Storia della Repubblica di Firenze v. 3/3 - 17

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Toscana, e non come esule che implorasse in patria il ritorno dalle
armi Imperiali. A questi pensieri doveva servire l’abboccamento che
Iacopo Salviati offriva in Roma e dove mi tengo certo che avrebbe
offerto larghissimi patti; ma ora Clemente si vedeva chiuso qualsiasi
adito in Firenze, dove la parte a lui più nemica teneva lo Stato.
Perciò si affrettava molto a collegarsi con l’Imperatore, già male
disposto verso un popolo tutto guelfo e tutto francese come era quello
dei Fiorentini che nulla avean fatto per conciliarselo, nonostante che
taluni a ciò gli avessero esortati, e primo fra tutti Luigi Alamanni,
gentile anima di cittadino e di poeta, che nell’esilio avea praticato
le cose del mondo ed era in Genova con Andrea Doria in molta amicizia.
Quando negli ultimi giorni del 1528 Baldassarre Carducci passava
per quella città nell’andare ambasciatore in Francia, recatosi a
visitare la nuova Signoria formata dal Doria, il grande uomo gli si
era aperto con tale consiglio. Lasciamo parlare lo stesso Carducci
in una lettera scritta ai Dieci: «Finita l’udienza, tirandomi a sè
e discostandosi alquanto da’ circostanti, mi disse che non mediocre
pericolo soprastava non solamente sopra l’una e l’altra Repubblica ma
sopra tutta Italia: continuava, potere egli affermare certissimamente
come il Re, non cercando altro che la pace e la recuperazione dei
figliuoli, aveva dato il foglio bianco perchè si potesse l’Imperatore
insignorire di tutta Italia senza riservo nè distinzione di amici.
Al che si vedeva poco rimedio, considerate le operazioni sinistre e
poco a proposito di questi Franzesi: non di manco ne confortava le VV.
SS. a pensar bene ai casi vostri, che sotto la speranza loro non vi
depauperassi e estenuassi tanto di forze, che nei casi di necessità non
vi potessi prevalere.» Alle quali parole il Carducci contrapponendo
come «sarebbe possibile che, unite insieme tutte le forze Italiche,
si potesse sperare qualche refugio; e quando questo non seguisse, a
noi è necessario di persistere nella solita fede del Cristianissimo,
con l’aiuto del quale e con le forze de’ collegati probabilmente si
potrebbe evitare tanta jattura;» il Doria, che aveva altro intelletto
ed esperienza, noiato rispose, che al presente bastava questo, ma
che «se le VV. SS. volessono intendere più oltre, mandassero un uomo
loro, ed egli gli aprirebbe interamente il suo concetto.[176]» Era
il disegno di Andrea Doria più che la speranza, mantenere in forze
gli Stati d’Italia perchè, senza logorarsi in vani conati, potesse
ciascuno, con qualche fiducia l’uno dell’altro, fare argine alla nuova
e inevitabile prepotenza. In questo concetto mandava più tardi Luigi
Alamanni alla Signoria di Firenze, dove nelle Pratiche quella proposta
ebbe difensori, ma popolarmente l’Alamanni non trovò ascolto e cadde
in sospetto.[177] Non fu mai proprio di questa Repubblica governarsi
dietro alle norme di quei concetti lunghi e complessi che sono di pochi
e che hanno bisogno di stare tra pochi; ma era popolo, cosicchè poteva
in esso più che altra cosa il sentimento.
