Storia della Repubblica di Firenze v. 3/3 - 20

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del Re, secondo egli stesso dice, ma come cristiano e prete e vescovo.
Causa d’ogni male dichiarò essere questa impresa di Firenze e quella
che tutti a voce comune appellavano ostinazione, fino agli stessi
suoi soldati, i quali dicevano ogni cosa essere loro lecita, quando
il Capo della Chiesa ne dava ad essi autorità; l’onore suo non essere
impegnato nè punto nè poco a tale impresa. Dei Cardinali disse, che
sarebbe mettere una peste nella Chiesa, di cui le reliquie rimarrebbero
per cento anni, e che darebbe troppo bel gioco ai Luterani. Allora dal
petto di Clemente usciva una tremenda parola: «Vorrei che Firenze non
fosse mai stata;[218]» parola ripiena di disperazione, dove orgogli
umiliati e rancori spesso provocati da offese pungenti si mescolavano
con altri affetti che nacquero buoni, ma oggi mettevano anch’essi
veleno dentro a quell’anima infelice. I Fiorentini erano intanto sulle
bocche degli uomini come pregio ed onore di tutta Italia, per avere
essi soli voluto e saputo resistere alle genti oltramontane, mostrando
esempio di costanza, che a tutti del pari sarebbe riuscita prudenza e
via di salute: com’era costume in quella età, versi latini e italiani
si facevano in molti luoghi a encomio della città e in biasimo del
Pontefice.


CAPITOLO X.
IMPRESA DI FRANCESCO FERRUCCI E SUA MORTE. LA CITTÀ SI RENDE A PATTI.
[Dall’aprile all’agosto 1530.]

Ora comincia la guerra in Toscana a farsi grossa, dopo che vi ebbe
posto mano Francesco Ferrucci. Tutto quell’inverno bande di soldati
mercenari sotto a Capi di varia importanza entrati in Toscana
successivamente da più lati, si spargevano per le terre mettendo
in alto la parte Medicea, che dappertutto aveva non pochi seguaci,
e impiantandovi un governo nel nome del Papa, talchè oramai alla
Repubblica di Firenze poco rimaneva del suo territorio. Ma nel
Valdarno inferiore e nella Valdelsa e per le Colline di Pisa, dovunque
il Ferruccio potesse arrivare con la vigilanza e la prontezza e
insieme con quella minuta e sagace previsione d’ogni caso, che è dote
essenziale negli uomini di guerra; gli assalti nemici erano impediti da
piccoli scontri sempre fortunati, le ribellioni dei castelli contenute;
continue prede facevano un largo vivere ai soldati che stavano in
Empoli, o erano in Firenze mandate a sollievo degli assediati. Nè
temeva egli disseminare le genti sue in piccoli drappelli, perchè
di coloro che gli guidavano, il Ferruccio si era bene assicurata
l’ubbidienza per via di una rigidissima disciplina, ma che sapeva
largheggiare anche nelle ricompense. Quello che è il sommo, dominava
egli in tutti gli animi dei soldati, i quali ponevano tanta fiducia
nell’ubbidirgli, quanta era la paura se mai facessero il contrario.
Francesco Ferrucci ebbe taccia di superbo e di troppo arrisicato e
di collerico e crudele; ma era uomo giusto e considerato, che ardiva
molto per la necessità di rialzare il nome avvilito delle armi
italiane; e se nei gastighi parve aspro e implacabile, ciò era per
l’insolenza licenziosa divenuta abito nei soldati, e per essere egli
salito a quel grado da semplice pagatore, tenuto da molti in piccola
stima. Quell’alto luogo ch’egli prese in tempo sì breve da tanto umili
principii, e quel che è di grande nei fatti da lui condotti, pone il
nome suo accanto a quelli d’altri più famosi e più di lui fortunati
Capitani.
