu, che pretendi tu da me? Che io confessi
pubblicamente aver per te mancato ai miei doveri, ai miei giuramenti,
alla dignità del mio nome?... Oh va, che tu sei ingrato verso una donna
che ha tutto sacrificato per te.
Luigi la interruppe con brusca violenza:
— Sacrificato, sacrificato!..... Tu pronunzi una parola che è un
sanguinoso ed ingiusto rimprovero... Tu credi che da parte tua sia tutto
il merito d'esser discesa fino a quest'umile individuo... Ma da parte
mia credi tu che nulla siasi dovuto, che nulla debbasi fare oltre ciò
che mi conviene, oltre ciò che io possa coi mezzi miei, per vivere nella
tua sfera, per seguirti con passo pari in questa costosa esistenza?
La contessa fece un moto di stupore e parve voler parlare. Ma egli non
glie ne diede il tempo. Lasciò le mani di lei che teneva ancora fra le
sue, e dirizzandosi della persona con mossa piena di orgoglio,
soggiunse:
— Io sono il figliuolo delle mie opere; non ho da un patrimonio
inalienabile, trasmessomi dalle prepotenze de' miei maggiori, guarentito
l'ozio e il soddisfacimento dei miei vizi e della mia vanità... Chi può
indovinare i sacrifizi che mi costa questo lusso, il quale mi è
condizione indispensabile per accostare la contessa Langosco?
Candida sentì una specie di gelo insinuarsele nel sangue. In quale
quistione bassamente economica andava ad impigliarsi la discussione!
— Che vuoi tu dire con ciò? Spiegati..... Tu non sei ricco, tu hai fatto
dei debiti?
— Io ho tutta una falange di difficoltà contro cui lottare. Fra me e te
io vedo sorgere ad ogni istante mille ostacoli di varia natura, e tutti
li voglio vincere e li vinco; nè di questo contrasto continuo e doloroso
mi lamento o mi stanco..... Ma tu, perchè mi faresti più scabra la via,
meno sicuro il coraggio concorrendo a ferirmi nell'intimo del mio amor
proprio?
Candida ebbe un movimento dell'anima, quale avrebbe avuto ogni altra
donna innamorata. Immaginò che il suo amante sostenesse crudeli
privazioni per poter mantenersi in quella vita dispendiosa della società
elegante dov'ella lo aveva trascinato. Un rincrescimento accompagnato da
un generoso impulso di venire in di lui soccorso, la fece prorompere
nelle seguenti parole:
— Ma io sono ricca!... Ma io posso venirti in aiuto. Tu forse hai
sofferto!... Oh perchè non mi hai tu detto nulla mai?
Gian-Luigi fece un atto d'orgoglio offeso:
— Io domandare?... Io!! E lo penseresti forse? Ed ella per rimediare a
quel nuovo colpo che pareva aver portato all'anima di lui, con infinito
amore, quasi supplichevole:
— Ma non sono io tua? E tu non sei mio? Quello adunque che mi
appartiene, a te appartiene...
Il _medichino_ sembrò commoversi alquanto. La guardò con occhio ch'ella
trovò intenerito ed amoroso, le disse coll'accento più seduttivo della
sua bellissima voce:
— Che tu sii benedetta per queste parole... In esse ho sentito il vero
amore. Sì, tu sei mia ed io son tutto di te fino alla morte... Ma ciò
nulla meno io non posso nulla accettare delle tue offerte. L'onore,
quale lo fabbricano gli uomini, mi vieta di dare a te e di riceverne
questo, che tra amici è uno dei migliori contrassegni di fiducia e di
affetto. A me in ogni cosa si conviene lottar solo, lottare finchè le
forze, la mente, l'audacia mi accompagnino, e quando l'accumularsi delle
avverse circostanze impedisca ogni mezzo di scampo, non resta che
sentire il freddo contatto d'una canna di pistola alla tempia, un lampo
di dolore, e poi precipitare nel mistero della morte...
