Storia della Repubblica di Firenze v. 3/3 - 23

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cosa darsi un Principe assoluto di nome e di fatto, che vederselo
di fatto ma senza nome comandare ai Magistrati ed alle leggi più da
tiranno che da legittimo signore. Andava Filippo sino a promuovere
ed instare che si fabbricasse una Fortezza, la quale fosse un freno
in bocca alla città e la costringesse in ogni tempo all’ubbidienza.
Ma in contrario Iacopo Salviati, grande lodatore dei modi tenuti
dal suo suocero Lorenzo, ricordava come dopo alla morte di Leone lo
stato ai Medici fosse mantenuto dal solo amore dei cittadini senza
soldati nè fortezze le quali mettevano in cuore dei sudditi maggiore
sospetto di quello che dessero ai principi sicurezza; e di Filippo
soleva dire con voce presaga: voglia Iddio che egli non disegni la
fossa che a lui sia sepoltura. A questi discorsi molti da Iacopo si
allontanavano, intendendo la voglia del Papa; il quale infine, poichè
nessuno voleva scuoprirsi temendo la pubblica indignazione, risoluto
a comandare quello che invano sperava gli fosse chiesto; una volta che
circa a mezza quaresima Filippo de’ Nerli andò a chiederli licenza per
dover tornare a Firenze, gli disse queste proprie e formali parole da
questo medesimo riferite: «Dirai per nostra parte a que’ cittadini che
più giudicherai a proposito di dirlo, che noi siamo ormai condotti
col tempo pressochè a ventitrè ore, e che noi intendiamo e abbiamo
deliberato di lasciare dopo noi lo stato di Casa nostra in Firenze
sicuro. Però di’ a quei cittadini che pensino a un tal modo di governo
che eglino corrano in esso i medesimi pericoli che la Casa nostra, e
che lo disegnino di tal maniera che alla Casa nostra non possa più
avvenire quello che nel 1494 e nel 1527 avvenne, che noi soli ne
fossimo cacciati e quelli che con noi godevano i comodi dello Stato
restassero in casa loro come restarono. Però bisogna che le cose
s’acconcino in modo e di tal maniera che dovendosi perdere lo Stato,
noi ed essi ne andiamo tutti di compagnia. E dirai a quei cittadini
apertamente e in modo che l’intendano, questa essere l’intenzione e
volontà nostra fermissima: dell’altre cose ci contenteremo com’è giusto
e ragionevole, e ch’elle s’acconcino in modo che gli amici nostri, che
vogliono correre la fortuna di Casa nostra, tirino de’ comodi dello
Stato quella ragionevole parte che a ciascheduno ragionevolmente si
convenga.» Andò Filippo, e dal maggior numero di quei cittadini gli fu
risposto, che le cose della città erano ridotte in luogo che essi non
potevano nè manco volevano opporsi a quello che il Papa volesse; dovere
egli considerare come dopo le cose seguite non potrebbono essi senza
la grandezza di Casa Medici, non che avere luogo nel governo, nè manco
godere le facoltà loro e stare sicuri in Firenze: bene raccomandavano
alla Santità Sua la città e loro stessi, qualunque altra forma piacesse
a lui di dare allo Stato; ma lo pregavano che egli si facesse meglio
intendere e meglio dichiarasse la mente sua.[251]
Quindi cessata ogni pratica, mandava Clemente all’Arcivescovo di
Capua dei suoi più fidati i quali gli aprissero tutta la mente
sua; e poco appresso tornato Filippo Strozzi, persuadeva facilmente
Francesco Vettori suo amicissimo. Furono anche fatti venire Francesco
Guicciardini e Baccio Valori; e tutti questi essendo ridotti in
Firenze, si radunò la Balìa, dove si vinse una Provvisione per cui
fu data autorità alla Signoria d’eleggere Dodici cittadini, i quali
insieme col Gonfaloniere di giustizia avessero per la riforma dello
Stato e del Governo facoltà amplissima; non però accennando nel
Proemio altro che a riforme da essere grate all’universale, come sui
giudizi della Ruota e sulle Decime. Indi a pochi giorni, nel nome di
questi Riformatori, usciva una Provvisione dove, _per dare fermezza al
presente Governo e posare gli animi_, era una serie di articoli i quali
mutavano a un tratto il governo in principato d’un uomo solo; benchè
mostrassero, con sottile ma inutile studio, che agli aboliti Magistrati
dovessero altri sostituirsi per voti o a sorte, com’era costume in
Firenze.