Insino agli ultimi del febbraio si era Volterra mantenuta in fede
della Repubblica di Firenze; ma verso quel tempo Alfonso Piccolomini,
duca d’Amalfi e Capitano generale dei Senesi,[219] distendendosi pei
confini dei Volterrani, questi vietarono a lui di entrarvi; ma fecero
poi lo stesso a una mano di soldati fiorentini i quali volevano entrare
a guardia della città, dove era intanto venuta come ad annullarsi
l’autorità del Commissario che vi stava per la Repubblica. Nelle quali
dubbiezze si accostò a Volterra altro più forte capitano, Alessandro
Vitelli, il quale disceso in Toscana dalla parte di Borgo San Sepolcro,
prese questa e altre terre fino a Montepulciano, da dove per l’amicizia
dei Senesi venuto innanzi, andava mutando lo Stato in tutti i luoghi
del Volterrano. Talchè diveniva insufficiente il soccorso mandato a
Volterra con Bartolo Tedaldi che ebbe grado di Commissario. Si venne
a patti, e dopo molte esitazioni un accordo fu conchiuso, pel quale
le genti Fiorentine si rinchiusero nella Fortezza, la Città essendosi
data al Papa. Era quivi confinato Roberto Acciaioli che ne divenne
Commissario, finchè non gli parve uscire di là e andarsene in Roma
nei consigli di Clemente, che molto l’udiva; sottentrò a lui Taddeo
Guiducci con grande autorità. Tra la Città intanto e la Fortezza era
uno offendersi d’ogni giorno: si fece una tregua che non fu tenuta; ed
Alessandro Vitelli, ch’era trascorso più oltre, venne egli stesso in
Volterra, dove ordinava le difese, rinforzate ancora per l’invio che
i Genovesi avevano fatto di artiglierie nella città; per il che parve
correre un qualche pericolo la Fortezza che da quelle parti era di
grandissimo momento alla Repubblica di Firenze.
Aveva il Ferrucci scritto ai Dieci, che se gli mandassero altri
cinquecento fanti, crederebbe fare opera degna verso Volterra; ed
aggiungeva: «vi pensino bene, chè adesso è il tempo.» Non indugiarono;
e cinque compagnie, uscite dalla porta San Pier Gattolini a mezza la
notte dei 25 aprile, poterono senza notabile offesa passare la Greve,
e quindi condursi fino alla Pesa, dove incontrarono resistenza che
veniva dalla torre dei Frescobaldi e poi cessava pel soccorso dei
soldati che aveva loro incontro mandato il Ferrucci. Il quale con mille
quattrocento fanti e dugento cavalli uscito subito d’Empoli, pervenne
la sera medesima sotto alla Fortezza di Volterra e messe dentro le sue
genti. Bene gli fu avere provveduto che ogni soldato si portasse pane
per due giorni, perchè in Fortezza non ve n’era che a tanti bastasse:
aveva seco anche picconi e scale e marraiuoli e polvere. La mattina
fece a un tratto aprire la porta e a bandiere spiegate assaltare da tre
luoghi i Volterrani in tutta fretta. Trovato intoppo di trincee, prese
le prime e le seconde con molto sangue; perchè i Volterrani, avendo
traforate le case, passavano dall’una nell’altra, ed offendevano i
nemici senza potere essere offesi, intantochè in faccia stavano sulla
piazza di Sant’Agostino due cannoni che spararono due volte ciascuno
con assai danno degli assalitori. Allora il Ferruccio fu costretto a
fare quello che non sarebbe stato del suo ufficio, ed imbracciata una
rotella, dava coltellate a chi tornava indietro. Finalmente egli con
una testa di cavalleggieri armati di tutt’arme e alcune sue lancie
spezzate, essendo saltati su quel riparo, s’insignorirono di tutta
la piazza: poi combatterono casa per casa con molta uccisione, finchè
assaliti dalla notte cessarono; chè nessuno di loro poteva stare più in
piedi. La mattina i Volterrani accennarono di volere parlamentare; e
avuta la fede, il Commissario venuto innanzi domandò al Ferrucci quel
ch’egli desiderasse. Rispose questi, che voleva la terra per forza o
per amore, e che voleva fosse rimesso nel petto suo quel bene o quel
male che facesse ai Volterrani. Chiesero a rispondere due ore; le
quali essendo negate e avuto solo un quarto d’ora, tornarono al tempo
dato, ed in tutto si rimisero alla discrezione del vincitore. Furono
accettati da lui con promessa di salvare la vita al Commissario e a
tutti i fanti pagati; ma perchè Taddeo Guiducci gli parve a lasciarlo