— O cielo! Che di' tu?... Ah no, per amor di Dio!... Oh vorresti tu
troncar ad un colpo due vite?... A me non pensi, crudele!... A me che
tutto ho posto in te, nell'amor tuo?... Oh che non farei io per renderti
dolce e cara la vita? Come? Il mio amore non potrebbe nulla, niente
affatto per recarti pure un sollievo?... Senti, Luigi, te lo dico dal
fondo dell'anima mia, e tu devi riconoscere nel mio l'accento della
verità..... — Io son pronta a tutto per te. Vuoi tu che fuggiamo insieme
per vivere ignorati e modesti in qualche solitudine lontana?
Luigi scosse mestamente la testa.
— Vuoi tu che chiuda l'uscio del mio salotto a tutti, che non compaia in
nessun luogo più, che rinserri la mia vita qui in questa camera dei
nostri ritrovi?
— No, no; ti ho già detto che forse te ne pentiresti un giorno di poi.
— Oh no, te lo giuro... purchè tu mi ami!
— Tua natura e tuo destino sono di brillare in mezzo agli sfarzi sociali
fra cui sei nata. Perchè ti imporrei io il sacrifizio di sceverarti da
essi? Continua nella tua carriera di luce: io ti seguirò finchè mi
basteranno le forze.
Per quella volta siffatto colloquio non ebbe altra conclusione; ma la
contessa si partì di colà con una spina nel cuore. Luigi per causa di
lei trovavasi costretto a penosi imbarazzi finanziari, ed ella voleva ad
ogni modo venire in suo soccorso. A questo intento cercò di avere a sè
l'uomo che serviva il _medichino_: una strana faccia che a primo aspetto
ti pareva da melenso, a chi lo esaminasse per bene compariva da
mariuolo. Questa figura avreste potuto vedere nella bettola di Pelone,
entro quella camera riservata dalle tendoline rosse ai cristalli
dell'uscio, far parte di quella specie di sinedrio, in mezzo al quale ci
è apparso la prima volta il compagno d'infanzia di Maurilio; ed allora
non lo avreste visto verso Gian-Luigi nelle relazioni di domestico a
padrone, ma di pari a pari, con alcuna deferenza però come a capo, a cui
il proprio consentimento ha accordata una certa autorità.
Questo pseudo-servitore, certo d'accordo col giovane, dopo finto mille
tergiversazioni e mille ritrosie, si lasciò strappare dalla contessa il
segreto cui aveva una gran volontà di svelarle: che cioè Luigi era
perseguitato per alcune cambiali in iscadenza da certi creditori, i
quali poi facevano tutti capo ad un famoso usuraio, primo di tutti gli
usurai, quel falso sant'uomo di messer Nariccia.
La contessa non rimase guari a prendere la sua decisione, volle vedere
essa stessa questa tremenda arpia che, a detta di quel domestico, aveva
in pugno la sorte e la libertà del suo Luigi; e siccome la non voleva
che un simile personaggio entrasse nel palazzo Langosco, un dì, vestita
di scuro eziandio e colla veletta fitta in sugli occhi, come quando
recavasi agli amorosi convegni, ella fu a visitare l'ipocrita usuraio,
la cui abitazione già conosciamo pel racconto di Maurilio.
La gita della contessa al covo di Nariccia non si rimase pur troppo ad
una sola. Di quando in quando la fronte annuvolata di Luigi, la parola
sarcastica, alcune maledizioni alla sua sorte, ammonivano la povera
Candida che qualche nuova difficoltà finanziaria sbarrava il cammino al
suo amante: ed una volta appresa la strada della casa dell'usuraio, non
c'era più ragione per tenersi dall'accorrere a cercare colà il rimedio
al male e la salvezza pei pericoli che minacciavano il suo diletto.
Le sostanze della figliuola del barone La Cappa consumavano intanto come
un mucchio di neve al sole, assalite dall'una parte dall'amante,
dall'altra dal marito, il quale non aveva bisogno di alcun diretto
intervento della moglie per ispiccare e fondere al crogiuolo del giuoco,
i buoni pezzi di quella fortuna, stante la procura generale ch'egli
aveva ottenuta da lei nel modo che abbiam visto.
Ah! se il padre di Candida avesse mai saputo una cosa simile! Ma in ciò
andavano pienamente d'accordo marito e moglie, che ogni cautela era da
loro adoperata per nascondere la verità al barone, il quale viveva
felice nell'orgoglio di esser padre d'una contessa il cui blasone era
stato in Oriente al seguito del Conte Verde.