Il primo articolo provvede e ordina questo modo: «Che per l’avvenire
in alcun tempo non si crei nè creare si debba più il magistrato della
Signoria nè il Gonfaloniere di Giustizia, ma s’intenda dopo il presente
mese d’aprile in tutto annullato ed estinto tal magistrato.»
Col secondo articolo, la Balìa viene trasformata in un consiglio che si
chiamò dei _Dugento_, sebbene il numero fosse maggiore.
Dipoi gli stessi Riformatori del Consiglio dei Dugento traggono e
istituiscono un Consiglio di _Quarantotto_ cittadini, col nome anche
di Senato, i quali abbiano autorità di vincere tutte le provvisioni di
danaro ed altre spettanti al Comune, e di eleggere ai principali ufizi
e magistrati di dentro e di fuori. La Provvisione contiene i nomi dei
primi chiamati a formare il Senato dei _Quarantotto_.
In luogo e in vece della Signoria ordinano che abbiano ad essere
Quattro Consiglieri, eletti di tre mesi in tre mesi dal numero dei
Quarantotto, i quali rappresentino i Signori, e abbiano per Capo,
con tutta l’autorità che era del Gonfaloniere, il Duca Alessandro dei
Medici col nome di Duca della Repubblica Fiorentina, e dopo lui i suoi
legittimi discendenti maschi, e quindi i più prossimi nella famiglia
Medici, sempre per via di primogenitura.
Il Duca in perpetuo abbia grado di Proposto nel Magistrato dei
_Quattro_ Consiglieri, i quali nulla possano fare senza di lui o di
persona da lui medesimo delegata, ed ogni cosa che facessero senza lui
sia irrita e nulla.
Al Consiglio dei _Dugento_ spetti di vincere le provvisioni attinenti a
particolari persone o a Comunità del Dominio, e di eleggere agli ufizi
minori.
Nè i Quarantotto nè i Dugento, nè altri Magistrati, possano adunarsi
senza la presenza del Duca o suo sostituto, a cui spetti di proporre
tutti i partiti; nè ad altri sia lecito.
I _Quarantotto_ e i _Dugento_ sieno a vita, e si rinnuovino per via
d’Accoppiatori con certe forme, le quali è inutile qui descrivere.
Non abbiano assegna di provvisione, ma di essi un certo determinato
numero debba entrare nei principali Magistrati o ufizi salariati.
Le pubbliche cerimonie sacre o profane dipendano in tutto dal Duca e
suoi Quattro Consiglieri, i quali abbiano i patronati delle chiese o
benefizi che prima spettavano alla Signoria.
Cessi la distinzione tra le Arti maggiori e minori, e la divisione dei
Quartieri che prima concorrevano partitamente alle elezioni.