di troppa importanza, lo ritenne presso di sè, con animo di non
fargli dispiacere avendogli data la fede, la quale si aveva ancora
guadagnata col fare qualcosa di notabile; in tal modo era piaciuto al
Ferruccio. Di questo abbiamo trascritto parole che hanno conferma dagli
storici.[220]
Volterra però fu dal Tedaldi e dal Ferrucci trattata come paese
nemico; perchè avendo tolte ai Volterrani le armi, e pena la vita a
chiunque avesse sulla persona arnesi da offendere, obbligarono infine
i cittadini a uscire senza cappa o altra veste di sopra; vietarono
suonare la notte nè ore nè campane, ed ogni casa mettesse fuori i lumi
accesi: costrinsero i molti benestanti ch’erano assenti a rientrare
nella città, per non essere fatti rubelli; i quali tornarono il maggior
numero. A tutto questo era principal motivo il trarre danari, perchè il
Ferrucci voleva dai Volterrani seimila fiorini per cui potesse pagare
i soldati che si erano uditi chiedere il sacco della città di Volterra;
forse anche promesso da lui nel caldo della battaglia. Ma stentò molto
a raccogliere il numerario che era nascosto, e fece mettere in fondo di
torre dodici dei più facoltosi di Volterra finchè non avessero pagato
del loro; il che taluni si ostinavano a negare prima che vedessero
imminente su’ loro occhi la minaccia del capestro: dipoi radunati i
principali cittadini, fece loro confessare a viva voce la ribellione;
questa volta pure trovandosi due i quali non vollero, prima di avere
certezza che sarebbero impiccati. Della quale confessione fece il
Tedaldi stendere un atto per mano di notaro; e ai Volterrani dichiarò,
essere eglino caduti da ogni privilegio ed esenzione che prima
godessero, preponendo alla città un Magistrato di uomini scelti che a
lui ubbidissero.
Era sulle terre dei Senesi Fabbrizio Maramaldo, e seco un forte numero
di quei feroci e disperati ai quali era stata mestiere la guerra, e
che egli nutriva di estorsioni e di saccheggi, cercando una impresa
che più inalzasse il nome suo e la fortuna: con questo pensiero faceva
impeto nei Borghi di Volterra ai 17 maggio. Quivi attese a fortificarsi
col fare trincee e ripari da piantare le artiglierie che aveva seco,
intantochè altre ne aspettava del campo d’intorno a Firenze. Tra le
due parti si combatteva quasi ogni giorno, uscendo il Ferrucci spesso
a impedire le opere dei nemici; e intorno a una mina scavata da questi
sotto alle mura da San Dalmazio perì molta gente, tra’ quali anche
uomini di conto. Riusciva però al Maramaldo di espugnare il convento
di Sant’Andrea presso alle mura di fuori: aveva mandato al Ferrucci
un suo trombetta con l’intimazione di sgombrare la città; ma questi
minacciò il trombetta di farlo impiccare, e un’altra volta che gli
tornò innanzi, lo fece davvero mettere alla forca, contro alle leggi
della guerra; il che dovette egli sentire più tardi. La mattina dei 12
giugno comparve poi sotto Volterra il Marchese del Vasto con quattro
mila Spagnoli e dieci cannoni: veniva da Empoli, avuta nel modo che
sotto diremo; e subito ai 13 sul fare del giorno si presentò dove il
Ferrucci aveva costrutto ripari grandissimi, e dietro alle mura fossi
larghi e cupi, ne’ fondi dei quali giacevano tavole confitte di aguti
con le punte volte all’insù. Delle quali cose avendo avuto notizia il
Marchese, la mattina dei 14 andò a fare la batteria in altro luogo più
debole, talchè in pochi colpi gettarono a terra oltre a una torre,
quaranta braccia di muro. Sopraggiunse allora col nerbo dei suoi
soldati il Ferruccio; e molti cadendo da ambe le parti, egli stesso
ebbe due ferite, che una al ginocchio e l’altra alla gamba per la
caduta d’un cavallo, sicchè dovette farsi portare sopra una seggiola
alla batteria, dove fu lungo e fiero l’assalto, finchè i nemici con
la morte di molti di loro non furono costretti a ritrarsi. Allora il
Marchese, deliberato di assaltare la città da un’altra banda, tornò a’
21 la mattina; e durò a batterla fin dopo mezzogiorno, avendo gettate
a terra più altre braccia di muro. Il Ferrucci per le ferite e per una
febbre sopraggiunta portato sempre in seggiola, comandava le difese.
