Storia della Repubblica di Firenze v. 3/3 - 09

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in Palazzo, disse: «Qui bisogna pigliare partito, noi siamo deliberati
di non morire di fame.» Due dei loro capi, che da Piombino non erano
voluti rientrare in Pisa, faceano pratiche al di fuori, tantochè infine
si deliberarono mandare uomini in campo ad Alamanno Salviati, dicendo
volere andare in Firenze a fare sottomissione, ma che egli venisse con
loro a trattare. Andarono insieme, e dopo molte difficoltà si sarebbero
accordati; ma in Pisa, ecco altri indugi per la ratificazione secondo
gli avvisi che venivano di fuori; ed in Firenze nascevano tumulti,
col dire che erano ingannati. Due o tre volte fu da Firenze e Pisa
un andare ed un venire: intanto a Pisa mancava ogni ultima speranza
d’aiuto: i contadini con que’ loro capi ch’erano in mezzo a queste
pratiche stringevano forte: gli altri infine cederono, avendo avuta
promessa che loro sarebbero lasciate le cose tolte ai Fiorentini, senza
ricercare quelle che avessero ad altri vendute. Il giorno dopo era il
_Corpus Domini_, e i Pisani vollero poter fare la processione; il che
fu concesso dai Commissari, purchè cedessero alle armi dei Fiorentini
subito le porte della città e la torre della Spina. A’ 9 di giugno
di quell’anno 1509 i Commissari con tutto l’esercito entrarono in
Pisa: le date promesse furono attenute, usando anche poi governo più
mite. Questa fu l’ultima guerra tra città e città che nell’Italia si
combattesse: erano tempi nei quali ogni cosa fino agli odii era meno
viva; sopra all’antica idea di Città, che soleva essere tanto stretta e
tanto forte, sorgeva più ampia l’idea di Stato, dimodochè Pisa godendo
favore sotto al Principato alquanto risorse.[83]
Fin dal principio della primavera Luigi XII era nuovamente disceso
in Italia con forte esercito, e rapidamente procedeva sino al fiume
dell’Adda, dove i Veneziani con dubbio consiglio si erano deliberati
d’aspettarlo. Si venne alle mani per la virtù impetuosa di Bartolommeo
d’Alviano, che non soffrendo starsi fermo alle difese, ben tosto
impegnava su quelle ghiare dell’Adda grande battaglia, nella quale
dopo lunghe prove di ferocia da ambe le parti, l’esercito Veneziano
fu rotto, essendovi rimasto ucciso grandissimo numero massimamente
di fanti, e prigione l’Alviano stesso. Dopo di che tutta quella parte
dello Stato di Venezia ch’era al di là del Mincio venne in potere dei
Francesi; e indi poi subito Verona, Vicenza e Padova, delle quali
ultime città il re Luigi, secondo i patti, faceva pigliar possesso
nel nome dell’Imperatore. Grande fu in Venezia la costernazione;
il Senato proscioglieva dall’ubbidienza i sudditi della Terraferma,
e n’ebbe aiuto più valido. Massimiliano scendeva dalle Alpi, e per
allora provvisto di denari aveva un numero grandissimo di soldati di
ogni nazione; seco andavano settecento uomini d’arme francesi e numero
allora insolito di artiglierie. Frattanto i contadini delle vicine
provincie ch’erano in arme per la Repubblica, avendo saputo in Padova
essere poca guardia di nemici, vi entrarono e portando seco gran copia
di viveri, insieme coi cittadini rafforzarono le difese. Da Venezia
dugento giovani di famiglie nobili vennero a chiudersi con molti
aderenti loro dentro alle mura di Padova, e primi due figli del doge
Leonardo Loredano. Gli assalti a Padova continuarono sedici giorni,
dopo i quali Massimiliano cedendo all’indomita costanza dei difensori,
nè senza avere intorno ad essa tentato altre prove, dovette ritirarsi
fino a Verona, e da quel giorno Venezia fu salva.
