Storia della Repubblica di Firenze v. 3/3 - 16
di Pisa: ma queste allora non si ottennero, i Medici avendo con vari
pretesti negato i segnali per cui venissero i Castellani disciolti
dalla fede che avevano data. Filippo ebbe accusa d’avere aiutata la
frode, poichè si fu accorto che il rivolgimento procedeva diverso da
quello che avrebbe voluto; dal che a lui venne un grande odio nella
città.
Era cosiffatto il popolo di Firenze, e per antico uso e antico diritto
aveva sì caro il nome di libertà, che al primo suono di questa parola
tutti si destavano; e questo popolo era allora tutto unito e concorde
in quel sentimento, perchè di quel tanto che ognuno ne avesse impresso
nell’animo veniva nel primo sorgere a comporsi un volere solo: talchè
gli pareva d’essere tornato ai primi suoi tempi, e a sè faceva di
quelle leggi che dipoi era sovente inabile a portare. Sopra ogni cosa,
come si è più volte detto, odiava il Governo dei pochi; ed ora viepiù
l’odiava poichè si era accorto che i Nobili, i quali aveano fatto quel
mutamento, stavano in due tra ’l porre sè stessi nel luogo de’ Medici,
o accettare questi, s’era necessario, e quando vi fosse il conto loro.
Il che era vero: ma vero è ancora che ai più savi, guardando alle
cose d’Italia com’erano e volgere il mondo a principati ed a signorie,
pareva di questi Medici non fosse da fare a meno; e quanto a un Governo
largo e popolare, lo avrebbero contradetto a ogni modo come impossibile
a mantenere. Da questi pensieri mi pare che fosse tirato tra gli altri
Niccolò Capponi, uomo sincero; quanto a sè i Medici poco amando, non
poteva uscirgli dal capo come essi alla fine sarebbero ritornati, e
cercò sempre ingenuamente venire a un accordo tra essi e la libertà.
Giammai non si era del tutto da essi alienato, ed ora madonna Clarice
e la piccola Duchessina stando nel Palazzo dei Medici e poi nel
convento di Santa Lucia, Niccolò andava pubblicamente a visitarle.
Per le quali cose crescendo il romore nella città, e molta gioventù in
arme intorno al Palagio di già minacciando fare Parlamento; gli uomini
delle botteghe, che già si chiudevano, e molti d’ogni sorta accorsi al
Palagio, imposero alla Signoria ed ai maggiori cittadini e più restii
la convocazione pronta del Consiglio grande, senza esclusione di quelli
che erano a specchio ed abbassando di un anno l’età per entrarvi,
col solo divieto di quelli che avevano tenuti co’ Medici gli uffizi
maggiori. Fecero scambiare gli Otto di Guardia e quelli di Pratica,
abolirono i Consigli creati di nuovo, e riposero ogni cosa com’era nel
1512; restaurarono il Senato degli Ottanta e l’uffizio dei Dieci di
guerra. Nella impaziente letizia di convocare il Gran Consiglio, perchè
la Sala era stata negli ultimi anni guasta da’ soldati e ingombra e
bruttata, i primi giovani di Firenze lavorando giorno e notte l’ebbero
riposta in poche ore al punto come l’aveva fatta il Savonarola, del
quale il nome stava sempre in alto a quanti amassero libertà onesta. Si
radunò infine il Grande Consiglio, e v’intervennero duemila cinquecento
cittadini, che non potendo tutti capire nella Sala, stavano calcati fin
lungo le scale. Ordinarono che la presente Signoria cessasse a tempo
rotto e che la nuova durasse tre mesi: per ultimo si pensò ad eleggere
il Gonfaloniere, uffizio che Anton Francesco Nori avea sostenuto e
infine deposto con pari decoro. Sedesse il nuovo tredici mesi, dal
primo giugno 1527 al primo luglio del 28, e alla conferma non fosse
divieto. Al giorno dato, sopra un partito al quale intervennero due
mila dugento cittadini, si trassero fuori nel modo consueto i sei che
avessero maggior numero di fave, tra’ quali doveva poi farsi la scelta.
I voti si dividevano tra uomini avversi più dichiaratamente ai Medici,
e Niccolò Capponi che, tenuto mediceo da molti, pure ottenne voti da
ambe le parti. A Tommaso Soderini, che a lui fece maggiore contrasto,
nocque il timore che non paresse la città divisa tra due famiglie,
com’era Genova tra gli Adorni ed i Fregosi. Fu eletto il Capponi con
ampio consenso, perchè nella bontà e integrità sua fidavano tutti.
I voti pei quali prevalse non erano nè d’una parte a lui devota, nè
d’una stessa qualità d’uomini. Allora i cittadini propriamente non si
dividevano per sètte, perchè non sapevano legarsi tra loro per vincoli
d’amicizia e fede scambievole. Di quei che cercavano fare un governo
di Ottimati, ciascuno tirava le cose a sè con diverse voglie e fini
diversi: tra questi era pure Niccolò, sebbene con migliore animo, come
quegli che voleva la libertà quanto si mantenesse onesta e possibile:
così nella parte che si disse del Capponi, benchè prevalessero gli
Ottimati, erano molti mezzani uomini di nature temperate, i quali
volevano il nome di libertà, ma non ne amavano i tumulti. Imperocchè
nella città di Firenze fu questo di proprio, che i più veri amici
di libertà fossero ad un tempo i migliori uomini e più virtuosi, la
parte più quieta e più casalinga. Vero è però che da questa parte si
avevano i Medici guadagnati molti co’ benefizi e col mantenere i modi
civili e le usate forme di governo popolare; talchè i buoni uomini di
Firenze non tolleravano le persecuzioni contro al nome dei Medici,
nè le vendette contro gli aderenti loro, per fini privati. Da quei
migliori e più discreti fu eletto il Capponi; andarono insieme gli
antichi Piagnoni con molto numero degli affezionati al nome dei Medici:
in questi ultimi si può dire che fosse una vera unione di parte,
perchè nel Consiglio avevano, come dicevasi allora, _quattrocento
fave ferme_ o voti sicuri. Divisi tra loro, ma di maggior nerbo e di
più ardenti passioni, erano gli Arrabbiati, nome dato agli antichi
nemici del Frate; ma quelle medesime nature d’uomini ambiziosi ed
appassionati volevano oggi formare una parte che tenesse in mano
lo Stato come vittoriosa, con la oppressione di chiunque negasse ai
Medici dichiararsi scoperto nemico, infino a vendere le sostanze loro,
spianare il palazzo e spegnere il nome di quella famiglia. Ai quali si
accostava tutta la parte più viva della città, e i giovani più generosi
che, nell’abbassamento dov’erano scese le sorti d’Italia, sentivano
oggi più vivo che mai l’amore di libertà; cotesti andavano sotto
il nome di Libertini, e alquanti ve n’era che avevano corso la loro
fortuna nella sorte delle armi.[165]
Il nuovo Stato fin da principio confermava nel proprio suo nome
la Lega con Francia, com’era stata in quello dei Medici. Al che si
opponeva la parte de’ pochi, i quali avrebbero con più antiveggenza
voluto unirsi cogl’Imperiali, dove si accorgevano infine dei conti
essere la forza, e bene sapendo che solamente per questa via poteva
Firenze andare a un governo fermo e ordinato. Ma vinse l’antico genio
guelfo e popolare, certo in sè stesso che mai non troverebbe grazia
presso a Carlo V, nè avrebbe voluto guadagnarsela col mezzo d’odiose e
insolite istituzioni, che non avevano in questo terreno radice alcuna
o fondamento. Così appena si restaurò la guerra, levarono un balzello
che molto gravava la parte medicea; e questi più volte si rinnovarono,
sempre però in modo che soddisfacesse alla passione di aggravare i più
facoltosi: quella ingiustizia dello scalare la Decima, cosicchè sopra
alla stessa quota di rendita s’imponesse a chi più aveva maggiore
tassa, fu ora condotta fino a far pagare a chi oltrepassasse una
mezzana entrata, sulla medesima unità estimale, il triplo di quello
che ai meno agiati s’imponeva.[166] Mandarono al campo della Lega con
altri soldati le famose Bande Nere, di nuovo accresciute e riordinate
sotto al governo di Orazio Baglioni, capitano bene adatto a quelle
milizie feroci e temute tra quante fossero in Italia. A mezza l’estate
Lautrech era sceso un’altra volta in Lombardia; seco era un grosso
esercito di Francesi, scopo (si diceva) la liberazione del Papa: felice
nei primi successi, riconquistò in nome di Francesco Sforza le città
d’Alessandria e di Pavia, la quale andò a sacco; mentre Antonio da
Leyva, costretto in Milano, faceva di questa crudele governo. E intanto
Genova, assediata per terra e per mare dalle armi Francesi e dalle
galere di Andrea Doria, tornò in ubbidienza del re Francesco. Il Papa
rimaneva prigione in Castello, dove la peste, che era entrata in Roma
e in Toscana, gli aveva mietuto dei suoi medesimi familiari: smunto e
vessato dalla ingordigia dei soldati, potè solamente dopo sette mesi
nella notte dei 9 dicembre solo e travestito fuggire in Orvieto, ma
forse per connivenza dello stesso Carlo V, a cui non piaceva d’averlo
nemico.