L’imperatore Carlo V in Barcellona venuto per indi passare in Italia,
avea sottoscritto l’accordo col Papa il giorno 29 del mese di giugno
1529, festa di San Pietro. Di questo Trattato fu primo punto, che
la Casa dei Medici dovesse a spese comuni essere rimessa, nel grado
che prima teneva in Firenze, promettendo inoltre la Maestà Cesarea
di maritare ad Alessandro dei Medici una sua figlia naturale avuta
in Fiandra di nome Margherita, tuttora impubere. Altresì prometteva
dare mano perchè la Chiesa riavesse dagli attuali detentori i luoghi
ch’erano di sua pertinenza: cominciò allora lo stato ecclesiastico ad
essere effettivamente posseduto e governato dai Pontefici. In tutto
questo Clemente aveva i primi vantaggi; ma otteneva Carlo di togliere
via lo scandalo d’uno Stato popolare in mezzo all’Italia, e aggiungere
qualche cosa d’austriaco alla sovranità che in Firenze sarebbe venuta
nel nome del Papa: questi era per quel trattato medesimo tenuto in
briglia dal lato di Napoli, allora essendosi annullato anche l’antico
divieto di porre sul capo stesso oltre alla Corona imperiale quella
delle Sicilie. Come Re spagnolo, premeva a Carlo di cancellare la
recente ingiuria fatta al Pontefice; come Cesare, voleva rialzarne
l’autorità in faccia ai Luterani, e contrapporre l’unità cristiana alle
armi del Turco, le quali andavano contro a Vienna stessa. Voleva dal
Papa l’incoronazione, la quale però non fosse più quella investitura
che i Cesari avevano da prima obbligo di cercare sopra alle tombe degli
Apostoli, ma come una semplice consacrazione a lui recata dal Papa
medesimo fuori di Roma. Tale effetto ebbe quel Trattato per cui cessava
tutto il diritto che aveva governato l’età di mezzo; cosicchè in faccia
al mondo cristiano nè Papa nè Imperatore furono più quello che erano
stati oltre a settecento anni, venendo allora sotto un principio meno
ideale a separarsi quella mistura di Chiesa e di Stato, che all’Impero
dava quasi un sacerdozio e al sacerdozio attribuiva universalmente
gli uffici del regno. D’allora in poi nessun altro Imperatore venne in
Italia per la corona.
Francesco I re di Francia, stanco delle guerre che sempre gli erano
riuscite male, bramoso di attendere unicamente ai suoi piaceri e molto
poi di ricuperare i figli, i quali erano da tre anni come pegno tenuti
in Ispagna, cercava la pace che in modo diverso il fortunato suo rivale
anch’egli cercava. A questo la troppa e sformata vastità d’impero
creava ogni giorno la necessità d’imprese a cui, se null’altra cosa gli
mancasse, mancava il danaro; quindi è che rendere per moneta il pegno
che aveva nelle mani fu la prima condizione da lui accettata, poichè
l’esperienza gli ebbe insegnato non essere calcolo egualmente buono
smembrare la Francia. Ai 7 di luglio due donne convennero in Cambray,
Luisa di Savoia madre di Francesco e Margherita d’Austria zia di Carlo
V governatrice dei Paesi Bassi, quella che aveva nel luogo stesso
venti anni prima trattato la Lega contro a’ Veneziani; tra quelle
due donne sole furono messi insieme i capitoli della pace. Pagò la
Francia per la restituzione dei figli del Re in breve tempo un milione
e dugento mila ducati, e per l’Imperatore al Re d’Inghilterra dugento
mila; il Re prometteva non travagliarsi più nelle cose d’Italia, con
la restituzione di tutto quello che ivi possedeva: la quale astinenza
a lui e a’ Francesi sarebbe riuscita un grosso guadagno, ma vi era
inchiuso il tradimento dei patti giurati e l’abbandono delle provincie
per lui devastate e dei popoli che si erano in lui confidati e degli
uomini che avevano a lui servito: i Baroni Angiovini delle Sicilie
vivevano in Francia esuli e pezzenti. A tale vergogna discese il
Re, che egli prometteva con le sue forze d’obbligare i Veneziani
alla restituzione di quelle città le quali avevano essi acquistate
combattendo in lega con lui. Per quanto durarono Francesco I e la sua
schiatta, rimase avvilita la reputazione della Francia, e fu essa più
debole.