Fu questo un molto ingegnoso modo che manteneva, fuori del sommo,
gli antichi magistrati collegiali con l’aggiunta sola d’un Principe
di cui fossero Ministri, perchè egli di tutti diveniva anima con
l’arbitrio: poi si fece un passo, ed anche il nome della Repubblica
fu abolito. Nel tempo medesimo i Dodici Riformatori davano a Cesare
annunzio della nuova forma di Governo da loro stessi deliberata, dove
_tolta via per sempre la dominazione di quel Magistrato creato dal
popolo ad opprimere la nobiltà, sia oggi ristretto il Governo nel Duca
ed in Quattro suoi nobilissimi Consiglieri_.[252] Il primo di maggio
1532 cessava l’antica Signoria, che ebbe ultimo Gonfaloniere Giovan
Francesco de’ Nobili.[253] Quel giorno avrebbesi dovuto installare
solennemente la Signoria nuova; ma invece l’antica, uscita di Palazzo
la mattina presto, se ne andò a casa privatamente. Il Duca ed i Quattro
Consiglieri, udita prima una Messa piana in San Giovanni, andarono
con accompagnamento di guardie al Palazzo, dove rogato e sottoscritto
l’atto della presa di possesso, e avendo costituito il Magistrato
degli Otto e gli altri che ivi dovevano rimanere, tornava il Duca collo
stesso seguito alla Casa Medici, divenuta sede dello Stato. In questo
giorno ed in tale modo finì la Repubblica.[254]

Nè poi alcun moto civile in Firenze turbò la quiete del Principato.
Il quale però fu tirannesco sotto Alessandro, come volevano la natura
di lui e l’odio di molti e in tanta penuria pubblica non sapere o non
potere usare larghezza. Non che però fosse egli senza ingegno, nè da
principio senza cura della privata giustizia; ma un breve regno bastò
a mostrarlo sfrenato e violento e pronto ai delitti. Moriva, secondo
ogni credere, per suo comando di veleno il giovane Cardinale Ippolito
dei Medici, nel quale pigliavano speranza grande i fuorusciti. Questi
facevano per l’Italia un popolo sparso di Fiorentini, operosi nelle
industrie, e molti di essi autorevoli per grado o per loro valore
proprio: era imminente un’altra guerra di Francia in Italia; Paolo III,
che succede a Clemente, aveva in odio i Medici; Andrea Doria favoriva
presso a Cesare un governo che in Firenze si accostasse a quello di
Genova. Furono quindi i principali dei fuorusciti accolti onoratamente
ed ascoltati dall’Imperatore quando egli venne a Napoli, e vi era il
Duca Alessandro andato con molti dei suoi cortigiani e consiglieri.
Quelli chiedevano l’osservanza della Capitolazione e della Sentenza
imperiale, e il Duca gravavano di molte accuse: ordinava quindi Carlo
V che fosse la causa dibattuta per iscritto più volte, ma infine
uscita sentenza che ogni cosa rimetteva in mano del Duca, i fuorusciti
si partirono, lasciata una molto nobile protesta nel nome di tutta
la loro patria. Indi a poco morì Alessandro: un suo congiunto, dopo
averlo vilmente servito, chiamato un sicario, tra loro due lo uccisero
crudelmente; nè si può ben dire se lo muovesse gelosia di famiglia,
dissennato amore di gloria, o forse per ultimo qualche pensiero di
libertà e la vergogna dell’abiettezza in che era vissuto: dopo il
fatto, Lorenzino fuggì da Firenze.
Al morto Alessandro succede Cosimo, figlio di Giovanni dalle Bande
Nere, giovane che non compiva diciotto anni; il che a taluni dei
Quarantotto che lo elessero parve occasione di porre un freno al
principato come l’avevano i Dogi a Venezia; ma egli che sapeva già da
sè volere, e aveva natura tutta di principe, sgominati facilmente gli
ostacoli dentro, si voltò contro agli avversari che stavano fuori.
Non erano solamente i confinati e gli sbanditi del 1530, nè uomini
appassionati pe’ governi popolari; ma in cima stavano di coloro che
avendo prima data la mano ai Medici per salire, non ne raccolsero
che sospetti per avere potuto credersi una volta più forti di loro.