Fra il conte e il dottor Quercia le cose andavano di pieno accordo e il
più quietamente che mai. Amedeo Filiberto aveva in realtà posto una
certa affezione — l'affezione che può dare l'anima aridissima d'un
vecchio libertino, tipo di perfetto egoista — in quel giovane che
all'occasione era comparso così coraggioso, che mostrava in tutto che
facesse tanta destrezza, che in compagnia era sempre così allegro, che
si vantaggiava d'una distinzione naturale di maniere da parere poco
diverso da un gentiluomo allevato sotto l'ali di una primogenitura, che
aveva la squisita abilità di perder quasi sempre quando giuocasse contro
il marito della contessa Candida.
E da questa buona e domestica attinenza col conte di Staffarda, il
_medichino_ tirava per intero quel vantaggio appunto che aveva avuto in
mira, di fare cioè rispettare entro certi limiti dalla curiosità e dalle
investigazioni della Polizia il mistero della sua vita. Quest'argo dai
cento occhi, al quale è pure così facile accecarne cento e uno, aveva
bensì rivolta la sua attenzione a due personaggi che in due sfere
affatto diverse e così lontana l'una dall'altra, le si presentavano col
velo d'una specie di enimma; e questi due personaggi erano il
_medichino_ della bettola di Pelone e l'elegante dottor Quercia del
salotto della contessa Langosco. Del primo non avevansi che in nube
alcune confuse nozioni che potevano lasciare in dubbio perfino sulla
realtà dell'esistenza di quell'individuo, il quale appariva quasi un
mito nella sua qualità di centro, ispiratore e direttore di ogni fatto
di quella sorda guerra di delitti che muovono all'ordinamento sociale,
alla proprietà ed alla sicurezza dei cittadini la miseria, il vizio e
l'ignoranza della canaglia. Per quanto accortamente e con lusinghiere
promesse si fossero interrogati tutti i soldati di quell'esercito di
reietti che cascassero nelle mani della forza pubblica, intorno a
quell'essere misterioso, da nessuno mai erasi potuto ottenere una
risposta che mettesse sulle sue traccie; per quanto accurate indagini si
fossero fatte, per quanta abilità ed audacia di spie ed esploratori si
fosse adoperata, non si era potuto far capo a scoperta nessuna, e
quell'individuo rimaneva pur sempre nelle nebbie d'un mistero
impenetrabile, tanto che lo stesso commissario Tofi, espertissimo
poliziotto, non credeva alla esistenza di lui. Ma ben credeva ad essa il
più fine e destro segugio che avesse allora la polizia torinese, quel
Barnaba che abbiam visto nella taverna di Pelone.
Del dottor Quercia conoscevasi l'elegante quartieretto che abitava in
una delle strade principali della città, conoscevasi il modo dispendioso
di vita, sapevasi la sua abitudine e la sua fortuna forse soverchia al
giuoco, dal quale credevasi attingesse i mezzi di quella splendida
esistenza; ma quando la curiosità della Polizia aveva voluto penetrare
più in là nei fatti di lui, erasi trovata impacciata dalla qualità delle
attinenze che il giovane aveva nella classe più elevata e che allora era
onnipotente nella società torinese.
Gl'impiegati di Polizia erano poveri plebei che troppo temevano dover
perdere l'impiego quando eccitassero lo sdegno di un nobile protettore
di qualcheduno. La vessazione di quella Polizia, che non rispettava
quasi nulla di ciò che avrebbe dovuto essere rispettato, si arrestava
innanzi al timore di poter disgustare il marchese tale o il ciambellano
tal altro. Come osar commettere un atto arbitrario in danno d'uno che
viveva intimamente col conte di Staffarda, col marchesino di Baldissero,
col contino di San Luca ed altri parecchi di simil razza? E senza un
atto arbitrario si era già belli e certi, dalla sorveglianza che per
alquanto tempo si era esercitata su di lui, che non si sarebbe potuto
giungere a scoprir nulla sul conto del sedicente dottore, tanto erano in
sembianza regolari e tranquilli gli atti della sua apparente vita
abituale.