Fu grave la peste in quella estate anche in Firenze, dove perirono
molti, e molti fuggirono; talchè si fece una Provvisione perchè il
numero dei presenti bastante a vincere una legge, che era d’ottocento,
fosse ridotto a quattrocento. Le fortezze di Pisa e Livorno si riebbero
per lunghi accordi e molto danaro ai Castellani. Era in quel tempo
grande la potenza dell’ufficio dei Dieci, al quale (con l’esclusione
del Machiavelli) fu eletto segretario Donato Giannotti, uomo grave,
costumato, di buone lettere, intendentissimo delle cose civili e
amatore della libertà, sebbene troppo gli piacesse stare nelle case
dei grandi signori. Il tempo inclinava alla severità delle riforme,
così nelle spese come per la rettitudine dei giudizi criminali, intorno
ai quali erano abusi bruttissimi. Fu quindi ampliata e rinnovata la
Quarantìa, perchè divenisse un magistrato di revisione e giudicasse
ella nei casi più gravi. Si componeva di quaranta tirati a sorte dal
Consiglio degli Ottanta, e di alcuni dei magistrati: la presiedeva il
Gonfaloniere e si poteva dai giudizi di quella ricorrere al Consiglio
Grande.[167] Per una sentenza data con queste forme andò a morte
Pandolfo Puccini, valente soldato, che aveva fatta sedizione nel campo
e ucciso un suo compagno d’arme; ma la condanna dispiacque a molti di
quelli stessi che l’avevano pronunziata.[168] In seguito, i casi di
Stato, che importassero la morte, furono sottoposti a un Magistrato
formato dalla Signoria, dai Dieci e dagli Otto, senza ricorso.
Finita la peste e maggiormente quando il Papa fu tornato in libertà,
crescevano i sospetti popolari contro ai partigiani dei Medici: era
già stato posto un sindacato a chi al tempo loro avesse amministrato
i danari del Comune; pel quale titolo due molto principali di quella
parte, Benedetto Buondelmonti e Roberto Acciaioli furono menati
prigioni in Firenze; e il primo, perchè i suoi contadini di Val di
Pesa avevano mostrato volerlo difendere, corse pericolo della vita; poi
fu condannato a stare quattro anni nel fondo della torre di Volterra.
Degli altri uomini più eminenti, Filippo Strozzi andò a’ suoi Banchi
di Lione in Francia; Francesco Vettori si teneva oscuro in Pistoia;
Francesco Guicciardini prese a dimorare per lo più in villa, quivi
attendendo a scrivere l’istoria. Nel tempo medesimo avvenne che alcuni
giovani arditi, tra’ quali Dante da Castiglione sempre era primo,
andati una mattina alla Chiesa dei Servi, abbatterono le immagini di
cera che ivi erano di Papa Leone e di Clemente; dopo di che la Signoria
ordinò per il meglio, che tutte le armi dei Medici ch’erano dipinte o
scolpite in molte case della città, fossero cancellate o abbattute. Ma
nondimeno quei giovani, poco fidando nel Gonfaloniere e nella Signoria,
vollero avere la guardia del Palazzo, che erano trecento, dei quali
cinquanta per volta vi stavano armati; ma questo ottenne la Signoria,
che ogni giorno mutassero il capo loro, nè altro continuo ne avessero,
nè bandiera, salvo una appesa ad una colonna nel cortile del Palazzo.
Per le quali cose avvenne che il Gonfaloniere si ristringesse con
quei popolani, i quali dicemmo che a lui somigliavano; faceva leggi
contro al vizio del praticare le osterie, dove gli artigiani andavano
a consumare nei bagordi le grosse mercedi.[169] S’intratteneva molto
co’ frati di San Marco, e nel mese di febbraio, quando era la peste
riapparsa in Firenze, una mattina orando in Consiglio con le parole e
co’ terrori del Savonarola uscì a proporre che Cristo Redentore fosse
dichiarato Re di Firenze; al che non mancarono diciotto voti contrari.
Una lapide fu posta sopra alla porta principale del Palazzo, la quale
attestasse la solennità dell’atto.
Intanto le cose della guerra procedevano a questo modo. Era il Duca
di Ferrara tornato alla Lega con Francia, per le cui armi aveva
racquistato Modena e Reggio; i Fiorentini, nei quali era entrato più
che non solesse il pensiero delle cose militari, formavano colle loro
Bande Nere la forza più salda che fosse nell’esercito di Lautrech, il
quale entrato nel Regno, avanzava per la via degli Abruzzi con molto
favore dei popoli. Nella opposta parte essendo morto il vicerè Lannoy,
il comando dell’esercito Cesareo andò a Filiberto di Châlons, principe
d’Oranges, il quale però male riusciva a staccare dalla rapina di Roma
e di tutto il paese circostante gli avanzi dispersi dei suoi Tedeschi
e degli Spagnoli. Pervenne con molta fatica a fare una qualche testa
nei confini che sono fra gli Abruzzi e la Puglia: ma tosto dipoi, e
avendo le Bande Nere saccheggiata l’Aquila e i Francesi Melfi, egli
abbandonata la Terra di Lavoro, si chiuse in Napoli, alla quale tutto
l’esercito di Lautrech s’accampò intorno.
Fino a questo termine andò la fortuna delle armi Francesi. Una
battaglia per la quale Filippino Doria, nipote d’Andrea, distrusse
le navi spagnole dentro al golfo di Salerno, e la comparsa avanti a
Napoli, ma troppo tarda, delle galere veneziane con Pietro Lando, e
oltre ciò l’essere gli assediati afflitti dalla fame e dalla peste,
parevano certe promesse a Lautrech di pronta vittoria. Ma come dentro
alla città, così e peggiori per tutto il campo degli assedianti, venuta
l’estate, i morbi infuriavano prodotti dalla mal’aria; le compagnie
assottigliavano, e i superstiti affranti e sfiniti nulla facevano per
la guerra: quel forte esercito si struggeva. Morirono il Nunzio del
Papa e il Provveditore veneziano, moriva Lautrech: passò il Comando
al Marchese di Saluzzo, il quale in Aversa capitolava, e dopo brevi
giorni anch’egli moriva.[170] Pietro Navarro prigioniero, e come
traditore degli Spagnoli chiuso in quel Castello che molti anni prima
aveva per essi egli medesimo conquistato, fu dentro al carcere messo
a morte. Moriva per guerra Orazio Baglioni, e per malattia Ugo de’
Pepoli a lui successo nel comando delle Bande Nere, delle quali perite
o sbandate si perdè il nome. Il Commissario fiorentino al campo Gian
Battista Soderini e l’Oratore a Lautrech Marco del Nero, condotti a
Napoli prigionieri, e il primo con due ferite, morirono quivi. In tanta
vittoria non aveva il Principe d’Orange di che pagare i suoi soldati;
al che providde con l’uccisione e la confisca de’ beni di quei Baroni
che aveano tenuto la parte Francese, con la rapina delle sostanze dei
Napoletani e con la devastazione di quelle Provincie. Ma continuarono
contro ai Baroni e di essi tra loro le guerre intestine, che sotto più
forme d’età in età per lunghi secoli si perpetuarono.