A quell’assedio erano presenti due oratori della Repubblica di Firenze,
Piero Guicciardini e Giovan Vittorio Soderini. Mandare a Cesare
ambasciate soleva ogni volta produrre dissensi, perchè si venivano in
tale caso a risuscitare necessariamente gli antichi diritti Imperiali
non mai cancellati dal fatto de’ secoli, e in quei negoziati si avevano
incontro i curialisti, pei quali Firenze aveva di libertà quanto ella
avesse di privilegi. Massimiliano chiedeva danari, dei quali aveva
bisogno grande contro a Veneziani; ma nelle formule degli atti i suoi
volevano apparisse che imponeva un censo il quale a Cesare occorreva
per andare in Roma a prendere la corona e poi fare guerra contro agli
Infedeli. Quando la prima volta gli Ambasciatori chiesero udienza a
lui per mezzo del Cancelliere, Massimiliano domandò prima se portavano
danari; e udito che no, rispose: «Qua non si vive senza danari;» e
negò l’udienza. Venuti allo stringere, chiedeano i Ministri Cesarei
sessantamila ducati e altri diecimila in drappi di seta e d’oro per
rivestire la Corte: ma gli Oratori fiorentini fecero bene; avevano
il mandato per somma maggiore, ma si accordarono per quaranta mila.
Nel Trattato, che abbiamo a stampa, la Maestà dell’Imperatore assolve
Firenze da ogni debito di censi o d’altra qualsiasi natura, e concede a
quella città, oltre all’uso delle libertà sue, _la possessione di tutto
lo Stato che attualmente gode_: in queste parole si comprendeva anche
il dominio di Pisa, che sempre gli Imperatori avevano impugnato, ma
intorno al quale ora non fu controversia. È da notare che la Maestà Sua
dichiara farsi quella confermazione delle libertà e del dominio della
Repubblica fiorentina, _ad omnem cautelam et quemlibet juris effectum_.
Diceano a Firenze che non ve n’era bisogno, ed i Tedeschi sapevano bene
che erano diritti ora impossibili a rivendicare.[84]
Massimiliano con le prime mosse avea facilmente recuperato Gorizia,
Trieste e Fiume, ch’erano d’Imperiale giurisdizione. Ferdinando come
re di Napoli era venuto in possesso di tutti i porti sull’Adriatico
prima occupati dai Veneziani; Giulio II avea ricondotto sotto al
dominio della Chiesa Ravenna e le altre città di Romagna. Per questi
fatti le ire del Papa s’erano placate, e in quei disastri dovette
Venezia mostrarsegli forte ed all’Italia necessaria; nè a Giulio
mancavano pensieri di principe, nè amava i Francesi egli che aveva
sofferto di vivere ad essi cliente nei tristi suoi giorni. Sospetti ed
offese antiche e recenti vie più accendevano quella fibra sanguigna e
focosa; quindi si distaccò dalla Lega, e il rimanente della sua vita
fu tutto ravvolto in un feroce pensiero, quello di cacciare d’Italia
i Francesi. Quindi seguitarono tre anni di guerre, delle quali non è
ufficio nostro raccontare tutti i fatti vari e crudeli. Battaglie di
terra, battaglie di navi sul fiume del Po; Venezia e il Papa insieme
cercavano la distruzione del Duca di Ferrara amico ai Francesi e
feudatario della Chiesa; e intanto altre armi tedesche insanguinare le
città Venete, e altre armi francesi scendere in Romagna. Giulio II,
venuto in Bologna con tutta la Corte, comandava quella guerra nella
quale pigliata Modena, la riuniva al Patrimonio della Chiesa; e andato
contro alla Mirandola, dove una donna tutrice di piccoli figli della
casa Pico seguiva gli Estensi, il vecchio Giulio, nel cuore del verno,
tra fanghi e geli e sotto alla neve con gli stivali in piede e tutto
armato piantava egli stesso e dirizzava le batterie, correva pericoli