Filippo Strozzi primeggiava tra questi pel nome e per il seguito;
due suoi figli, migliori di lui, Piero e Leone, sfuggiti alle trame
d’Alessandro, poi s’acquistarono dalle armi bella fama e morte onorata:
Baccio Valori, che si teneva male dei Medici soddisfatto, s’era
anch’egli posto co’ fuorusciti. I due cardinali Salviati e Ridolfi,
come nipoti legittimi del vecchio Lorenzo, avevano prima fatto malviso
ad Alessandro: nè potendo accomodarsi oggi a che la grandezza della
famiglia fosse andata nell’altro ramo di Casa Medici, erano in gran
fretta venuti a Firenze credendosi farvi qualcosa a pro loro; ma Cosimo
tosto gli fece andar via per bella paura, nè più altro tentarono. Gli
Strozzi attendevano a far genti, e Piero co’ primi assoldati si era
mosso da Bologna dove intorno a Filippo stavano i più dei fuorusciti.
Pareva la guerra farsi per lui, tanto grandi erano il nome suo e le
ricchezze; ma egli uomo nuovo agli ardimenti di tali imprese ed alle
cautele, andava innanzi come prediletto infino allora dalla fortuna,
ed ebbe fiducia di farsi con pochi forte in Montemurlo, antica rôcca
e allora piuttosto villa dei Nerli, a poche miglia da Firenze: era
venuto anche Piero Strozzi di fianco al Poggio di Montemurlo. Cosimo
intanto fatto sicuro del favore di Carlo V, e avuti due mila soldati
Spagnoli, gli fece andare per vie torte con Alessandro Vitelli addosso
al debole campo di Piero che non se gli aspettava e che potè a stento
salvare la vita: di là il Vitelli si voltò contro a Montemurlo, dove
con piccola resistenza ebbe prigioni Filippo e il Valori e quanti
vi erano fuorusciti, i quali furono in quel giorno istesso condotti
a Firenze come a trionfo; Filippo e Baccio sopra due vili ronzini,
quegli fino allora tenuto il maggiore uomo privato che fosse in Italia,
e Baccio dopo essere stato più mesi come principe nella patria sua.
Filippo solo, che si era dato prigione al Vitelli, andò in Fortezza;
gli altri tutti menati al Bargello, ne furono tratti per essere in
piazza, a pochi per giorno, secondo il grado o decollati o impiccati.
Un anno durarono le pratiche e le ambascerie di Cosimo a Carlo V per
avere nelle mani lo Strozzi, essendo la Fortezza allora tenuta nel nome
di Cesare. Il quale infine avendolo poi ceduto, fu sparso lo Strozzi
essersi ucciso di sua mano, lasciando anche scritte intorno a quella
sua determinazione parole solenni. Ma è più verisimile che egli avesse
la morte in segreto, forse per una sorta di compromesso tra lo Spagnolo
Castellano che rifuggiva dal consegnare un tale uomo in mano del boia,
e Cosimo stesso a cui non piaceva mandarlo al patibolo in mezzo a
Firenze.
Non fu da quel tempo la professione repubblicana che una memoria e
un sentimento: la città frattanto, «prostesa e stanca per le tante
mutazioni, si era riempita di tale diffidenza di sè stessa, che
i cittadini levando l’animo dai negozi pubblici, si rivolgevano a
stimare e procurare solamente non senza sospetto la salute delle
cose private.[255]» Cosimo I ciò non ostante esercitava scopertamente
una inquisizione minuta e severa contro ad ogni atto che sapesse di
libertà, e questi reprimeva con leggi fierissime da spaventare fino al
pensiero. Curava anche i pubblici costumi, e faceva esercitare sopra
gli stessi fatti privati una sorta d’ispezione per mezzo d’uomini
reputati onesti, i quali ciascuno nel suo vicinato vigilassero sopra
ogni azione scorretta o eccessiva, il tutto dovendo al Principe
riferire. Ordinava l’amministrazione della Giustizia, e ogni parte
del Governo con savie leggi e istituzioni, chiamando a tal fine anche
di fuori uomini dotti dei quali tuttora è viva la fama. Benchè non
fosse egli soldato, pose grande studio a bene armarsi di fortezze
e di milizie sotto a buoni capi del resto d’Italia: fondò anche un
Ordine cavalleresco sull’esemplare di quello di Malta. Fu ricchissimo
di possessioni avute per via di confische; promosse i commerci a pro
suo ed a pubblico guadagno; favorì le Arti belle, ed ebbe amicizie
di uomini letterati; ornò la città di pubblici edifizi; fondò quasi a
nuovo l’Università di Pisa, molto provvide a pro di questa città e del
negletto suo territorio; fece col suo denaro e sotto alla direzione
sua la guerra contro a Siena, la quale ottenne dagli Spagnoli con
fina politica di aggiungere allo Stato di Toscana, dove egli fu primo
Granduca.