Le sorti d’Italia, fermate con pessimo assetto in Napoli e in Sicilia,
poterono in Genova ne’ giorni medesimi per altre vie ma con migliori
effetti accomodarsi in modo stabile alle condizioni nuove che già
lo straniero dominio imponeva. Da per tutto nelle Provincie d’Italia
di già maturava quel vivere nuovo a cui si dovette ben tosto ridurre
l’intera nazione. Genova, da molti anni o serva o divisa, ottenne un
governo molto strettamente aristocratico, ma che a lei diede un lungo
periodo di pace in casa e d’indipendenza. Questo a lei fece Andrea
Doria, il quale voltandosi a Carlo V in tempo da rendergli un grande
servigio, impedì che Genova gli fosse mai suddita, a questo modo ben
meritando di tutta l’Italia; fu quasi principe nella patria sua, e pure
ottenne e serbò fama di gran cittadino. Quello che in Firenze pochi
sognavano, potè il Doria facilmente per essere egli e con lui altre
maggiori famiglie, potenti di navi e d’armi proprie. Non s’appartiene
a questo luogo dire quei fatti come avvenissero, nè quale riscontro
avessero con quei di Napoli, nè con altri moti di guerra ultimamente
sopravvenuti in Lombardia.[171] Qui era sceso il Duca di Brunswig con
diecimila Lanzichenecchi senza paga venuti al saccheggio; ma perchè
trovarono esausta ogni cosa dalla povertà spagnola, come ingannati
e per solo gusto di vendetta mettendo le case a fuoco ed a sangue,
tornarono addietro dopo alcune settimane. Verso lo stesso tempo
Francesco I aveva mandato sotto al Conte di Saint-Paul una grande
accozzaglia d’uomini d’arme e di venturieri perchè rinforzassero
l’impresa di Napoli. Caduta quella, e dopo essere più mesi rimasti
a desolare inutilmente le terre lombarde, avvenne che un giorno
il Saint-Paul, sorpreso dalla infaticabile vigilanza di Antonio da
Leyva, restasse prigione, andando dispersi quei pochi soldati che gli
rimanevano.
In quest’anno 1528 le cose di fuori tenevano pensosi gli animi dei
Fiorentini. Il Governo di Niccolò Capponi procedeva equo e temperato;
cosicchè venuto il primo di luglio, fu egli confermato, non senza
contrasto, Gonfaloniere per un altro anno. Intanto le guerre per la
signoria d’Italia continuate trentacinque anni, finivano quasi nel
tempo medesimo co’ fatti di Genova e quelli di Napoli. Clemente VII
tornato in Roma subito dopo, nel mese d’ottobre, più non vedeva innanzi
a sè due contendenti tra’ quali stesse in lui di scegliersi l’alleato;
e benchè tenesse pratiche aperte col re Francesco, mostravano alcuni
indizi piccoli, ma sicuri, come egli cercasse d’unirsi a Cesare, e
questi avesse pe’ suoi disegni bisogno del Papa. Ai Fiorentini, che
gli avevano entrambi nemici, pareva già correre un grande pericolo,
essendo le forze della Repubblica trattenute in Puglia con Renzo da
Ceri a una inutile spedizione. Si era molto tempo ragionato e fatto
intendere ai Magistrati, che per difesa della città era necessità
dare le armi ai cittadini: del che erano molti che non soffrivano
per modo alcuno sentire discorrere; i vecchi per essere vissuti
nell’ozio sicuro delle botteghe loro, altri perchè dare le armi al
popolo temevano fosse l’ultimo esterminio di Firenze, altri perchè
in un capo militare vedevano un Cesare che opprimesse la libertà. Era
il Gonfaloniere da principio molto avverso a quel partito, ma poichè
vidde la gioventù essersi usata nelle armi fuori del consueto, e pel
timore di quella guardia che pareva guardasse piuttosto lui che il
Palazzo; si diede infine tutto a promuovere questa milizia universale
fino a mandare egli medesimo a sollecitare le donne che incannavano
la seta nei suoi filatoi. Fu l’ordinanza vinta in Consiglio ai 6
novembre; dopodichè avendo descritti i sedici Gonfaloni secondo i
Quartieri e fatto prestare il giuramento, diedero a tutti le armi,
benchè il maggior numero da sè le portasse. Ciascun Quartiere aveva un
cittadino per Commissario ed un sergente maggiore, al quale ufizio si
scelsero uomini di tutta Italia che meglio si fossero fatti conoscere
nelle guerre. Furono i descritti da tre in quattro mila, che mille
settecento archibusieri, mille picche ed il restante da alabarde o
spade a due mani, e in tutto avevano oltre a mille corsaletti. Parve
cosa magnifica quando il Gonfaloniere, seduto avanti la porta del Duomo
con la Signoria, fece la mostra dei nuovi soldati vestiti e addobbati
decorosamente con aspetto guerriero e buona disciplina e segni d’unione
tra loro. In ogni Quartiere fu recitata una Orazione: abbiamo a stampa
quella di Bartolommeo Cavalcanti, fredda come di un retore: altra,
scritta da un giovane di buone lettere ma irrequieto, che fu Pier
Filippo Pandolfini, parve che andasse a ferire quei dello Stato; e già
Pier Filippo aveva sofferto un’altra volta accusa per essere egli de’
più accesi verso il popolo e la libertà.[172]
Ma da principio la Provvisione sulla Milizia parve a quei della guardia
del Palazzo fatta contro a loro ch’erano giovani dei più animosi.
Costoro, se fossero stati nei tempi quando la libertà era in Firenze un
comun sentire e quasi una necessità comune, se avessero avuto intorno
a sè nelle sue varie gradazioni il fascio intero della cittadinanza,
sarebbero stati la forza d’un popolo unito e concorde; ma oggi
trovandosi come solitari ciascuno in sè stesso e poco sicuri nei loro
voleri, sebbene capaci più degli altri ad illustrare i loro nomi e la
patria loro con gli esempi generosi, facevano spesso più male che bene.
Iacopo Alamanni che noi conosciamo tra quei giovani il più audace,
essendo lì quando la Provvisione passò nel Consiglio e più degli
altri facendo rumore, si prese a parole con uno dei Capponi e uscirono
insieme; sopravvenne uno dei Ginori, il quale unitosi al Capponi ebbe
in quella collera e in quella calca una ferita dall’Alamanni, che si
credette averlo morto: cominciò allora a gridare popolo e a chiamare
quei della guardia che lo difendessero; ma niuno si mosse, ed i famigli
degli Otto, preso l’Alamanni, lo condussero prigione dentro al Palazzo.