dagli agguati dei Francesi[85] e dalle artiglierie della terra, dentro
alla quale finalmente entrò per la breccia: allora Giulio non si
ricordava d’essere pontefice. Ma il Trivulzio, venuto al comando per
il re Luigi, vinceva in Romagna, e sgominate le genti del Papa, faceva
rientrare i Bentivogli in Bologna. Non cessò la guerra, ma Giulio
tornava in Roma. Aveva cercato di muovere contro a Francia il nuovo
re d’Inghilterra Arrigo VIII; faceva poi scendere in Lombardia una
grossa mano di Svizzeri sotto il guerriero Vescovo poi Cardinale di
Sion: aveva con maggiore effetto, ma da principio segretamente, fatta
lega col re Ferdinando, il quale non appena assicurato di governare
la Spagna intera per la tutela ch’egli ebbe del piccolo nipote Carlo,
si volse tutto contro a Luigi XII che più anni aveva tenuto a bada con
false amicizie. Mandava pertanto egli in Italia un grosso esercito di
Spagnoli, donde poi nacquero eventi maggiori.[86]
Dalle due parti si adopravano anche le armi spirituali. Il re Luigi
aveva chiamato un’Assemblea del Clero francese, la quale fermando certi
punti della disciplina, citava il Papa dinanzi a un Concilio, qualora
avesse ai loro decreti negato l’assenso. Concorreva in questi propositi
il Re de’ Romani, il quale per mezzo del suo Cancelliere vescovo di
Gurck cercava farsi arbitro di quella contesa: quanto al Concilio
lo avrebbe egli molto desiderato, ma purchè fosse in qualche città
dell’Allemagna; al che i Francesi per modo alcuno non consentivano.
Si era fermato Luigi XII nel pensiero di radunarlo nella città di
Pisa, e a questo fine aveva segretamente richiesto in Firenze se la
Repubblica vi consentirebbe. Qui erano due parti: chi amava il popolo e
la libertà, voleva anche una riforma nelle cose della Chiesa; e questi
essendo francesi d’animo ed avendo seco il Gonfaloniere Soderini, si
vinse di permettere in Pisa la radunata del Concilio con tanto maggiore
favore che l’altra parte in quel tempo era molto sospetta di stare co’
Medici: quel voto, sebbene dato da centocinquanta cittadini, rimase
segreto. Il Papa intanto, volendo egli stesso preoccupare il campo,
aveva chiamato in Laterano un Concilio, al quale intervennero la parte
maggiore dei Cardinali, e vi si tennero alcune sessioni, dove subito
fu condannato quell’altro Concilio e dichiarati eretici quelli che
v’intervenissero. Avrebbe Luigi voluto a questo Concilio Pisano dare
un carattere molto solenne, com’ebbe l’altro che cento anni prima
nella città stessa depose due Papi e ne creò un terzo; per suo ordine
doveva la Chiesa francese esservi rappresentata dalla presenza di
ventiquattro Vescovi; ma quando si venne al punto di radunarlo, i più
si ritrassero, chi in qua chi in là. Cesare non mandò nessuno, e il
Re d’Aragona avea col Pontefice segreta alleanza, sebbene in questo
che ebbe nome di Conciliabolo, rimanessero due Cardinali spagnoli; uno
dei quali essendo morto, la radunanza venne a comporsi d’uno Spagnolo
e d’un Francese, nè d’Italiani v’era altri che il solo Cardinale
Sanseverino. Cotesti essendo percossi dalle scomuniche, e stando il
Clero di Pisa contr’essi, ed anche il popolo dileggiandoli, si tenevano
poco sicuri. Aveva offerto il Re di mandare a guardia loro trecento
lance di Francesi: ma il Soderini temendo per la stessa città di
Pisa, e non volendo troppo manifestamente offendere il Papa, negò di
ricevere un tale soccorso; e i Cardinali, pigliando occasione da una
rissa sanguinosa la quale era nata tra i Francesi di loro seguito ed
i popolani di Pisa, trasferirono il Concilio nella città di Milano,