Ma tutto un popolo educato nei pensieri di libertà era impossibile che
di subito si addottrinasse alla ubbidienza: mutò la vita, ma l’uomo
antico qualche rifugio lo trovava sempre. Ai letterati si aprì allora
un nuovo arringo nelle Accademie, le quali si andavano moltiplicando
per tutta Italia, cercando in esse anche i signori l’indipendenza che
danno le lettere. Spesso pigliavano strani nomi, e alcune volte per
bizzarria, altre per genio pedantesco, ma non di rado anche per un
qualche più arcano pensiero si ricuoprivano d’uno strano gergo. N’era
in Firenze di questa sorta; e una col titolo d’Accademia del Piano
aveva intenti politici, ai quali allora se ne mischiava dei religiosi
per la brama ch’era in molti d’una riforma. Iacopo Pitti, che era uno
di quell’Accademia, racconta averne in Inghilterra dato notizia alla
regina Elisabetta, la quale un giorno per udirne maggiori ragguagli
lo fece andare in un suo giardino e gli ascoltò con diletto grande.
Era in Firenze un’altra Accademia che non essendo piaciuta a Cosimo,
si voltava quindi tutta allo studio della lingua. Vi erano poi le
Confraternite di devozione o Compagnie, molte e diverse dai primi gradi
insino agli infimi; regnava in esse l’antico spirito, e si governavano
come altrettante repubblichette a porte chiuse, talchè i regnanti
cercarono spesso di porvi la mano, in quelle incontrando le ultime e
minute e non di rado anche risibili resistenze. Ma ivi ed in tutta la
città il genio popolare fu sempre il più forte, nè in alcun tempo alla
nobiltà venne fatto d’esercitarvi l’ascendente che altrove godeva: non
erano veramente tra’ due ceti cagioni d’odio, perchè il popolo non era
qui oppresso, ma usando osservanza meno rispettosa, pigliava licenza di
dare la berta alla cortigianesca servilità che a lui pareva essere nei
signori: del che abbiamo esempio curioso in certe memorie scritte nella
prima metà del passato secolo e che sono appresso di noi. Ma pure tra’
nobili viveva qualcuna delle tradizioni che erano guerre molto accanite
tra’ loro antichi; vi erano famiglie le quali si davano cento anni
fa nome di guelfe ed altre di ghibelline, secondo che ognuna di esse
guardasse più a Roma o a Vienna.
I Principi stessi di Casa Medici e le Corti loro qualcosa mantennero
del vivere popolano e mercantile, sebbene a Cosimo I, che ebbe indole
da tutti diversa, piacesse mostrarsi altero e terribile come lo ha
ritratto in bronzo il Cellini. Sarebbero anche scene di sangue avvenute
nella figliolanza di Cosimo e alcune di sua mano stessa; non abbiamo
noi di nessuno di quei vari casi intera certezza, ma duro sarebbe
negare ogni fede a quanto fu scritto segretamente dai nemici di quella
Famiglia e che dagli storici fu poi ripetuto. Coteste ferocie ben tosto
finirono, e spenta quella generazione della quale molti erano vissuti
dentro alla Repubblica, sviati gli animi dalle cose gravi, si diedero
alle più facili e allegre, promosse dai Principi non tanto oramai per
arte di regno, quanto per gli umori di quella famiglia: soleva questa
essere assai numerosa di figli e fratelli bene provvisti di appannaggi,
e che amando conversare familiarmente co’ belli ingegni, portavano in
Corte i costumi popolari e molta licenza di vita e di lingua. Ma lode
migliore venne ai Medici dall’avere favorito molto le scienze e gli
scienziati di tutta l’Europa, tenendo con essi carteggio frequente.