Qui erano, oltre alla Signoria, gli Otto e i Dieci chiamati a formare
insieme quel terribile tribunale dal quale era stato tolto via il
ricorso al popolo nel Consiglio Grande: il Gonfaloniere intimidito gli
radunò perchè dessero sentenza intorno a quel fatto. Nello Statuto è
un’antica legge la quale dichiara casi di Stato le aggressioni commesse
in Piazza o intorno al Palagio: allora quei giudici erano chiamati a
giudicare un uomo già inviso a loro, in quella febbre di passioni e
di paure, e dentro il tempo che è necessario a far girare tra pochi un
partito. Andò che fosse l’Alamanni esaminato e non si vinse; andò che
fosse condannato a morte, e si vinse; nella sera stessa fu l’Alamanni
decapitato, cinque ore dopo commesso il misfatto. Si trova che egli in
sul morire, senza che gli uscisse parola vile, dicesse: «Se il popolo
di Firenze farà così aspramente giustizia a ciascuno, io sono certo
che e’ manterrà la libertà sua.[173]» L’Alamanni era giovanissimo; e se
veramente disse quelle parole, avrebbe la condanna privato Firenze d’un
gran cittadino.
Per questo fatto parve agli autori di quel tempo (e forse a taluni
parrebbe del nostro) che fosse cresciuta reputazione a Niccolò e alla
sua parte, poichè avevano potuto quello che a tanti spiaceva, senza che
persona si muovesse, ed i contrari mostrandosi deboli o male uniti.
Nè io dubito che nel primo caldo paresse questo a Niccolò; ma tosto
poi si vidde egli le inimicizie diventare odii, e molti amici essergli
più freddi, e la cittadinanza quieta da lui alienarsi. Agli uomini che
sappiano di essere tenuti generalmente buoni, è inciampo l’uso continuo
del potere, perchè il mantenerselo ad essi pare che sia un obbligo
com’è un impegno; e il solo attraversarsi ai loro pensieri, si credono
essere un atto malvagio. La parte che seguitava il Gonfaloniere già
era chiamata la parte dei pochi, mentre la contraria molto ingrossata,
diveniva più forte ogni giorno. In questa si era fra tutti innalzato
un uomo di piccola e oscura famiglia, Baldassarre Carducci, dottore in
Padova di leggi, sincero amatore di libertà e nemico ai Medici, tanto
che il Papa col mezzo del doge Andrea Gritti lo fece mandare prigione
in Venezia. Tornato in patria Baldassarre e in somma grazia del popolo,
era stato le due volte vicino a ottenere il supremo Magistrato:
infine il Capponi, che lui temeva sovra ogni altro, riuscì a farlo
eleggere ambasciatore in Francia, dove al Carducci, sebbene vecchio
di settant’anni, convenne andare senza ottenere per grazia il rifiuto
ch’era vietato dalla legge. Rimase in Firenze uno di quella stessa
famiglia, ma più valente e fresco d’animo[174] e più risoluto, di nome
Francesco, il quale fino allora poco noto, ebbe grande parte nei fatti
ultimi di questa Istoria.
Dacchè fu il Papa tornato in Roma avea nell’animo un pensiero solo,
quello di rimettere la Casa Medici in Firenze; il che in altri termini
importava racquistarne il principato così da trasmetterlo a quelli
dei quali si aveva fatto la sua famiglia. Intorno a questi le cose
mutarono su’ primi dell’anno 1529: il Papa infermava, e nel pericolo
della vita questa passione lo tormentava, che morto lui non avrebbe più
la sua Casa fondamento nella Chiesa: con questo pensiero creò Ippolito
cardinale. Io per me credo che ne avesse prima fatto il disegno, ma
nella sottile malizia dei Fiorentini l’avere ad un tratto chiamato al
futuro governo dei popoli il figliuolo della schiava, dava occasione
alle dicerie fino a credere che Alessandro nascesse da lui. Guarito il
Papa, erano continue fra Roma e Firenze le pratiche, allora bastando
a Clemente che i suoi potessero tornare in patria e al possesso delle
robe loro, senza altro grado che di cittadini. Nel quale partito molti
vedevano un inganno; ma pure in quella natura timida di Clemente,
ora abbassato dalla fortuna, e che spesso compariva simulatore quando
era dubbioso, poteva alle volte per davvero entrare il concetto di un
cosiffatto accomodamento ed egli contentarsene per allora. Nel nome di
lui trattava in Roma queste cose Iacopo Salviati, che sempre ai due
Papi suoi parenti aveva consigliato i larghi partiti; ed in Firenze
il Gonfaloniere senza molto celarsene le ascoltava. Forse al Capponi
cotesto modo non pareva del tutto impossibile, o forse credevano egli e
Clemente di addormentare l’uno l’altro con questi discorsi. Ma intanto
in Firenze del solo tenere in Roma pratiche si faceva un grande carico
al Gonfaloniere, al quale una volta ne fu dato formale divieto; ma egli
nonostante continuava, sebbene allora con più segretezza. Veramente
al solo pensare come Carlo V oggimai fosse non disputato padrone
d’Italia, ed al vedere come egli ed il Papa già dessero segni tanto
manifesti quanto credibili d’accostarsi; è naturale che Niccolò con
quel suo animo e quella sua natura tenesse i Medici come inevitabili,
nè altro cercasse alla patria sua che un qualche onesto nè troppo duro
temperamento. Avrebbe egli pure bramato fare gli Ottanta a vita, e
ridurre il Consiglio Grande a cinquecento, perchè deliberasse le cose
di meno importanza.
Avvenne che un giorno del mese d’aprile cadesse di mano a Niccolò
una lettera, e che fosse questa nell’andito dei Signori trovata da
Iacopo Gherardi il quale era Proposto quel giorno. La lettera scritta
in Roma da un Giachinotto Serragli, del quale soleva molto valersi
Iacopo Salviati, diceva avere egli da parlargli di cose importanti, e
che mandasse Piero suo figliuolo ai confini dove l’aspettava. Era il
Gherardi fra tutti i nemici di Niccolò il più fiero; laonde senz’altro
chiamati gli altri Signori a consulta, e fatto prima empire il Palazzo
d’amici suoi, mostrò la lettera, e in quella parendo fosse tradimento,
deliberarono convocare in forma di Pratica gli Ottanta insieme coi
principali Magistrati. Aveano già messo il Gonfaloniere sotto guardia;
il quale venuto innanzi alla Pratica parlò umilmente, accusò sè stesso,
ma dichiarando che Piero suo figliuolo non aveva colpa. Fu quindi
deposto, e si cominciò a ragionare del gastigo; già nella Piazza era
gran rumore e gente in arme e un gran contrasto di amici e nemici di
Niccolò. Dentro al Palazzo quella parte d’Ottimati i quali, sebbene
avversi a lui, pure non volevano mandare le cose tant’oltre, ottennero
che al giudizio si soprassedesse, venendo intanto a fare lo scambio del
Gonfaloniere: rimase eletto Francesco Carducci da continuare fino alla
fine di quell’anno. Ma intanto gli amici di Niccolò e tutta la miglior
parte si adopravano caldamente in suo favore. Fu il giudizio rimesso
ai Magistrati ordinari che erano in quel caso, per una più antica
legge, la Signoria e gli Otto e i Dieci e i Collegi: dovea la sentenza
essere vinta per i due terzi. Comparve innanzi a questi il Capponi, e
parlò allora con maggiore animo: fu quindi assoluto, con molto contento
degli uni perchè lo avevano deposto, degli altri perchè non lo avevano
condannato. Uscì di Palagio accompagnato da’ parenti e dagli amici tra
molto popolo, tantochè pareva che tutto Firenze gli fosse dietro: così
tornò a casa.[175]
In questi giorni erano molto innanzi le pratiche tra ’l Papa e Cesare
facilmente convenuti quanto a ricondurre, se fosse bisogno, la Casa
Medici in Firenze. Ma sopra ogni cosa Clemente bramava tornasse
chiamata dalla città stessa: questa passione lo tormentava, pensando
inoltre quanto importasse ai negoziati trattare egli come principe in
pretesti negato i segnali per cui venissero i Castellani disciolti
dalla fede che avevano data. Filippo ebbe accusa d’avere aiutata la
frode, poichè si fu accorto che il rivolgimento procedeva diverso da
quello che avrebbe voluto; dal che a lui venne un grande odio nella
città.