accolti qui pure con poco favore. Il Papa, che aveva pronunziato contro
a’ Fiorentini un interdetto molto feroce, non diede in fatto esecuzione
alla sentenza; e, come a lui spesso accadeva, rimettendosi dal primo
impeto, gli tornò in grazia con modi benigni.[87]
Salivano per la Romagna le genti Spagnole condotte da Raimondo da
Cardona vicerè in Napoli, e unite a quelle del Papa mettevano assedio
a Bologna; il Cardinale de’ Medici andava Legato all’esercito. Erano
i Francesi molto ingrossati al Finale, con l’esservi giunto Gastone
di Foix duca di Nemours, giovane di ventidue anni, mandato allora
Luogotenente del Re in Italia. Questi avendo inteso Bologna essere
investita, guidava, in una nottata d’inverno e sotto alla neve, a
quella volta i suoi soldati con tanto improvvisa rapidità, che gli
venne fatto di mettersi dentro alla città prima che il campo degli
Spagnoli ne avesse sentore. I quali poi tosto, perchè erano ivi male
disposti a una battaglia, si levarono da Bologna pigliando la strada
inverso Romagna. Giungeva frattanto avviso al Foix che Brescia si era
ribellata, essendovi entrato Andrea Gritti Provveditore veneziano:
quindi, lasciate in Bologna genti che bastassero, correva con la
rapidità medesima contro alla misera Brescia, ed entratovi per la
cittadella e fatta lunga battaglia dentro alla città istessa, con
grandissima uccisione di soldati e strage di cittadini, che insieme
furono più migliaia di corpi, domava nel sangue la ribellione, avendo
fatta dal boia sul palco tagliare la testa a Luigi Avogadro che n’era
stato capo. Molti dei Veneziani furono in più scontri dispersi o morti
avanti e dopo l’espugnazione di Brescia;[88] dalla quale partendosi
dopo quattro o cinque giorni il Foix, riprese la via di Romagna, perchè
l’esercito della Lega che si chiamò Santa, dopo essersi appressato di
nuovo a Bologna, tornava ora indietro e sfilava per Forlì, cercando
un luogo adatto da farvi testa. Il Foix soprastette un poco, e avendo
tutti raccolti i suoi, che erano mille ottocento lance e quindici mila
fanti, seguiva le péste degl’inimici ed anelava fare con essi giornata.
Pervenuto fin sotto a Ravenna, dava l’assalto alla città, e ne fu
respinto: venivano innanzi gli Spagnoli lungo il fiume del Ronco, il
quale essendo passato a guado dai Francesi, appiccavano grande e sopra
tutte le precedenti fiera battaglia [11 aprile 1512]. Le artiglierie
di ambe le parti facevano vuoti nei due eserciti, ma senza romperli; il
Francese allora per una svolta maestrevole si gettava contro il fianco
degli Spagnoli: erano col Foix sei mila lanzichenecchi, nome corrotto
dalla lingua tedesca e da quel giorno troppo famoso in Italia. Tra
essi ed i fanti spagnoli fu lungo il combattersi, mescolati con grande
ferocia per la tenacità connaturale a quelle nazioni, e allora per
certa rivalità nella gloria militare: sopravvenne dipoi l’impeto dei
Francesi, e fu la rotta degli altri e la strage tale, che si disse tra
le due parti esservi rimasti quattordici mila o più soldati. La fiera
contesa era presso che finita quando il Foix, che andava sempre innanzi
agli altri, essendogli sotto caduto il cavallo, moriva trafitto da un
colpo di picca nel fianco, lasciando fama grandissima del suo nome,
vittorie inutili per la sua nazione, e nella Italia barbari esterminii.
Da ambe le parti perirono molti Signori di grande nome nelle guerre;
il Cardinale Legato rimase prigioniero de’ Francesi; Fabrizio Colonna
si diede ad Alfonso duca di Ferrara, che fu a quella pugna insieme coi
vincitori.