Come per mezzo dei residenti loro aveano continua e molto specificata
informazione degli eventi e dello stato dei vari paesi (del che fa fede
il nostro Archivio), così anche volevano sapere i fatti scientifici,
e d’ogni bella invenzione avere un saggio; raccomandavano che a loro
fosse mandata ogni cosa nuova o rara, che fosse possibile di rinvenire.
Quest’era un genio antico della famiglia, comune a tutti quei principi
che avevano empite di curiosità preziose le camere e le guardarobe di
Palazzo Pitti; infinchè un giorno Pietro Leopoldo, in quel fastidio
d’ogni vecchia cosa che allora correva, le vendè a prezzo vile come
uomo che non le curava, e oggi varrebbero un tesoro. La Corte dei
Medici, sempre magnifica nella sontuosità elegante delle Case e delle
Ville e dei Giardini, ebbe anche fama per gli spettacoli e le feste,
nelle quali andavano insieme al bello delle Arti le nuove invenzioni;
qui si udirono per la prima volta le Opere in musica.
Dacchè il governare divenne facile in Toscana, mostrò a paragone del
resto d’Italia sempre qualcosa di più franco e di più largo, che era il
prodotto di una cultura molto diffusa e dell’esperienza di tante cose
e tanto varie che questo popolo avea fatta, e del non essere stato mai
condotto da pochi nei quali ogni azione venisse a rinchiudersi. I dolci
tempi ebbero principio dal terzo Granduca, e si protrassero due altre
generazioni. Ferdinando I, tra molti buoni suoi provvedimenti, fondò la
città e il porto di Livorno, per lui divenuto emporio comune anche agli
Stati circonvicini, dove i commerci assai languivano: fece suo studio
attirare mercanti in Livorno di ogni nazione, usando con essi larghezze
insolite fino a quella del libero e pubblico esercizio dei vari culti:
avendo in proprio grandi ricchezze, si mescolava egli medesimo in quei
commerci, com’era costume della sua famiglia; ma fu dopo lui dismesso
affatto. La nuova città crebbe in modo che parve sproporzionato
alla Toscana, cui se da un lato diede guadagni, innestò pure la mala
usanza di vivere sopra i capitali e le industrie forestiere con meno
fatica, e disusandosi al lavoro. Nel tempo stesso fu anche ampliata la
marineria da guerra, comandata dai Cavalieri di Santo Stefano, che si
acquistarono qualche gloria con l’espugnazione d’Ippona, oggi Bona,
sulla costa d’Affrica. Male inclinato verso gli Spagnoli, Ferdinando
I fu grande amico e spesso utile ad Enrico IV, cui diede in moglie una
sua nipote che fu la regina Maria de’ Medici.