Era cosiffatto il popolo di Firenze, e per antico uso e antico diritto
aveva sì caro il nome di libertà, che al primo suono di questa parola
tutti si destavano; e questo popolo era allora tutto unito e concorde
in quel sentimento, perchè di quel tanto che ognuno ne avesse impresso
nell’animo veniva nel primo sorgere a comporsi un volere solo: talchè
gli pareva d’essere tornato ai primi suoi tempi, e a sè faceva di
quelle leggi che dipoi era sovente inabile a portare. Sopra ogni cosa,
come si è più volte detto, odiava il Governo dei pochi; ed ora viepiù
l’odiava poichè si era accorto che i Nobili, i quali aveano fatto quel
mutamento, stavano in due tra ’l porre sè stessi nel luogo de’ Medici,
o accettare questi, s’era necessario, e quando vi fosse il conto loro.
Il che era vero: ma vero è ancora che ai più savi, guardando alle
cose d’Italia com’erano e volgere il mondo a principati ed a signorie,
pareva di questi Medici non fosse da fare a meno; e quanto a un Governo
largo e popolare, lo avrebbero contradetto a ogni modo come impossibile
a mantenere. Da questi pensieri mi pare che fosse tirato tra gli altri
Niccolò Capponi, uomo sincero; quanto a sè i Medici poco amando, non
poteva uscirgli dal capo come essi alla fine sarebbero ritornati, e
cercò sempre ingenuamente venire a un accordo tra essi e la libertà.
Giammai non si era del tutto da essi alienato, ed ora madonna Clarice
e la piccola Duchessina stando nel Palazzo dei Medici e poi nel
convento di Santa Lucia, Niccolò andava pubblicamente a visitarle.
Per le quali cose crescendo il romore nella città, e molta gioventù in
arme intorno al Palagio di già minacciando fare Parlamento; gli uomini
delle botteghe, che già si chiudevano, e molti d’ogni sorta accorsi al
Palagio, imposero alla Signoria ed ai maggiori cittadini e più restii
la convocazione pronta del Consiglio grande, senza esclusione di quelli
che erano a specchio ed abbassando di un anno l’età per entrarvi,
col solo divieto di quelli che avevano tenuti co’ Medici gli uffizi
maggiori. Fecero scambiare gli Otto di Guardia e quelli di Pratica,
abolirono i Consigli creati di nuovo, e riposero ogni cosa com’era nel
1512; restaurarono il Senato degli Ottanta e l’uffizio dei Dieci di
guerra. Nella impaziente letizia di convocare il Gran Consiglio, perchè
la Sala era stata negli ultimi anni guasta da’ soldati e ingombra e
bruttata, i primi giovani di Firenze lavorando giorno e notte l’ebbero
riposta in poche ore al punto come l’aveva fatta il Savonarola, del
quale il nome stava sempre in alto a quanti amassero libertà onesta. Si
radunò infine il Grande Consiglio, e v’intervennero duemila cinquecento
cittadini, che non potendo tutti capire nella Sala, stavano calcati fin
lungo le scale. Ordinarono che la presente Signoria cessasse a tempo
rotto e che la nuova durasse tre mesi: per ultimo si pensò ad eleggere
il Gonfaloniere, uffizio che Anton Francesco Nori avea sostenuto e
infine deposto con pari decoro. Sedesse il nuovo tredici mesi, dal
primo giugno 1527 al primo luglio del 28, e alla conferma non fosse
divieto. Al giorno dato, sopra un partito al quale intervennero due
mila dugento cittadini, si trassero fuori nel modo consueto i sei che
avessero maggior numero di fave, tra’ quali doveva poi farsi la scelta.
I voti si dividevano tra uomini avversi più dichiaratamente ai Medici,
e Niccolò Capponi che, tenuto mediceo da molti, pure ottenne voti da
ambe le parti. A Tommaso Soderini, che a lui fece maggiore contrasto,
nocque il timore che non paresse la città divisa tra due famiglie,
com’era Genova tra gli Adorni ed i Fregosi. Fu eletto il Capponi con
ampio consenso, perchè nella bontà e integrità sua fidavano tutti.
I voti pei quali prevalse non erano nè d’una parte a lui devota, nè
d’una stessa qualità d’uomini. Allora i cittadini propriamente non si
dividevano per sètte, perchè non sapevano legarsi tra loro per vincoli
d’amicizia e fede scambievole. Di quei che cercavano fare un governo
di Ottimati, ciascuno tirava le cose a sè con diverse voglie e fini
diversi: tra questi era pure Niccolò, sebbene con migliore animo, come
quegli che voleva la libertà quanto si mantenesse onesta e possibile:
così nella parte che si disse del Capponi, benchè prevalessero gli
Ottimati, erano molti mezzani uomini di nature temperate, i quali
volevano il nome di libertà, ma non ne amavano i tumulti. Imperocchè
nella città di Firenze fu questo di proprio, che i più veri amici
di libertà fossero ad un tempo i migliori uomini e più virtuosi, la
parte più quieta e più casalinga. Vero è però che da questa parte si
avevano i Medici guadagnati molti co’ benefizi e col mantenere i modi
civili e le usate forme di governo popolare; talchè i buoni uomini di
Firenze non tolleravano le persecuzioni contro al nome dei Medici,
nè le vendette contro gli aderenti loro, per fini privati. Da quei
migliori e più discreti fu eletto il Capponi; andarono insieme gli
antichi Piagnoni con molto numero degli affezionati al nome dei Medici:
in questi ultimi si può dire che fosse una vera unione di parte,
perchè nel Consiglio avevano, come dicevasi allora, _quattrocento
fave ferme_ o voti sicuri. Divisi tra loro, ma di maggior nerbo e di
più ardenti passioni, erano gli Arrabbiati, nome dato agli antichi
nemici del Frate; ma quelle medesime nature d’uomini ambiziosi ed
appassionati volevano oggi formare una parte che tenesse in mano
lo Stato come vittoriosa, con la oppressione di chiunque negasse ai
Medici dichiararsi scoperto nemico, infino a vendere le sostanze loro,
spianare il palazzo e spegnere il nome di quella famiglia. Ai quali si
accostava tutta la parte più viva della città, e i giovani più generosi
che, nell’abbassamento dov’erano scese le sorti d’Italia, sentivano
oggi più vivo che mai l’amore di libertà; cotesti andavano sotto
il nome di Libertini, e alquanti ve n’era che avevano corso la loro
fortuna nella sorte delle armi.[165]
Il nuovo Stato fin da principio confermava nel proprio suo nome
la Lega con Francia, com’era stata in quello dei Medici. Al che si
opponeva la parte de’ pochi, i quali avrebbero con più antiveggenza
voluto unirsi cogl’Imperiali, dove si accorgevano infine dei conti
essere la forza, e bene sapendo che solamente per questa via poteva
Firenze andare a un governo fermo e ordinato. Ma vinse l’antico genio
guelfo e popolare, certo in sè stesso che mai non troverebbe grazia
presso a Carlo V, nè avrebbe voluto guadagnarsela col mezzo d’odiose e
insolite istituzioni, che non avevano in questo terreno radice alcuna
o fondamento. Così appena si restaurò la guerra, levarono un balzello
che molto gravava la parte medicea; e questi più volte si rinnovarono,
sempre però in modo che soddisfacesse alla passione di aggravare i più
facoltosi: quella ingiustizia dello scalare la Decima, cosicchè sopra
alla stessa quota di rendita s’imponesse a chi più aveva maggiore
tassa, fu ora condotta fino a far pagare a chi oltrepassasse una
mezzana entrata, sulla medesima unità estimale, il triplo di quello
che ai meno agiati s’imponeva.[166] Mandarono al campo della Lega con
altri soldati le famose Bande Nere, di nuovo accresciute e riordinate
sotto al governo di Orazio Baglioni, capitano bene adatto a quelle
milizie feroci e temute tra quante fossero in Italia. A mezza l’estate
Lautrech era sceso un’altra volta in Lombardia; seco era un grosso
esercito di Francesi, scopo (si diceva) la liberazione del Papa: felice
nei primi successi, riconquistò in nome di Francesco Sforza le città
d’Alessandria e di Pavia, la quale andò a sacco; mentre Antonio da
Leyva, costretto in Milano, faceva di questa crudele governo. E intanto
Genova, assediata per terra e per mare dalle armi Francesi e dalle
galere di Andrea Doria, tornò in ubbidienza del re Francesco. Il Papa
rimaneva prigione in Castello, dove la peste, che era entrata in Roma
e in Toscana, gli aveva mietuto dei suoi medesimi familiari: smunto e
vessato dalla ingordigia dei soldati, potè solamente dopo sette mesi
nella notte dei 9 dicembre solo e travestito fuggire in Orvieto, ma
forse per connivenza dello stesso Carlo V, a cui non piaceva d’averlo
nemico.