Ben si era tentato insinuare nella testa dura del conte Barranchi,
generale dei Carabinieri, e quindi a quel tempo capo supremo della
Polizia, alcuni sospetti riguardo a quel cotale, per eccitarlo a coprire
della sua potente risponsabilità alcuni dei soliti atti illegali da
farsi verso di lui. Ma il conte Barranchi per coprire una carica di sì
delicata natura non aveva altre qualità che la superbia e la prepotenza.
Alle prime parole fattegliene, aveva detto a suo modo, coll'accento di
un comando militare:
— Arrestatelo!
E poi all'osservazione che glie ne venne espressa, che quel giovane era
famigliarissimo dei tali e tali:
— No, cospetto; s'era affrettato a gridare: lasciatelo in pace...
Aspettate!
Quindi tenutosi per cinque minuti nella mano il suo mento quadrato in
attitudine di profonda meditazione, aveva soggiunto:
— Ne parlerò io col conte di Staffarda. Non prendete nessuna
deliberazione ed aspettate i miei ordini.
Il conte Langosco, quando il generale avevagli manifestato i sospetti
dei suoi agenti intorno al dottor Quercia si pose a ridere di tutto
cuore.
— Che cosa vi salta per la testa? Aveva risposto. Credete voi che io
voglia ammettere nella mia famigliarità un truffatore o un congiurato o
un qualche cosa di peggio? Quel bravo giovane è una persona ammodo, a
cui sarei dolentissimo se arrecaste il menomo fastidio.
— Basta, basta! Aveva risposto il famoso conte Barranchi, altrettanto
arrendevole verso i potenti, quant'era duro ed intrattabile coi deboli.
Poichè voi, conte, me ne parlate in questa guisa, non ho più nulla da
dire.
A tutti gli agenti fu dato ordine di non molestare menomamente in nessun
modo diretto, nè indiretto il dottor Luigi Quercia.
Non ostante codesto uno di quegli agenti non si era tuttavia affatto
persuaso che sotto la esistenza del pseudo-dottore non ci fosse un
mistero, e che questo mistero non interessasse la Polizia; e questo
agente era quel tal Barnaba, il quale esercitava il suo mestiere con una
vera passione, di quella guisa che un valente artista professa la sua
arte. Egli per un istinto della sua natura di poliziotto, per una
inspirazione del suo ingegno attivissimo ed eminente in quest'ordine
d'idee, era presso che sicuro nel suo intimo come l'elegante dottore e
l'incognito _medichino_ fossero una persona sola. Certo non faceva egli
nulla che potesse motivare rimostranze e richiami del dottore, e quindi
suscitare la collera del conte Barranchi; ma non cessava di tenerlo
d'occhio; e per quanto le apparenze della vita e della condotta del
signor Quercia fossero innocenti, per quanto impossibile fosse il
cogliere in fallo quell'individuo, Barnaba non si stancava di vegliare e
dubitare. S'era persuaso anzi che fra sè e quel cotale intravveniva
quasi una tacita lotta, Quercia per sottrarsi alle ricerche di lui e
renderle frustranee, egli per penetrare in quel segreto che si ostinava
a supporre nella vita del sedicente dottore.
Laonde quando, la sera del ballo dell'Accademia Filarmonica, Barnaba
ebbe notato Maurilio, alla vista del dottore, fare un atto di sorpresa,
da cui il poliziotto argomentò che fra quei due correva alcuna
attinenza, pensò egli subitamente che in quel giovane, ancora
sconosciuto, incontrato dapprima nella bettola di Pelone e poi sotto
l'atrio del palazzo in cui aveva luogo la festa da ballo; che in quel
giovane, dico, la sorte gli aveva forse presentato un bandolo per
penetrare nel fino allora chiuso mistero della vita e del passato del
signor Quercia.
Quindi lo aveva ormeggiato; e, come ho narrato, s'era Barnaba intromesso
nella loggia della portinaia in quella casa ove abitava Maurilio coi
suoi amici. Ma prima di riferir qui il colloquio che intravvenne fra il
poliziotto e la portinaia, occorre ancora che ci soffermiamo nelle
splendide sale in cui aveva luogo la festa da ballo.