Quanto alle lettere, il decadimento scopertosi a un tratto continuava
finchè Galileo non ebbe destato gli ingegni a studi più seri; la
Scuola sua diede anche in seconda e in terza generazione uomini di
vaglia in fatto di scienze. Le case private dei Medici erano state
sede all’Accademia platonica, ed ora la reggia di quella famiglia
fortunata trovò modo in tempi più duri, nè senza una qualche sorta di
ardimento, d’accogliere in sè dopo gli studi delle idee quello ancora
delle materiali cose, che è a dire i due capi del pensiero umano. Si
radunava l’Accademia del Cimento nel Palazzo de’ Pitti, come fondata da
un Principe di Casa Medici. Essendo al tempo di Galileo meno spiccata
che oggi non sia la separazione tra le varie scienze, la fisica era
tenuta un ramo della filosofia, nè i suoi cultori mai tanto avrebbono
potuto chiudersi nell’esperimento, che non si trovassero involti in un
mondo più vasto, e dove a farsi la via non era bastante un filo solo
della intelligenza e sempre lo stesso. Quindi erano essi condotti ad
imbattersi in altri studi; e siccome tutti si danno la mano, nello
scienziato era anche spesso il pensatore e lo scrittore, e l’uomo più
intiero. Galileo mi sembra per molti rispetti tenere il sommo nella
nostra lingua, avendo egli insegnata l’arte di fare i periodi con
maggiore ordine e pienezza, il ch’è un comporre insieme più idee e
tutte rendere evidenti. La forma che egli diede al pensiero lasciò
un’impronta per bene un secolo dopo lui ne’ letterati e fin tra i
poeti; nè qui allignarono, o meno che altrove, i falsi concetti, nè vi
ebbe l’Arcadia impero assoluto.
Sotto i due ultimi Granduchi di stirpe medicea, decaddero le sorti
della Toscana. Un piccolo Stato dopo lunghi anni di pace stagnante
ridotto a vivere di tradizioni, sente ogni cosa addormentarsi e
si compiace del sonno stesso. Ma peggio avvenne alla Toscana: dal
principiare del settecento prevedendosi l’estinzione di Casa Medici, i
ministri de’ grandi Stati gelosi di quello che appellavano equilibrio
d’Europa, si studiavano regolare tra loro per via di negoziati e
di Congressi a chi anderebbe la possessione di un terreno vacante e
d’un popolo senza padrone. Mutò più volte la designazione dell’erede,
secondo i casi i quali nascevano in quel frattempo, senza che fossero
interrogati nè ascoltati quei due Principi delle cui spoglie si
disponeva. Ma benchè in tanto e inaudito abbassamento, vero è che
non mai fallirono essi al decoro del loro nome, nè ai doveri verso il
paese da cui ebbero il Principato e a cui dicevano essere in obbligo
di restituirlo. Si volsero per aiuto all’Olanda e all’Inghilterra,
come ai soli due Stati liberi che allora fossero in Europa; ma infine
costretti accettare i patti iniqui, l’ultimo di loro Giovanni Gastone
protestava contro alla violenza, sebbene in segreto, ma pure con molta
solennità e cura per la custodia di quell’Atto nel quale, inerendo a
quelle massime di diritto che sempre anche il padre avea professate;
dichiarava lo Stato essere oggi libero di sè stesso e padrone di
regolare le proprie sorti col mezzo del Senato che n’era in quel tempo
il solo rappresentante e presso cui rimase quella protesta: nè molto
dopo moriva Giovanni Gastone, in lui spegnendosi la dinastia Medicea
nell’anno 1737.
Dipoi fino al 1765 la Toscana fu governata da una Reggenza in nome
del nuovo Granduca Francesco di Lorena, marito a quella che fu poi
l’imperatrice Maria Teresa. Firenze si empieva di Lorenesi bisognosi
e male graditi agli uomini del paese che tuttavia desideravano i loro
principi cittadini: ma vero è poi che alla Toscana giovò il commercio
di nuovi uomini e d’idee nuove, che buone leggi fondamentali furono a
quel tempo almeno iniziate, che dai Lorenesi si apprese qui a meglio
tenere i conti pubblici e a ordinare alcune pratiche del Governo. Dei
nostri non pochi vissuti infino allora disanimati e solitari, sentirono
a quella scossa il principio di una vita nuova, si fecero innanzi, e
prepararono le riforme dipoi condotte con più ardire. Sallustio Bandini
senese, mostrando le cause prime del male stato in cui giaceva tenuta
in ceppi l’economia, metteva innanzi praticamente principii nuovi, che
poi divennero solenni canoni alla scienza. È chiaro il nome di Pompeo
Neri pei nuovi ordini amministrativi dei quali fu autore in Lombardia;
nè vorrebbe essere obliato quello del padre suo, che lasciò scritto,
che il Principe deve essere il primo galantuomo del suo Stato. Negli
altri studi fu decadenza, sebbene in quanto alla cultura che appariva
nelle conversazioni, Firenze avesse lode a quel tempo da insigni
stranieri.