Ma qui mutarono le fortune dei Francesi, che dopo avere dato il
sacco a Ravenna ed invasa la Romagna, furono richiamati in Lombardia
sull’avviso che gli Svizzeri si preparavano ad assalirli con maggiori
forze di quelle che i Francesi teneano disperse nei luoghi acquistati.
Rimase con poche genti il Cardinale Sanseverino in quelle città di
Romagna, che egli diceva tenere in nome del Concilio, ma quindi dovette
bentosto ritrarsi; e le fortezze dello Stato veneziano essere anch’esse
abbandonate dai Francesi per l’avanzarsi dei venti mila Svizzeri che
aveano ottenuto da Massimiliano il passo, ed erano già in Verona.
Avevano prima cercato i Francesi di fare testa in Pavia, ma i Tedeschi
gli abbandonarono per avere Massimiliano rotta con inganno l’alleanza
col re Luigi; e gli Svizzeri più avanzavano, e Milano si era già dato
ad essi, che ne pigliarono possesso in nome del duca Massimiliano
Sforza primogenito del Moro. Intanto Arrigo VIII d’Inghilterra dava
seimila fanti in aiuto del Re d’Aragona contro alla Francia dal lato
dei Pirenei; Genova che il Papa, come nativo della Liguria, più volte
aveva cercato di liberare, mutava Governo cacciando il presidio che
Luigi XII vi teneva: così due mesi dopo alla vittoria di Ravenna erano
i Francesi usciti d’Italia, e questa caduta in mano di Svizzeri e di
Tedeschi e di Spagnoli. Ma Giulio, perchè era stato l’anima di quella
Lega, aveva al dominio della Chiesa aggiunto dopo a Modena anche Parma
e Piacenza; i Veneziani riebbero tosto gli antichi Stati di terraferma,
tra potentati stranieri rimanendo semi di discordie e guerre su questo
campo disputato ch’era oggimai fatta l’Italia. Un Congresso riunito
in Mantova nulla conciliava; sola una cosa fu ivi risoluta di comune
consentimento, rimettere in Firenze i Medici con la forza: qui era il
Governo popolare tutto cosa francese, e quindi unanime nei Collegati
il desiderio di mutarlo. Il Cardinale Legato, Giovanni dei Medici, capo
di questa famiglia, sottrattosi alla prigionia francese, andava con gli
Spagnoli; e il suo minor fratello Giuliano era in Mantova onoratamente
accolto. Fu quivi pertanto fatta deliberazione, che il Vicerè spagnolo
muovesse in compagnia dei due fratelli contro allo Stato di Firenze;
ed essi con mille uomini d’arme e sei mila fanti nel mese d’agosto
valicarono l’Appennino.[89]
Da quasi dieci anni Firenze si governava sotto al Gonfaloniere Soderini
con migliore costituzione che avesse mai, senza travagli di fuori,
nè dentro alla città contrasto di parti civili che l’una con l’altra
fosse necessario contenere. Il Soderini con quella sua mediocrità
prudente, e l’essersi anche abbattuto in tempi non troppo difficili,
avea mantenuto bene la reputazione dello Stato e la sua propria, senza
che il lungo governo gli avesse destato contro inimicizie grandi, e
non senza onore pei fatti che aveva saputo condurre. Sopra ogni cosa la
recuperazione di Pisa tanti anni bramata, poneva in alto il suo nome:
si aggiunse l’avere saputo cavare di mano a Pandolfo Petrucci, con
l’opera di Giulio II, Montepulciano che da più anni si era ribellata.