Continuò l’assalto due ore, ma senza che i nemici potessero vincere le
batterie; dove alcuni di loro essendo saliti, furono ributtati; quei
di dentro, oltre all’usare le armi, gettando addosso a loro sassi e
olio bollente, molti ne uccidevano, dimodochè il Marchese del Vasto e
Fabrizio, vedendo i loro soldati essere malmenati e nulla potere pel
disavvantaggio del sito e per la gagliarda resistenza, si ritirarono
ai loro alloggiamenti, e la notte si partirono da Volterra disperati di
più acquistarla.[221]
La perdita d’Empoli avvenne in tal modo. Avendo il Principe d’Orange
saputo che il Ferruccio per la difesa di Volterra contro al Maramaldo
era stato costretto lasciare Empoli con minori forze, mandò a questa
volta don Diego Sarmiento capitano dei Bisogni, e vi chiamò Alessandro
Vitelli e altri Capitani, ai quali soprastava il Marchese del Vasto.
Assalirono da due lati le mura fortissime e bene guardate; si combattè
molto dove il Sarmiento comandava, cadendo le mura a pezzi con molta
strage, infinchè la notte avendo fermati gli assalti, parte degli
Empolesi mandarono offrendo ai nemici un accordo: e fu detto che nel
tempo stesso Andrea Giugni, nuovo Commissario con Piero Orlandini
Capitano di milizie, vendessero Empoli perfidamente agli Spagnoli.
Fatto è che poi nella mattina questi vi entrarono, nè fu la terra
interamente salvata dal sacco. Rimasero infami i nomi del Giugni e
dell’Orlandini, che furono anche dipinti in Firenze come traditori,
secondo l’usanza. Giovanni Bandini, maestro di corruttele, avrebbe
condotto la pratica essendo lì presso al Marchese del Vasto e da lui
tenuto in gran conto: lo stesso Andrea Giugni per la vita licenziosa
non poteva essere alla patria sicuro amico al pari d’altri che avevano
costumi dei suoi più severi.[222]
Fino da quando il Ferrucci ebbe recuperato Volterra, molto in
Firenze si bisbigliava contro a Malatesta, dicendosi che egli non
voleva vincere, e che la città si consumava dopo tanta lunghezza
d’assedio; doversi ora fare un ultimo sforzo, al quale il tempo era
opportuno, perchè i soldati nemici male contenti abbandonavano il
Campo, spargendosi dovunque trovassero da saccheggiare o da predare,
come quelli che solo cercavano per tutte le vie ciascuno tornarsene a
casa ricco. Ai quali rumori parve a Malatesta, per fare qualcosa, di
riconoscere, come ora si direbbe, le forze nemiche per via d’una mossa
di qualche importanza. Mutava egli stesso alloggio, recandosi alle case
dei Bini oltr’Arno, le quali stando alla ridossa del Poggio di Boboli,
era egli quivi sotto alla guardia delle sue genti e massimamente
delle più fidate, che erano i Côrsi e i Perugini; laddove all’Orto dei
Serristori gli pareva essere a discrezione della Città e delle milizie,