CAPITOLO XXVII.

Quella sera, al ballo dell'Accademia filarmonica, il conte Langosco,
dopo avere per un po' di tempo tenuta in iscacco la fortuna del giuoco,
n'era affatto vinto e perdeva a rotta di collo. Quel mucchio di monete
che al cominciare del capitolo XXII gli abbiam visto allato sul tappeto
verde del tavolino, era sparito affatto e da alcuni minuti il conte
giuocava su parola. La sua faccia non era mutata per nulla; soltanto un
po' più pallide forse si sarebbero potute dire le sue guancie, un po'
più accesi gli sguardi, più ironico il sogghigno; ma l'urbanità elegante
del tratto, era, se fosse stato possibile, ancora maggiore del solito.
La contessa sua moglie, appoggiata al braccio ora di questo ora di quel
cavaliere, era già venuta due volte fino presso ai giuocatori con una
aria che avreste detta inquieta, come di chi cerca e non trova, aspetta
e non vede arrivare. Ella cercava, ella attendeva il suo amante, il
quale tardava di troppo dopo la promessa fattale di venir sollecitamente
alla festa.
Amedeo Filiberto, ad ogni volta aveva salutato con amichevol cenno la
moglie e rivoltole alcune indifferenti parole in francese:
— Avete voi ballato? Siete già stanca di ballare? Vi occorre qualche
cosa? Fa caldo, non è vero?
Ed altrettali simiglianti.
La terza volta che Candida, accompagnata dal conte San Luca, ricomparve
presso al tavolino dove suo marito aveva perduto tutto il denaro
recatosi allato e stava perdendo con implacabile persecuzione della
sorte, Amedeo Filiberto le disse con isquisita galanteria:
— Ah sì, venite un po' qua, contessa, a recarmi fortuna. La vostra
benigna influenza sopravanzerà, ne son certo, questo maledetto _guignon_
che mi sta addosso.
Candida s'accostò con un cotal suo sorriso d'accatto che mostrava come
la sua mente fosse a tutt'altri pensieri rivolta e venne ad appoggiare
il nudo suo braccio bellissimo, bianco e ben tornito alla spalliera
della seggiola del conte. Colà il suo sguardo seguitava a scorrere per
tutta la sala ad ogni tavoliere, come se ad uno di essi dovessero pur
finalmente apparirle quelle sembianze che finora aveva in tutta la festa
cercato inutilmente.
Langosco prese sbadatamente le carte che gli venivano distribuite in
quella, ed il valore delle quali decideva di qualche centinaio di lire;
le guardò con un'apparente indifferenza e le ripose coperte sul tappeto
della tavola. Nella sua mano si sarebbe potuto notare quel certo tremito
nervoso che ho detto.
Mentre il banchiere distribuiva le carte agli altri puntatori e le
prendeva per sè (giuocavasi al nove), Amedeo Filiberto si volse al conte
di San-Luca per domandargli con tono affatto naturale di voce:
— Non avete voi veduto il dottor Quercia?
— No: rispose San-Luca.
Candida piegò gli occhi verso il marito senza nessuna esitazione, senza
nessun impaccio e disse:
— Non è ancora venuto. Credevo anzi trovarlo qui, perchè è più facile lo
attiri il giuoco che non la danza....
— Ah voi calunniate la sua galanteria e il suo buon gusto: interruppe
scherzosamente il conte. Il diletto del giuoco, sta bene per noi
attempati, ma per un giovinotto la musica, la danza, la compagnia e la
conversazione delle belle signore...
— Otto! Gridò il banchiere abbattendo le sue carte che facevano il
numero detto.
Il conte Langosco gettò nel mucchio colle altre le sue carte dicendo
freddamente:
— Ho perso; e se la consente raddoppio la posta.
Il banchiere fece un segno affermativo del capo.
— Cara contessa: riprese Langosco sorridendo con quella sua espressione
che pareva sempre una ironia; la fortuna non vuole lasciarsi commovere
nemmanco dalla vostra presenza, o piuttosto dove siete voi stima
superfluo il venire ancor essa.
— Vuol dire che mi mandate via?