Pandolfo vi si era lungamente rifiutato, dicendo sarebbe crocifisso dai
Senesi, e il Papa cercava tutt’altro che avvantaggiare la Repubblica
amica ai Francesi; ma vinse in Pandolfo il grande bisogno che aveva
di ristringere la lega co’ Fiorentini, e in Giulio II l’opinione che
una tale lega fosse togliere occasione alle armi di Francia d’entrare
in Toscana.[90] Tale fino allora si era mostrato il Gonfaloniere:
uomo di faccende, non ebbe caldezza d’amici che fossero a lui devoti
personalmente, nè con gli artisti e co’ letterati si trova che fosse in
molto favore. Aveva egli antica familiarità con Amerigo Vespucci che a
lui indirizzava la relazione d’uno de’ suoi viaggi, talchè per decreto
della Repubblica si mandarono lumiere a Casa dei Vespucci in Borgo
Ognissanti, che stessero accese dì e notte tre giorni; il quale onore
fu raramente ad altri concesso.[91]
Quando l’esercito della Lega girando attorno i confini della Toscana
venne a Bologna, il Soderini eleggeva tre Commissari per la difesa
di quei vicariati i quali fossero più esposti. Nel tempo medesimo
andava in Spagna ambasciatore Francesco Guicciardini, che per non
avere compito i 30 anni sarebbe per legge stato inabile agli uffici;
ma per la divisione che era ne’ Consigli andò il Guicciardini senza
istruzioni, e vi rimase mentre che in Firenze mutava lo Stato; egli
acutissimo scrutatore di quella buia politica della quale Ferdinando
d’Aragona a tutti era maestro.[92] Questi diceva al Guicciardini, che
il Vicerè aveva pieno mandato circa alle cose d’Italia; ma in questo
mezzo Lorenzo Pucci, Datario inviato dal Papa in Firenze, chiedeva in
suo nome e in quello di Spagna che la Repubblica entrasse nella Lega
contro a Francesi. Il che fu negato da una Pratica molto larga raccolta
a quest’uopo, sebbene Roberto Acciaioli ambasciatore in Francia
scrivesse che il Re, non potendo a quel tempo soccorrere la città,
gradiva che da sè medesima si salvasse per via dell’accordo. Tuttora
in Mantova sedeva il Congresso che aveva decretato di assalire Firenze
con le armi; e gli Oratori fiorentini che andavano a Mantova furono a
Bologna trattenuti, nè altri Oratori ebbero ascolto dal Vicerè quando
era già in via.
Importa qui ora esporre lo stato della città di Firenze. I Medici
veramente non vi avevano quel che oggi chiamasi un partito; ma vi era
peggio che un partito, vi era una opinione fatta più debole contro
ad essi, e intanto l’amore della libertà più stracco, gli animi più
incerti, e molto rallentata l’antica compagine del popolo di Firenze.
Il fascio delle Arti si era disciolto, le industrie in gran parte
vivevano della splendidezza delle Corti, le lettere avevano bisogno
di protezione. Bene i Fiorentini amavano sempre l’andare a sedersi nei
Consigli e dare il voto, ma la libertà non era più come in antico una
necessità prepotente; non la sentivano in sè stessi quanto si credevano
avere obbligo di professarla; era come un fregio, che ognuno a sè
stesso cercava di mantenere. Ai Nobili molto sarebbe piaciuto dominare
una libera repubblica; ma poichè in Firenze la parte degli Ottimati non
era mai venuta a capo di mettersi insieme, ora malcontenti del popolo e
del Consiglio grande e di un Gonfaloniere a vita che ad essi chiudeva
la via, si persuadevano che sotto un principe avrebbero avuta maggior
condizione, e molti ai Medici inclinavano. Il basso popolo ricordava
che sotto a Lorenzo era un vivere più grasso e più in festa: una volta
che fu carestia, le donne di plebe andarono in piazza gridando palle e
pane.[93] Le città suddite e le terre grosse tutt’altro amavano che la
libertà in Firenze: la libertà in una città dominante voleva nutrirsi
della servitù delle altre, talchè il politico abbassamento di quella
recava in tutte le parti dello Stato una inferiore egualità, che a
molti era un benefizio.