avendo come sul capo i bastioni dei quali Stefano Colonna teneva il
comando. Fu anche poi detto che egli volesse aprirsi l’uscita da Porta
Romana, o fare da quella entrare i nemici. Ai 5 maggio mandava egli
fuori da tre lati due colonnelli e trenta delle più forti compagnie
di Firenze: quelli che dalla Porta Romana andarono all’assalto di un
Convento diruto sull’imminente Poggio di Colombaia, lo espugnarono
con la uccisione di molti Spagnoli che vi erano a guardia; se non che
il Principe d’Orange, corso al rumore, vi mandò le fanterie italiane
con Andrea Castaldo. Si combatteva in più luoghi, essendo comparso
di verso Marignolle Ferrante Gonzaga con la cavalleria: Malatesta,
che aveva animo di soldato, chiamati fuori altri colonnelli, si era
gettato nella mischia, sebbene infermo sopra un muletto, tantochè
convenne a trarnelo indietro usare la forza. Il Vicerè aveva fatto
all’incontro condurre innanzi i suoi Tedeschi, tuttavia comandando che
rimanessero in ordinanza: Malatesta fece allora suonare a raccolta,
essendogli anche mancato il concorso di Amico da Venafro che doveva
uscire dal cavaliere di San Miniato. La stessa mattina Stefano Colonna,
sdegnato con lui per certa disubbidienza, lo aveva ferito e poi fatto
da’ suoi uccidere barbaramente; selvaggio diritto che si arrogavano
quei condottieri fuori d’ogni legge. Morirono in questo fatto d’arme
Ottaviano Signorelli, grande amico al Baglioni, e un Piero de’ Pazzi, e
Vico figliuolo di Niccolò Machiavelli: pochi giorni dopo in una piccola
avvisaglia rimase ucciso Iacopo Bichi, valente uomo che ebbe in Firenze
grande compianto e lutti, esequie solenni e onorata sepoltura.
Un poco più tardi Stefano Colonna, per fare anch’egli qualcosa e
purgarsi di quel suo delitto, formò il disegno di sforzare per via di
un assalto notturno il campo dei Tedeschi a San Donato in Polverosa,
che era sotto il comando allora del Conte di Lodrone. Avrebbe in tal
modo aperto a Firenze la via di Prato e di Pistoia: per il che fu la
sua proposta molto aggradita, e Malatesta si offerse di stare sulla
sponda dell’Arno a guardia dei nemici i quali tenevano l’opposta
riva. Uscì dalla porta al Prato il Colonna gettandosi addosso al
Campo tedesco, immerso nel sonno. Un altro assalto conduceva da porta
Faenza Pasquino Côrso; ma questo in gran parte falliva, e i soldati
del Colonna penetrati nel mezzo del Campo, e quivi datisi al predare
fuor d’ogni ordinanza, molti uccidevano al buio, e persino di quelle
donne delle quali erano pieni a quel tempo i quartieri dei soldati.
Frattanto il Conte di Lodrone metteva in ordine i suoi fanti con tale
prestezza, che dopo uno scontro più fiero che lungo, ai nostri convenne
lasciare l’impresa; e già Malatesta si era tirato indietro dal fiume.