— No. Tutt'altro! non vorrei rubarvi di troppo al piacere di ballare ed
all'ammirazione altrui.
— Ah! ecco il dottore! Esclamò ad un tratto Candida, la quale non potè
tanto dissimulare che un lieve rossore non le corresse alle pallide
guancie.
— Ah sì? Fece il conte alzando il viso e guardando al di sopra dei
coprilumi colle ciglia serrate a suo modo.
Gian-Luigi si avanzava il cappello a schiaccia sotto l'ascella,
guardando attentamente di qua e di là. Pareva, e forse era una finta,
che non avesse visto nè il conte nè la contessa, ed il suo passo
dirigevasi ad altra parte, quando il marito di Candida lo interpellò:
— Eh dottore, arrivate pur finalmente.
Quercia venne sollecito al tavolino dov'era il conte: salutò e strinse
la mano a Candida, a Langosco ed a San-Luca.
— Arrivo tardi, non è vero?
— Oh sì: disse Candida lanciandogli un'occhiata di rimprovero.
— Sì proprio: soggiunse il marito con un accento che avrebbe potuto
sembrare bonarietà a chi non conoscesse l'indole di quell'uomo.
— Spero tuttavia d'essere ancora a tempo per danzare una polka colla
signora contessa, e per giuocare una partita con lei, conte.
— Sicuro; disse vivacemente Langosco. L'aspettavo appunto per codesto.
— Vorrebbe Ella mettere il giuoco innanzi alla nostra polka? Domandò la
contessa, i cui occhi neri seguitavano a saettare rimproveri all'amante.
— Certo che no; e quando siasi ch'Ella voglia favorirmi...
— Subito: ecco appunto l'orchestra che incomincia a suonare.
Luigi offrì il braccio alla contessa, la quale vi pose sopra la sua
piccola mano inguantata.
Amedeo Filiberto alzò il capo e scoccando verso di loro uno di quei suoi
sguardi pieni di malizia, disse a Quercia mentre si allontanava colla
contessa:
— La non si dimentichi nelle delizie della sala da ballo la promessa
della nostra partita.
— Fra venti minuti sarò a mantenere la promessa: rispose Gian-Luigi, ed
uscì con Candida avviandosi al gran salone.
— Perchè sei venuto così tardi? Domandò senz'altro la contessa appena
allontanati di là, con molta passione. Dove sei tu stato? Mi avevi
promesso di venir presto.
— Non l'ho potuto per certi affari che mi capitarono: rispose Gian-Luigi
con una tranquillità che lasciava scorgere una certa impazienza ed un
fastidio per queste domande.
— Che affari? Tu non hai altri affari che i tuoi sollazzi.
— Ah contessa! Disse Luigi guardandola ironicamente. Voi siete troppo
curiosa.
Candida arrossì, e stringendo forte il braccio a cui si appoggiava disse
all'orecchio del suo compagno:
— Lo sai che sono gelosa, lo sai che soffro immensamente pensandoti con
altre.... Dimmi il vero. Tu sei stato da quella donna?
Quercia scrollò lievemente le spalle. Intanto erano giunti nella sala in
cui passava col bisbiglio delle conversazioni a mezza voce e col fruscio
delle vesti delle signore, il serpente della _queue_.
— Vuole che prendiamo posto nella _queue_? Disse Luigi alla contessa.
Questa lo trasse bruscamente indietro e lo guidò in un'altra stanza,
dov'era meno frequente la folla.
— Che, tu pensi ch'io voglia ballare? Diss'ella con accento di rampogna,
in cui c'era anche dolore. Sediamoci qui in quest'angolo, dove potremo
parlare più liberamente e discorriamo.
— Come la vuole: disse Gian-Luigi inchinandosi con fredda pulitezza.
In quel salotto non c'erano che pochi gruppi d'invitati. Sedute nella
cantonata opposta a quella dove si recò la contessa Langosco, erano due
donne, l'una attempata e l'altra giovanissima, che noi, tenendo dietro a
Maurilio, abbiamo già visto uscire dal loro palazzo in carrozza e salire
le scale dell'Accademia, voglio dire la marchesa di Baldissero madre del
marchesino, e la nipote di lei, madamigella Virginia di Casatorsa, una
delle più splendide bellezze in quei giorni della città di Torino.