Fu grave la peste in quella estate anche in Firenze, dove perirono
molti, e molti fuggirono; talchè si fece una Provvisione perchè il
numero dei presenti bastante a vincere una legge, che era d’ottocento,
fosse ridotto a quattrocento. Le fortezze di Pisa e Livorno si riebbero
per lunghi accordi e molto danaro ai Castellani. Era in quel tempo
grande la potenza dell’ufficio dei Dieci, al quale (con l’esclusione
del Machiavelli) fu eletto segretario Donato Giannotti, uomo grave,
costumato, di buone lettere, intendentissimo delle cose civili e
amatore della libertà, sebbene troppo gli piacesse stare nelle case
dei grandi signori. Il tempo inclinava alla severità delle riforme,
così nelle spese come per la rettitudine dei giudizi criminali, intorno
ai quali erano abusi bruttissimi. Fu quindi ampliata e rinnovata la
Quarantìa, perchè divenisse un magistrato di revisione e giudicasse
ella nei casi più gravi. Si componeva di quaranta tirati a sorte dal
Consiglio degli Ottanta, e di alcuni dei magistrati: la presiedeva il
Gonfaloniere e si poteva dai giudizi di quella ricorrere al Consiglio
Grande.[167] Per una sentenza data con queste forme andò a morte
Pandolfo Puccini, valente soldato, che aveva fatta sedizione nel campo
e ucciso un suo compagno d’arme; ma la condanna dispiacque a molti di
quelli stessi che l’avevano pronunziata.[168] In seguito, i casi di
Stato, che importassero la morte, furono sottoposti a un Magistrato
formato dalla Signoria, dai Dieci e dagli Otto, senza ricorso.
Finita la peste e maggiormente quando il Papa fu tornato in libertà,
crescevano i sospetti popolari contro ai partigiani dei Medici: era
già stato posto un sindacato a chi al tempo loro avesse amministrato
i danari del Comune; pel quale titolo due molto principali di quella
parte, Benedetto Buondelmonti e Roberto Acciaioli furono menati
prigioni in Firenze; e il primo, perchè i suoi contadini di Val di
Pesa avevano mostrato volerlo difendere, corse pericolo della vita; poi
fu condannato a stare quattro anni nel fondo della torre di Volterra.
Degli altri uomini più eminenti, Filippo Strozzi andò a’ suoi Banchi
di Lione in Francia; Francesco Vettori si teneva oscuro in Pistoia;
Francesco Guicciardini prese a dimorare per lo più in villa, quivi
attendendo a scrivere l’istoria. Nel tempo medesimo avvenne che alcuni
giovani arditi, tra’ quali Dante da Castiglione sempre era primo,
andati una mattina alla Chiesa dei Servi, abbatterono le immagini di
cera che ivi erano di Papa Leone e di Clemente; dopo di che la Signoria
ordinò per il meglio, che tutte le armi dei Medici ch’erano dipinte o
scolpite in molte case della città, fossero cancellate o abbattute. Ma
nondimeno quei giovani, poco fidando nel Gonfaloniere e nella Signoria,
vollero avere la guardia del Palazzo, che erano trecento, dei quali
cinquanta per volta vi stavano armati; ma questo ottenne la Signoria,
che ogni giorno mutassero il capo loro, nè altro continuo ne avessero,
nè bandiera, salvo una appesa ad una colonna nel cortile del Palazzo.
Per le quali cose avvenne che il Gonfaloniere si ristringesse con
quei popolani, i quali dicemmo che a lui somigliavano; faceva leggi
contro al vizio del praticare le osterie, dove gli artigiani andavano
a consumare nei bagordi le grosse mercedi.[169] S’intratteneva molto
co’ frati di San Marco, e nel mese di febbraio, quando era la peste
riapparsa in Firenze, una mattina orando in Consiglio con le parole e
co’ terrori del Savonarola uscì a proporre che Cristo Redentore fosse
dichiarato Re di Firenze; al che non mancarono diciotto voti contrari.
Una lapide fu posta sopra alla porta principale del Palazzo, la quale
attestasse la solennità dell’atto.
Intanto le cose della guerra procedevano a questo modo. Era il Duca
di Ferrara tornato alla Lega con Francia, per le cui armi aveva
racquistato Modena e Reggio; i Fiorentini, nei quali era entrato più
che non solesse il pensiero delle cose militari, formavano colle loro
Bande Nere la forza più salda che fosse nell’esercito di Lautrech, il
quale entrato nel Regno, avanzava per la via degli Abruzzi con molto
favore dei popoli. Nella opposta parte essendo morto il vicerè Lannoy,
il comando dell’esercito Cesareo andò a Filiberto di Châlons, principe
d’Oranges, il quale però male riusciva a staccare dalla rapina di Roma
e di tutto il paese circostante gli avanzi dispersi dei suoi Tedeschi
e degli Spagnoli. Pervenne con molta fatica a fare una qualche testa
nei confini che sono fra gli Abruzzi e la Puglia: ma tosto dipoi, e
avendo le Bande Nere saccheggiata l’Aquila e i Francesi Melfi, egli
abbandonata la Terra di Lavoro, si chiuse in Napoli, alla quale tutto
l’esercito di Lautrech s’accampò intorno.
Fino a questo termine andò la fortuna delle armi Francesi. Una
battaglia per la quale Filippino Doria, nipote d’Andrea, distrusse
le navi spagnole dentro al golfo di Salerno, e la comparsa avanti a
Napoli, ma troppo tarda, delle galere veneziane con Pietro Lando, e
oltre ciò l’essere gli assediati afflitti dalla fame e dalla peste,
parevano certe promesse a Lautrech di pronta vittoria. Ma come dentro
alla città, così e peggiori per tutto il campo degli assedianti, venuta
l’estate, i morbi infuriavano prodotti dalla mal’aria; le compagnie
assottigliavano, e i superstiti affranti e sfiniti nulla facevano per
la guerra: quel forte esercito si struggeva. Morirono il Nunzio del
Papa e il Provveditore veneziano, moriva Lautrech: passò il Comando
al Marchese di Saluzzo, il quale in Aversa capitolava, e dopo brevi
giorni anch’egli moriva.[170] Pietro Navarro prigioniero, e come
traditore degli Spagnoli chiuso in quel Castello che molti anni prima
aveva per essi egli medesimo conquistato, fu dentro al carcere messo
a morte. Moriva per guerra Orazio Baglioni, e per malattia Ugo de’
Pepoli a lui successo nel comando delle Bande Nere, delle quali perite
o sbandate si perdè il nome. Il Commissario fiorentino al campo Gian
Battista Soderini e l’Oratore a Lautrech Marco del Nero, condotti a
Napoli prigionieri, e il primo con due ferite, morirono quivi. In tanta
vittoria non aveva il Principe d’Orange di che pagare i suoi soldati;
al che providde con l’uccisione e la confisca de’ beni di quei Baroni
che aveano tenuto la parte Francese, con la rapina delle sostanze dei
Napoletani e con la devastazione di quelle Provincie. Ma continuarono
contro ai Baroni e di essi tra loro le guerre intestine, che sotto più
forme d’età in età per lunghi secoli si perpetuarono.