Piero de’ Medici nell’esiglio non aveva saputo altro che rendersi
viepiù odioso, talchè la sua morte giovò alla grandezza di quella
famiglia. Nei vari assalti da lui tentati contro a Firenze aveva
speso tutto il mobile avanzato a Casa Medici dalla ribellione; ma il
Cardinale, com’ebbe altro ingegno, tenne altra via. Nulla vi era stato
da dire di lui per tutto il regno d’Alessandro, ma nei tumulti dopo
alla morte di questo Papa essendo a lui stata commessa la cura di Roma,
si aveva guadagnata lode di prudenza, ed era tenuto di buona natura:
compieva ora appena trentasette anni, ma già i venti di cardinalato e
il corpo malsano lo facevano contare tra vecchi. Dacchè in Firenze era
un governo fermo, pareva egli poco avere l’animo a tornarvi, e senza
cercare di farsi una parte, accoglieva quanti Fiorentini andassero in
Roma, che era la fontana delle grazie per la spedizione de’ benefizi o
per altre loro faccende; amorevole a tutti del pari e a quelli ancora
che più erano stati contrari al fratello. Per questi suoi modi il nome
dei Medici tornava in favore senza che facesse paura; e bastava ciò,
tante essendo le radici poste in Firenze da quella famiglia. Il buon
giudizio di Cosimo e di Lorenzo aveva co’ matrimoni legate a quella
molte parentele di case potenti, come i Salviati, i Ridolfi, i Pazzi,
i Tornabuoni, i Rucellai. Di questo casato era Bernardo, stato marito
d’una sorella di Lorenzo, uomo di molto ingegno e chiaro in lettere
pei libri di storia e d’antiquaria da lui composti in lingua latina:
edificò i celebri Orti de’ Rucellai, dove l’Accademia Platonica venne
a trasferirsi quando fu chiusa nel novantaquattro la casa dei Medici.
Bernardo poteva molto per eloquenza nei Consigli; ma o fosse egli
di coloro che troppo avvezzi alla compagnia dei libri, sanno meglio
giudicare le idee altrui che non fermarsi le proprie nell’animo, o
troppa in lui fosse superbia o ambizione, di nessun governo si contentò
mai, ebbe a disdegno i più alti onori e il vivere della città sua,
dov’era caduto infine dall’antica stima.[94]
Veniva in questi tempi un grande maritaggio a mettere innanzi un nome,
famoso poi variamente nelle istorie nostre. Erano gli Strozzi alquanto
caduti dall’antica potenza loro, quando un Filippo di quella famiglia
andato in Napoli a esercitarvi la mercatura, e divenuto in breve
ricchissimo, tornò a Firenze verso al 1480. Avea la splendida ambizione
di farsi un Palazzo che fosse il più bello della città; ma temendo la
gelosia di Lorenzo, del quale era amico, prima cominciò a dire che
un bel disegno glielo avrebbe fatto Simone del Pollaiolo, detto il
Cronaca, insigne architetto, ma che era una troppo grande spesa; e
così aguzzando il gusto artistico di Lorenzo, si fece da lui medesimo
condurre a tirar su quell’edifizio che lasciava addietro il Palazzo
mediceo, e sarebbe in qualsiasi luogo da pochi agguagliato qualora ne
fosse terminato il cornicione fra tutti bellissimo.[95] Questo Filippo
lasciava un figlio che fu anch’egli chiamato Filippo, ed era nel primo
fiore della gioventù, quando agli amici dei Medici venne in mente di
farlo marito a Clarice, figlia giovanetta lasciata da Piero. Del che
in città fu rumore grande; chi temeva di mettersi i Medici in casa,
chi avrebbe per sè voluto la fanciulla: se ne fece caso di Stato, e
il garzone capitava male, se il Gonfaloniere temporeggiando non avesse
lasciato il giudizio in mano degli Otto, che essendo uomini temperati
si contentarono di condannare Filippo in cinquecento ducati d’oro ed al
confine per tre anni in Napoli; rinforzarono il bando di ribelli contro
a tutti i maschi della casa Medici.[96] Pei quali intanto si cospirava
in Firenze: un giovane Prinzivalle della Stufa, testa leggera, confidò