Fino a qui null’altro volemmo noi se non cercare se una qualche
traccia della Repubblica rimanesse o nei popoli o nei Principi usciti
da quella. Col regno di Pietro Leopoldo la Toscana entrò in un nuovo
corso di tempi che ai nostri furono almeno preparazione, donde è che
riesca intorno ad essi più disputato il giudizio. Il nuovo Granduca,
venuto in età di diciotto anni dalla Germania, trovò nelle campagne
miseria grande, l’agricoltura oppressa o prostrata, l’attività spenta.
Un nuovo principio fu professato ed applicato con pari coraggio
quando alla carestia si oppose il libero scambio: delle altre riforme
lo rese capace la vocazione ch’era in lui somma per il governo e
l’amministrazione d’un piccolo Stato, guardando le cose da sè a
minuto e ordinandole per via di pratici regolamenti. In egual modo
l’esperienza d’un popolo mite, tranquillo e informato a gentilezza, gli
permise con l’abolire la pena di morte e la tortura e le confische, di
giungere a quella dolcezza e umanità di leggi di cui Leopoldo lasciò
unico esempio.
Andava il pensiero di lui fino a porre in cima allo Stato un’Assemblea
di rappresentanti le varie Provincie, i quali dovessero votare le
leggi. Pel quale effetto si confidava nell’avere qui posto freno da
un lato ai soprusi, dall’altro alle invidie, essendo per quello che
spetta alla terra diffusi tra molti godimenti del possedere e bene
accertato il premio al lavoro; le altre industrie scarse, poca la
ricchezza, ma quanto è possibile bene abbastanza distribuita; e quindi
prospere le campagne, le città tranquille e fatta comune la scienza del
contentarsi, che è madre al benessere, e da cui deriva l’unione degli
animi; donde era in Toscana come una sorta d’egualità, e Leopoldo potè
dire di non avere nel suo Stato altro che due ceti, uomini e donne.
Ma pure, a malgrado i molti vantaggi recati da lui, non fu egli mentre
visse amato in Toscana. Qui erano inclinazioni tutte casalinghe,
una gran voglia d’essere lasciati stare, allegro il vivere in campo
angusto ma lumeggiato d’antichi splendori, scarso lo stimolo del
bisogno, il genio incredulo a nuove promesse. Le buone leggi erano
imposte con atti dispotici; quanto più andavano sin giù al fondo
e alla pratica delle cose per ivi produrre effetti sicuri, tanto
più avveniva che offendessero le vecchie abitudini. Pochi erano i
consiglieri di Leopoldo, e i più tra essi, forte imbevuti delle idee
nuove, andavano in queste più là che al popolo non piacesse. I Nobili
furono da lui negletti e a lui avversi; quei Principi austriaci
avevano inclinazioni democratiche: negli avanzamenti che ebbe da lui
l’economia dei campi, la miglior parte fu dei coloni. Leopoldo, come
uomo tutto di faccende, badava poco alla sua Corte; cessarono affatto
per la nobiltà le occasioni di militare o di viaggiare nei grandi
Stati; non si andò più nemmeno a Vienna, e la Toscana si chiuse in
sè stessa. Meno d’ogni altro poteva il Clero amare Leopoldo, il quale
intendeva che il Principe avesse e praticasse una censura in cose che
attengono alle ecclesiastiche istituzioni; nel che sebbene procedesse
egli sinceramente, era sempre un capovolgere il diritto col dare ai
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