Pure nell’assalto perirono molti. Stefano Colonna riportò due non
molto gravi ma sconcie ferite: rifulse, com’era solito, il valore d’Ivo
Biliotti capitano fiorentino. Ma intanto le condizioni degli assediati
venivano a farsi più tristi ogni giorno; imperocchè tutti gli antichi
amici o raccomandati della Repubblica, i Malespini, i Signori di
Vernio, i Fabbroni di Marradi e altri tenevano la contraria parte: le
città e le terre del dominio generalmente si adattavan a stare soggette
piuttosto ai Medici che a tutt’un popolo, dove erano troppi padroni da
saziare e spesso più avidi. Nella città si era venuti allo stremo di
molte cose, ridotti spesso a fare cibo degli animali più immondi; se
non che ogni tanto la diligenza e il valore delle milizie riuscivano
a condurre dentro qualche branco di bovi o montoni, dei quali facevasi
allegrezza molta. Si aggiunse la peste, che si era mostrata nel Campo
degli assediatori e qualche poco nella città stessa. Ma non veniva qui
però meno la costanza degli animi, ed anzi parevano crescere i fieri
propositi, mantenuti vivi dalla speranza che dava il Ferrucci: quei
molti che avrebbero bramato un accordo, non si ardivano a mostrarsi:
scoperto un Lorenzo Soderini che teneva segreta corrispondenza col
nemico, fu appiccato sulla forca e quasi dall’ira popolare dilaniato.
Si volle mandare fuori le bocche inutili delle donne e dei bambini;
ma la pietà vinse, nè altro se ne fece. Stringeva sopra ogni cosa la
mancanza del danaro, invano chiesto alla Repubblica Veneziana che aveva
largheggiato in vane profferte; e invano anche ai mercanti fiorentini
che erano a Venezia e che temerono d’affrontare le ire del Papa: ma i
fuorusciti di Lione mandarono ventimila scudi, messi insieme per lo
zelo di Luigi Alamanni. Il primo di luglio entrò la Signoria nuova,
che doveva sedere per luglio e agosto; mutandosi ogni due mesi,
nonostante che il Gonfaloniere rimanesse; e perchè fu l’ultima fatta
dal popolo, a noi pare debito di registrare quartiere per quartiere i
nomi degli otto Priori, che furono: Tommaso di Lorenzo Bartoli e Andrea
di Francesco Petrini, per _San Spirito_; Alessandro di Francesco del
Caccia e Simone di Giovanni Battista Gondi, per _Santa Croce_; messer
Niccolò di Giovanni Acciaiuoli e Marco di Giovanni Cambi, per _Santa
Maria Novella_; Agnolo d’Ottaviano della Casa e Manno di Bernardo degli
Albizzi, per _San Giovanni_; ed il loro Notaio fu ser Domenico di ser
Francesco da Catignano.[223]
Accade sul fine dei movimenti popolari, che molti essendosi a poco
a poco tirati indietro, i più eccessivi rimasti soli promuovano
spesso di quei partiti che hanno in sè del generoso, mancando però
di consistenza. Il gran fine era dare un assalto al Campo degli
assedianti, avendo accresciuto di quattro mila il numero delle milizie
nelle quali entrassero tutti dai sedici anni in su, e fosse vietato
andare per la città in altro abito che militare. Doveva innanzi a
tutti uscire il Gonfaloniere, e primo essere al combattimento: il
che fu accettato con allegrezza da Raffaello Girolami, uomo che aveva
del leggiero. Questo proposito annunziarono a Malatesta che prima in
Consiglio lo aveva combattuto, essendo anche venuto a parole molto vive
con Francesco Carducci: nè dopo quel giorno andò in Palagio senza buona
guardia; poi cessò d’andarvi. Intorno aveva o con lui s’intendevano
in segreto molti che temevano il saccheggio più che non amassero la
libertà; o credevano quel Governo essere troppo licenzioso e non potere
a lungo durare. Venivano tali pensieri a dividere persino la parte più
amica agli ordini popolari; e per suggestione dei Frati di San Marco
stava per vincersi una pratica, la quale con altre cose importava
fermare la vendita dei beni di Chiesa e fare un atto d’umiliazione al
Pontefice; se non che il Carducci, che sempre era innanzi a tutti, fece
cadere il partito.