un giorno a Filippo Strozzi, che egli voleva ammazzare il Gonfaloniere,
che aveva intelligenza di soldati, e che a Bologna imbacuccato, ne
aveva una notte tenuto discorso col Cardinale. Filippo gli disse che
era matto, ma promise di non denunziarlo: quegli fuggiva, e allora il
padre di lui andato da sè medesimo a costituirsi, mostrò di saperne
qualcosa. Fu lungo l’agitarsi nei Consigli per questo caso, e la città
era tutta sottosopra: i nemici del Soderini levavano accuse contro lui,
ed egli avendo con nobile schiettezza un giorno fatto recare innanzi
ai Consigli i libri dell’amministrazione sua, disse guardassero, e
che egli poteva rendere conto d’ogni suo atto e d’ogni fiorino ch’egli
avesse speso: ne usciva lodato, e contro agli uomini sospettati fu mite
giudizio. Per questo caso e per quello di Filippo era stato più volte
discorso di radunare la Quarantia, ch’era un giudizio straordinario
di cittadini tratti a sorte in grande numero per casi di Stato senza
appellazione, talchè agli accusati poteva riuscire molto terribile
secondo gli umori che dominassero in quel giorno. Questa forma di
giudizio, che in Venezia era molto solenne, negli Ottanta non passò
mai, nè il Soderini mai volle adoprarla; tanto che la Quarantia rimase
null’altro che un nome nella Repubblica di Firenze.[97]
Entrava in Toscana il Vicerè spagnolo Raimondo da Cardona rapidamente
per la bontà dei soldati che avea tra migliori di quell’esercito
valoroso; mandava ben tosto intimazione alla Repubblica di mutar
Governo, e accogliere nella città i Medici fuorusciti. Qui erano vari
e dubbi pareri, gli animi incerti e sollevati; scarso l’apparecchio di
uomini d’arme, e deboli contro a tale impeto le Ordinanze. Gli aveva
nutriti di qualche speranza sapere che il Papa nel fondo dell’animo non
aveva altro che una cosa sola, cacciare d’Italia tutti gli stranieri,
nè si potevano figurare che volesse lasciarvi pigliare tanto gran
piede agli Spagnoli. Raccolsero intorno alle mura di Firenze quanti
più soldati potessero, perchè fossero difesa contro a nemici di fuori
e guardia dentro contro ai partigiani dei Medici, i quali poco fino
allora si erano mostrati. Nè il Vicerè progredendo aveva trovato
aiuti o favore quanto gli aveano promesso alcuni già congiurati pei
Medici; e i viveri difettavano, ed essendo sceso dal Mugello incontro
a Prato, avea trovato quivi sufficiente guardia di quattro mila armati
con Luca Savello, vecchio capitano. Era un momento che se avessero
i Fiorentini saputo coglierlo, poteano ottenere con qualche somma di
denaro e col mutare Gonfaloniere che gli Spagnoli tornassero indietro,
e forse i Medici non si rimettessero. Ma quel momento fuggiva tosto;
e veramente nei casi estremi pare che un segreto istinto ammonisca del
pari ciascuna delle due parti, che niun temperamento varrebbe a tenere
sospese le sorti quando è necessità trabocchino.
In mezzo a quella trepidazione il Soderini, avvezzo dal popolo a
trarre i consigli, radunava per modo di Pratica il Consiglio grande,
al quale con molto bella orazione avendo esposto quello che da parte
della Lega fosse domandato alla città, disse: quanto a sè essere egli
pronto a deporre il grado suo qualora il popolo se ne contentasse.
Poi fece dividere il Consiglio per Gonfaloni, perchè ognuno dentro
al suo Gonfalone liberamente dicesse l’animo suo. Tutti affermarono
gagliardamente, che voleano mettere il sangue e la roba per la
difesa di quel Governo: così ogni accordo fu rifiutato.[98] Aveva
il Cardona chiesto cento some di pane pel vitto delle sue genti; si
adunò Consiglio e i pani gli furono negati, confidando i popolani
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