Le sorti d’Italia, fermate con pessimo assetto in Napoli e in Sicilia,
poterono in Genova ne’ giorni medesimi per altre vie ma con migliori
effetti accomodarsi in modo stabile alle condizioni nuove che già
lo straniero dominio imponeva. Da per tutto nelle Provincie d’Italia
di già maturava quel vivere nuovo a cui si dovette ben tosto ridurre
l’intera nazione. Genova, da molti anni o serva o divisa, ottenne un
governo molto strettamente aristocratico, ma che a lei diede un lungo
periodo di pace in casa e d’indipendenza. Questo a lei fece Andrea
Doria, il quale voltandosi a Carlo V in tempo da rendergli un grande
servigio, impedì che Genova gli fosse mai suddita, a questo modo ben
meritando di tutta l’Italia; fu quasi principe nella patria sua, e pure
ottenne e serbò fama di gran cittadino. Quello che in Firenze pochi
sognavano, potè il Doria facilmente per essere egli e con lui altre
maggiori famiglie, potenti di navi e d’armi proprie. Non s’appartiene
a questo luogo dire quei fatti come avvenissero, nè quale riscontro
avessero con quei di Napoli, nè con altri moti di guerra ultimamente
sopravvenuti in Lombardia.[171] Qui era sceso il Duca di Brunswig con
diecimila Lanzichenecchi senza paga venuti al saccheggio; ma perchè
trovarono esausta ogni cosa dalla povertà spagnola, come ingannati
e per solo gusto di vendetta mettendo le case a fuoco ed a sangue,
tornarono addietro dopo alcune settimane. Verso lo stesso tempo
Francesco I aveva mandato sotto al Conte di Saint-Paul una grande
accozzaglia d’uomini d’arme e di venturieri perchè rinforzassero
l’impresa di Napoli. Caduta quella, e dopo essere più mesi rimasti
a desolare inutilmente le terre lombarde, avvenne che un giorno
il Saint-Paul, sorpreso dalla infaticabile vigilanza di Antonio da
Leyva, restasse prigione, andando dispersi quei pochi soldati che gli
rimanevano.
In quest’anno 1528 le cose di fuori tenevano pensosi gli animi dei
Fiorentini. Il Governo di Niccolò Capponi procedeva equo e temperato;
cosicchè venuto il primo di luglio, fu egli confermato, non senza
contrasto, Gonfaloniere per un altro anno. Intanto le guerre per la
signoria d’Italia continuate trentacinque anni, finivano quasi nel
tempo medesimo co’ fatti di Genova e quelli di Napoli. Clemente VII
tornato in Roma subito dopo, nel mese d’ottobre, più non vedeva innanzi
a sè due contendenti tra’ quali stesse in lui di scegliersi l’alleato;
e benchè tenesse pratiche aperte col re Francesco, mostravano alcuni
indizi piccoli, ma sicuri, come egli cercasse d’unirsi a Cesare, e
questi avesse pe’ suoi disegni bisogno del Papa. Ai Fiorentini, che
gli avevano entrambi nemici, pareva già correre un grande pericolo,
essendo le forze della Repubblica trattenute in Puglia con Renzo da
Ceri a una inutile spedizione. Si era molto tempo ragionato e fatto
intendere ai Magistrati, che per difesa della città era necessità
dare le armi ai cittadini: del che erano molti che non soffrivano
per modo alcuno sentire discorrere; i vecchi per essere vissuti
nell’ozio sicuro delle botteghe loro, altri perchè dare le armi al
popolo temevano fosse l’ultimo esterminio di Firenze, altri perchè
in un capo militare vedevano un Cesare che opprimesse la libertà. Era
il Gonfaloniere da principio molto avverso a quel partito, ma poichè
vidde la gioventù essersi usata nelle armi fuori del consueto, e pel
timore di quella guardia che pareva guardasse piuttosto lui che il
Palazzo; si diede infine tutto a promuovere questa milizia universale
fino a mandare egli medesimo a sollecitare le donne che incannavano
la seta nei suoi filatoi. Fu l’ordinanza vinta in Consiglio ai 6
novembre; dopodichè avendo descritti i sedici Gonfaloni secondo i
Quartieri e fatto prestare il giuramento, diedero a tutti le armi,
benchè il maggior numero da sè le portasse. Ciascun Quartiere aveva un
cittadino per Commissario ed un sergente maggiore, al quale ufizio si
scelsero uomini di tutta Italia che meglio si fossero fatti conoscere
nelle guerre. Furono i descritti da tre in quattro mila, che mille
settecento archibusieri, mille picche ed il restante da alabarde o
spade a due mani, e in tutto avevano oltre a mille corsaletti. Parve
cosa magnifica quando il Gonfaloniere, seduto avanti la porta del Duomo
con la Signoria, fece la mostra dei nuovi soldati vestiti e addobbati
decorosamente con aspetto guerriero e buona disciplina e segni d’unione
tra loro. In ogni Quartiere fu recitata una Orazione: abbiamo a stampa
quella di Bartolommeo Cavalcanti, fredda come di un retore: altra,
scritta da un giovane di buone lettere ma irrequieto, che fu Pier
Filippo Pandolfini, parve che andasse a ferire quei dello Stato; e già
Pier Filippo aveva sofferto un’altra volta accusa per essere egli de’
più accesi verso il popolo e la libertà.[172]
Ma da principio la Provvisione sulla Milizia parve a quei della guardia
del Palazzo fatta contro a loro ch’erano giovani dei più animosi.
Costoro, se fossero stati nei tempi quando la libertà era in Firenze un
comun sentire e quasi una necessità comune, se avessero avuto intorno
a sè nelle sue varie gradazioni il fascio intero della cittadinanza,
sarebbero stati la forza d’un popolo unito e concorde; ma oggi
trovandosi come solitari ciascuno in sè stesso e poco sicuri nei loro
voleri, sebbene capaci più degli altri ad illustrare i loro nomi e la
patria loro con gli esempi generosi, facevano spesso più male che bene.
Iacopo Alamanni che noi conosciamo tra quei giovani il più audace,
essendo lì quando la Provvisione passò nel Consiglio e più degli
altri facendo rumore, si prese a parole con uno dei Capponi e uscirono
insieme; sopravvenne uno dei Ginori, il quale unitosi al Capponi ebbe
in quella collera e in quella calca una ferita dall’Alamanni, che si
credette averlo morto: cominciò allora a gridare popolo e a chiamare
quei della guardia che lo difendessero; ma niuno si mosse, ed i famigli
degli Otto, preso l’Alamanni, lo condussero prigione dentro al Palazzo.