Ma tra gli amici di libertà era un voto e un pensiero solo: chiamare
il Ferruccio. La via d’Empoli era fatalmente chiusa, nè mai avrebbe
potuto egli con la poca gente che aveva sforzarla sugli occhi di tutto
il Campo degli assedianti. Eletto il Ferrucci Commissario generale,
con facoltà amplissime e affatto insolite, di tutta la campagna del
dominio fiorentino; deliberarono che egli da Volterra andasse a Pisa,
e quivi raccolto quel maggior numero di soldati che potesse, voltando
inverso Pistoia, o cercasse di recuperarla, o per la via dei monti si
conducesse insino a Fiesole, donde potrebbe facilmente senza offesa
entrare in Firenze, costringendo Malatesta con quella aggiunta di
forze ad assaltare il Campo nemico. Lasciava il Ferrucci non bene
assicurata Volterra: nelle sue lettere avea tempestato sempre perchè
gli mandassero un soccorso di gente da Pisa, e almeno polvere o
salnitro. Il Tedaldi era, sebbene d’animo vigoroso, in là con gli anni,
e scriveva non potere sulle sue spalle portare il carico della difesa;
onde a lui fu dato lo scambio, e i due nuovi Commissari, Marco Strozzi
e Gian Battista Gondi, usciti a piedi da Firenze, non senza molta
difficoltà poterono entrare in Volterra. Pigliando il Ferrucci con un
migliaio e mezzo di soldati la via di Livorno, giungeva in Pisa ai 18
luglio: ma qui, oltre alla ferita del ginocchio non bene guarita, gli
si scoperse una febbre che lo tenne in letto per tutto quel mese. Fu
danno gravissimo, e forse cagione che rovinasse l’impresa sua, perchè
i nemici ebbero tempo di prepararsi e di offenderlo nel modo che tosto
vedremo. In Pisa era stato Commissario Iacopo Corsi, il quale insieme
con un suo figliuolo essendo venuto in sospetto d’intelligenza col
nemico, fu per sentenza della Quarantia mozzata la testa ad entrambi,
e Pier Adovardo Giachinotti mandato in sua vece.[224] Attendevano egli
e un suo compagno diligentemente alle provvisioni e al far danaro, e
a procacciare che Giovan Paolo Orsini da Ceri si unisse al Ferruccio
di buona voglia e andasse seco, siccome avvenne,[225] essendo entrati
insieme in Pescia il primo d’agosto.
Fino dal giorno in cui dovette sapersi in Firenze la mossa del
Ferruccio e il disegno pel quale era egli uscito da Volterra;
Malatesta, che se lo vedeva (se il fatto riuscisse) venire sul
capo, appiccò pratiche in segreto col Vicerè, avendo mandato a lui
un Perugino molto suo fidato, di soprannome Cencio Guercio. Sperava
Malatesta fare un accordo che a lui dovesse fruttare la grazia del
Papa insieme e dei Fiorentini: se non che avendo il Vicerè posta come
prima condizione che i Medici fossero rimessi in patria con l’autorità
che prima avevano, fu impossibile accordarsi, Malatesta dicendo che si
andava in tal modo incontro a un certissimo rifiuto. Propose allora che
il Principe mandasse don Ferrante Gonzaga, il quale appresentandosi
in forma solenne al Grande Consiglio, mettesse spavento negli animi
dei cittadini con la esposizione delle forze di quell’esercito e dei
duri propositi ai quali avrebbe suo malgrado dovuto condurlo; e che ne
uscirebbe inevitabile il saccheggio, qualora si fosse la città ostinata
in quell’inutile resistenza. Queste cose suggeriva Malatesta che si
dicessero, ma non però dava sicura fede nè si assumeva egli impegno
quanto al primo punto, che era di rimettere i Medici in Firenze. Nel
che Malatesta rimase fermissimo tanto, che il Principe e il Gonzaga, i
quali credevano Firenze essere agli estremi, maravigliati sospettarono
che in quel punto fosse venuto avviso di un qualche aiuto di Francia; e
intorno a questo dubbio cercavano di sapere meglio.[226]
Pochi giorni dopo, mentre il Ferrucci era infermo in Pisa, i Capitani