Passando loro dinanzi la contessa di Staffarda aveva fatto un saluto, al
quale la giovane aveva risposto con tutta grazia e gentilezza, la
vecchia invece con un sussiego molto altezzoso e con un certo sguardo
trascinato, per così dire, dalla contessa al compagno ch'ella aveva, nel
quale sguardo eravi un complesso di cose — accusa e condanna.
Intorno alla marchesa ed alla bella nipote stavano alcuni giovinotti,
fra cui il giovane che abbiamo già conosciuto sotto il nome di Francesco
Benda.
Candida sedette e fe' cenno a Luigi le sedesse dappresso. Questi obbedì.
— Rispondimi: prese a dir tosto con accento concitato e volto acceso la
contessa: e rispondimi il vero: tu sei stato da quella donna?
— Che donna? Domandò Quercia giocherellando sbadatamente colla catena e
coi pendagli che gli luccicavano sul nero panciotto ricamato; ed intanto
tenendo il suo sguardo fisso sul gruppo di persone che si trovava
dall'altra parte della sala, in mezzo al qual gruppo splendeva, per così
dire, la perfetta beltà della contessina Virginia.
— E mi domandi quale? Sai bene a cui alludo. A quella zingara, a quella
perduta.....
— Non vi scaldate cotanto, contessa: disse tutto pacato Gian-Luigi. È
bene teniate a mente che qui non siamo soli e che il vostro sembiante
concitato può far nascere sospetto sul tenore del nostro dialogo e
curiosità in altrui di udirlo, e che la indignazione con cui parlate dà
alla vostra voce tanta forza da poter soddisfare quella curiosità più
che non convenga.
Candida si morse le labbra, tacque un momento innanzi all'aspetto
sorridente di Luigi, il quale parlavale colla guisa con cui si dicono i
complimenti e si sussurrano le galanterie alle signore; poi riprese
abbassando la voce:
— Ma rispondetemi almeno.
— Cara contessa, voi mi avete fatta una di quelle domande che una donna
non dovrebbe muover mai. Perchè mettere l'uomo che vi ama nella dolorosa
condizione o di mentire, o di darvi un dispiacere?...
— Ah dunque voi siete stato colà? Proruppe la contessa i cui occhi
lampeggiarono.
— No, questa volta non ci fui, ma avrei potuto benissimo esserci andato,
come mi avvenne per l'addietro e mi avverrà ancora per l'avvenire.....
Candida si gettò verso lo schienale del sofà dove sedeva, allontanandosi
così da lui che le parlava chino verso di essa.
— Ah Luigi! Diss'ella con voce turbata da non lieve emozione, voi siete
crudele.
— No, sono sincero. Del pari che vi dico di avere un certo interesse a
continuare quell'attinenza, vi affermo che al presente non c'è nulla fra
me e quella donna, che possa rassomigliare ad un rapporto amoroso.
— Al presente? Esclamò Candida con amarezza.
— E non vi basta? Del passato che cosa vi deve importare?
— Sì, m'importa. Vorrei poterlo distruggere tanto bene che non ve ne
rimanesse pur la memoria. E poi chi mi guarentisce intorno l'avvenire?
— Eh! che queste rifritture io non le faccio più.
La contessa si ridrizzò della persona con un sobbalzo.
— Ah! voi confessate finalmente!...
— Confesso, confesso: disse Luigi impaziente.
— Non mi negaste finora di aver amato quella donna? Non mi diceste pur
anco di averla voluta accostare soltanto per aver occasione di legarvi
con mio marito?
— E così è...
— Menzogna! Voi avete mentito...
— Candida!
— Lo so di sicuro. Mi sono informata. E chi mi assicura che non
mentirete nell'avvenire, che non mentiate anche adesso?
— Mia cara, torno a pregarvi a moderare la vostra voce e l'espressione
della vostra fisionomia. Per quella dozzina di paia d'occhi che son qui,
pensate che gli è tutta Torino che ci guarda.
— Luigi: riprese dopo un poco la contessa con accento quasi
supplichevole. Tu mi dicesti più volte di amarmi.
— Sì, e te lo dico anche adesso.
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