Qui erano, oltre alla Signoria, gli Otto e i Dieci chiamati a formare
insieme quel terribile tribunale dal quale era stato tolto via il
ricorso al popolo nel Consiglio Grande: il Gonfaloniere intimidito gli
radunò perchè dessero sentenza intorno a quel fatto. Nello Statuto è
un’antica legge la quale dichiara casi di Stato le aggressioni commesse
in Piazza o intorno al Palagio: allora quei giudici erano chiamati a
giudicare un uomo già inviso a loro, in quella febbre di passioni e
di paure, e dentro il tempo che è necessario a far girare tra pochi un
partito. Andò che fosse l’Alamanni esaminato e non si vinse; andò che
fosse condannato a morte, e si vinse; nella sera stessa fu l’Alamanni
decapitato, cinque ore dopo commesso il misfatto. Si trova che egli in
sul morire, senza che gli uscisse parola vile, dicesse: «Se il popolo
di Firenze farà così aspramente giustizia a ciascuno, io sono certo
che e’ manterrà la libertà sua.[173]» L’Alamanni era giovanissimo; e se
veramente disse quelle parole, avrebbe la condanna privato Firenze d’un
gran cittadino.
Per questo fatto parve agli autori di quel tempo (e forse a taluni
parrebbe del nostro) che fosse cresciuta reputazione a Niccolò e alla
sua parte, poichè avevano potuto quello che a tanti spiaceva, senza che
persona si muovesse, ed i contrari mostrandosi deboli o male uniti.
Nè io dubito che nel primo caldo paresse questo a Niccolò; ma tosto
poi si vidde egli le inimicizie diventare odii, e molti amici essergli
più freddi, e la cittadinanza quieta da lui alienarsi. Agli uomini che
sappiano di essere tenuti generalmente buoni, è inciampo l’uso continuo
del potere, perchè il mantenerselo ad essi pare che sia un obbligo
com’è un impegno; e il solo attraversarsi ai loro pensieri, si credono
essere un atto malvagio. La parte che seguitava il Gonfaloniere già
era chiamata la parte dei pochi, mentre la contraria molto ingrossata,
diveniva più forte ogni giorno. In questa si era fra tutti innalzato
un uomo di piccola e oscura famiglia, Baldassarre Carducci, dottore in
Padova di leggi, sincero amatore di libertà e nemico ai Medici, tanto
che il Papa col mezzo del doge Andrea Gritti lo fece mandare prigione
in Venezia. Tornato in patria Baldassarre e in somma grazia del popolo,
era stato le due volte vicino a ottenere il supremo Magistrato:
infine il Capponi, che lui temeva sovra ogni altro, riuscì a farlo
eleggere ambasciatore in Francia, dove al Carducci, sebbene vecchio
di settant’anni, convenne andare senza ottenere per grazia il rifiuto
ch’era vietato dalla legge. Rimase in Firenze uno di quella stessa
famiglia, ma più valente e fresco d’animo[174] e più risoluto, di nome
Francesco, il quale fino allora poco noto, ebbe grande parte nei fatti
ultimi di questa Istoria.
Dacchè fu il Papa tornato in Roma avea nell’animo un pensiero solo,
quello di rimettere la Casa Medici in Firenze; il che in altri termini
importava racquistarne il principato così da trasmetterlo a quelli
dei quali si aveva fatto la sua famiglia. Intorno a questi le cose
mutarono su’ primi dell’anno 1529: il Papa infermava, e nel pericolo
della vita questa passione lo tormentava, che morto lui non avrebbe più
la sua Casa fondamento nella Chiesa: con questo pensiero creò Ippolito
cardinale. Io per me credo che ne avesse prima fatto il disegno, ma
nella sottile malizia dei Fiorentini l’avere ad un tratto chiamato al
futuro governo dei popoli il figliuolo della schiava, dava occasione
alle dicerie fino a credere che Alessandro nascesse da lui. Guarito il
Papa, erano continue fra Roma e Firenze le pratiche, allora bastando
a Clemente che i suoi potessero tornare in patria e al possesso delle
robe loro, senza altro grado che di cittadini. Nel quale partito molti
vedevano un inganno; ma pure in quella natura timida di Clemente,
ora abbassato dalla fortuna, e che spesso compariva simulatore quando
era dubbioso, poteva alle volte per davvero entrare il concetto di un
cosiffatto accomodamento ed egli contentarsene per allora. Nel nome di
lui trattava in Roma queste cose Iacopo Salviati, che sempre ai due
Papi suoi parenti aveva consigliato i larghi partiti; ed in Firenze
il Gonfaloniere senza molto celarsene le ascoltava. Forse al Capponi
cotesto modo non pareva del tutto impossibile, o forse credevano egli e
Clemente di addormentare l’uno l’altro con questi discorsi. Ma intanto
in Firenze del solo tenere in Roma pratiche si faceva un grande carico
al Gonfaloniere, al quale una volta ne fu dato formale divieto; ma egli
nonostante continuava, sebbene allora con più segretezza. Veramente
al solo pensare come Carlo V oggimai fosse non disputato padrone
d’Italia, ed al vedere come egli ed il Papa già dessero segni tanto
manifesti quanto credibili d’accostarsi; è naturale che Niccolò con
quel suo animo e quella sua natura tenesse i Medici come inevitabili,
nè altro cercasse alla patria sua che un qualche onesto nè troppo duro
temperamento. Avrebbe egli pure bramato fare gli Ottanta a vita, e
ridurre il Consiglio Grande a cinquecento, perchè deliberasse le cose
di meno importanza.
Avvenne che un giorno del mese d’aprile cadesse di mano a Niccolò
una lettera, e che fosse questa nell’andito dei Signori trovata da
Iacopo Gherardi il quale era Proposto quel giorno. La lettera scritta
in Roma da un Giachinotto Serragli, del quale soleva molto valersi
Iacopo Salviati, diceva avere egli da parlargli di cose importanti, e
che mandasse Piero suo figliuolo ai confini dove l’aspettava. Era il
Gherardi fra tutti i nemici di Niccolò il più fiero; laonde senz’altro
chiamati gli altri Signori a consulta, e fatto prima empire il Palazzo
d’amici suoi, mostrò la lettera, e in quella parendo fosse tradimento,
deliberarono convocare in forma di Pratica gli Ottanta insieme coi
principali Magistrati. Aveano già messo il Gonfaloniere sotto guardia;
il quale venuto innanzi alla Pratica parlò umilmente, accusò sè stesso,
ma dichiarando che Piero suo figliuolo non aveva colpa. Fu quindi
deposto, e si cominciò a ragionare del gastigo; già nella Piazza era
gran rumore e gente in arme e un gran contrasto di amici e nemici di
Niccolò. Dentro al Palazzo quella parte d’Ottimati i quali, sebbene
avversi a lui, pure non volevano mandare le cose tant’oltre, ottennero
che al giudizio si soprassedesse, venendo intanto a fare lo scambio del
Gonfaloniere: rimase eletto Francesco Carducci da continuare fino alla
fine di quell’anno. Ma intanto gli amici di Niccolò e tutta la miglior
parte si adopravano caldamente in suo favore. Fu il giudizio rimesso
ai Magistrati ordinari che erano in quel caso, per una più antica
legge, la Signoria e gli Otto e i Dieci e i Collegi: dovea la sentenza
essere vinta per i due terzi. Comparve innanzi a questi il Capponi, e
parlò allora con maggiore animo: fu quindi assoluto, con molto contento
degli uni perchè lo avevano deposto, degli altri perchè non lo avevano
condannato. Uscì di Palagio accompagnato da’ parenti e dagli amici tra
molto popolo, tantochè pareva che tutto Firenze gli fosse dietro: così
tornò a casa.[175]
In questi giorni erano molto innanzi le pratiche tra ’l Papa e Cesare
facilmente convenuti quanto a ricondurre, se fosse bisogno, la Casa
Medici in Firenze. Ma sopra ogni cosa Clemente bramava tornasse
chiamata dalla città stessa: questa passione lo tormentava, pensando
inoltre quanto importasse ai negoziati trattare egli come principe in
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