andarono in Palagio sull’invito del Gonfaloniere; il quale annunziando
l’intenzione di combattere, Malatesta e il Colonna si dichiararono con
parole generiche pronti a morire in servigio della città. Nell’indomani
si fece rassegna delle milizie, che erano ottomila, e poi dei soldati,
che si trovarono seimiladugentosettanta pagati e numerati, con ventidue
pezzi d’artiglieria da campo. Dato il sacramento a tutti i Capitani,
l’ultimo del mese, dopo lunga processione a piè nudi, comunicatisi il
Gonfaloniere, i Magistrati e buona parte della Città, fattosi eziandio
da molti testamento e ordinate le cose loro, si preparavano all’assalto
pel giorno vegnente. Aveva già il Gonfaloniere nel Consiglio Grande
annunziata la venuta del Ferruccio; ma il primo d’agosto nulla si fece,
che dare le armi: ai 2, Malatesta e Stefano, interrogati sul luogo più
acconcio a dare l’assalto, con lunga lettera e specificata dimostrarono
alla Signoria essere follia tentare l’assalto del Campo da quale si sia
luogo; e perchè il giorno seguente molti andavano a Malatesta dicendo
che volevano a ogni modo; dichiarò questi con altra lettera, che avendo
egli chiamati a consiglio i suoi Capitani, tutti erano stati contrari
al combattere, salvo quelli che tra essi erano fiorentini. Aggiunse
che avrebbe in conto proprio e del Colonna mandato al Principe per
accertarsi dell’animo suo; e se avesse questi voluto che la città se
gli rendesse a discrezione, sarebbono essi pronti ad escire, nulla
curando le proprie vite, ma sempre fermi in quel consiglio che dato
avevano dell’accordo.
Nel Campo si aspettavano ogni giorno d’avere l’assalto. Ma già fino dal
24 luglio uscito di Firenze un Signorelli, parente al Baglioni, aveva
col Vicerè appiccato altre pratiche d’accordo, e in nome di questo
aveva fatta a Malatesta la proposta di abboccarsi seco in certo luogo
fuori delle mura; a questo invito Malatesta non diede risposta.[227]
Scriveva intanto alla Signoria come abbiamo narrato; ma nel tempo
stesso mandava nel Campo il solito Cencio Guercio chiedendo di nuovo
andasse nella città il Gonzaga: prometteva però questa volta, nel
caso che la Signoria non accettasse il partito, d’uscire egli dalla
città con tutta la sua gente da guerra; il ch’era un privarla della
più valida sua difesa. Noi sappiamo queste cose dallo stesso Gonzaga,
al quale e al Vicerè parve con ragione che Malatesta si fosse allora
con essi legato. Mandò l’Orange in Firenze a chiedere un salvocondotto
pel Gonzaga; ma come di tutte queste cose la Signoria nulla aveva
saputo, rispose voleva intendere prima di che si trattasse; e mandò a
questo effetto Bernardo da Castiglione, il quale inteso dall’Orange a
quali patti avrebbe questi concesso un accordo, senz’altro disse che
del ritorno dei Medici era vano il discorrere: su di che si ruppe la
pratica, essendo tosto il Castiglione tornato in Firenze.[228]
Qui nell’indomani si venne a sapere l’Orange col nerbo dell’esercito
essersi partito la notte innanzi per andare incontro al Ferrucci.
Su di che i Signori e gli altri del Governo di nuovo tornarono a
Malatesta, facendogli maggior forza perchè non lasciasse cadere tanto
comoda occasione di vincere. Questi, sebbene allegasse non essere vero
che avesse l’Orange sfornito il Campo, disse che egli era pronto a
combattere; ma in apparecchi e in riconoscimenti lasciò passare tutto
quel giorno, avendo ancora impedito che mandassero due mila fanti
al Montale in soccorso del Ferruccio. Venuta la sera, i Côrsi e i
Perugini, fatto fardello e segregandosi dagli altri, andarono a porsi
dov’era la stanza del Capitano; talchè in Firenze di già sospettandosi
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