Ma non avevano però mai cessato fino all’ultimo le grandi promesse da
parte del Re ai Collegati, e massimamente ai Fiorentini che stavano
peggio di tutti gli altri e che si erano più abbandonatamente in lui
confidati. Nel mese di giugno il Re affermava: «non essere mai per fare
alcuna composizione senza totale beneficio e conservazione di cotesta
città, la quale reputa non manco che sua, e voler mettere la vita e
abbandonare l’impresa de’ figliuoli per la conservazione e mantenimento
degli Stati di ciascuno dei Collegati.» Ed il Gran Mastro: «Se voi
trovate mai che questa Maestà faccia conclusione alcuna con Cesare, che
voi non siate in precipuo luogo nominati e compresi, dite che io non
sia uomo d’onore, anzi che io sia un traditore.» Quando il Congresso
si riuniva, il Re mandato a interrogare, dichiarava il suo proposito
fermissimo di spingere giù tutte le forze a lui possibili, e scriveva a
Cambray, «che si faccia conclusione in tre o quattro giorni: parlavano
in Corte della qualità dei soldati da mandare e della venuta del Re a
Lione.[178]» Ma intanto giungeva a Cambray il tedesco Arcivescovo di
Capua, il quale era l’anima del Papa e di Cesare nel tempo medesimo:
allora il modo fu trovato dai Cancellieri fiamminghi che maneggiavano
quella pace; ed un articolo del Trattato comprendeva i Veneziani e
i Fiorentini, purchè dentro quattro mesi avessero data soddisfazione
circa ai loro obblighi verso l’Impero. Il che per Firenze importava
fare Cesare solo giudice intorno a quei diritti, i quali abbiamo veduto
non essere mai stati deposti dalla Curia Imperiale; talchè il modo come
Firenze era nominata equivaleva ad una esclusione. Allora si diedero i
Francesi a dire che il Re poi nel fatto avrebbe difesa la causa degli
amici suoi, che avuti i figlioli non terrebbe conto di quel ch’avea
scritto, che almeno avrebbe sovvenuto di danaro i Fiorentini; ma quando
poi si venne a chiederli, il Gran Mastro diceva che il Regno troppo
aveva da pagare, e che le cose grandi dovevano andare innanzi alle
piccole: da ultimo disse, che certi quaranta mila scudi da pagare ad
essi occultamente erano in pronto; ma poi si vidde che andavano a Renzo
da Ceri perchè sgombrasse da un resto d’armi Francesi la Puglia. A
questa serie d’inganni il Re si prestava stando egli lontano da Cambray
a caccia con le dame, e per le ville con dietro gli Ambasciatori
costretti seguire chi fuggiva la presenza e il commercio loro.[179]
Sentiva il Re la sua vergogna, ma era facile a dimenticarla, svagato e
leggiero e prono per indole alle seduzioni della Corte, che in Francia
erano più che altrove atte a guastare allora e poi sempre l’animo dei
Re.
Non è vero che Baldassarre Carducci con le sue lettere fomentasse le
speranze le quali in Firenze si mantenevano ostinate; grande politico
non era egli nè grande scrittore, ma riferisce le cose udite, spesso
aggiugnendo che non vi credeva; da ultimo consiglia con ogni istanza,
«procurare qualche buona composizione con Cesare, atteso massime che
il Re stesso non vi si opponeva.[180]» Baldassarre moriva in Francia
pochi giorni dopo. Scrivevano lettere, secondo il pensare diverso
d’ognuno, molti Fiorentini che ivi risiedevano, e tra gli altri
Bartolommeo Cavalcanti, quel della Rettorica, che vi era mandato
dalla Signoria; promesse, dai più non credute, venivano dal cardinale
Giovanni Salviati, legato in Francia, dopo essere stato prima in Spagna
pel matrimonio di Carlo V, nel quale avea fatto, come allora dicevano,
le parole delle sponsalizie. Ma era in Firenze un solo pensiero, la
difesa: non pochi avrebbero di buon grado seguito consigli più quieti
e sicuri, ma di questi erano le volontà incerte, divisi i pareri; e
gli animi disgregati non si univano a comporre nemmeno una setta. Il
nuovo Gonfaloniere Francesco Carducci, portato dal popolo e uomo di
parte, amava il popolo e la libertà; come uomo nuovo, si comportava
modestamente coi cittadini di maggior grado, e nelle Pratiche gli
ascoltava, cercando però di farsi forte nei Collegi, nei quali
entravano per la sorte gli uomini più schietti e meno intendenti.
Molto si era fatto amico ai Piagnoni, ed a volontà di questi elesse
una seconda volta Cristo a Re di Firenze, con altre leggi intorno
al costume e alla civile onoratezza: sotto a quello strano nome di
Piagnoni si nascondevano allora gli uomini che riuscirono in arme più
prodi, nè il Carducci mancò al suo debito in quelli estremi.
Non era peranche sottoscritta ma era sicura, perchè oramai fatta
necessaria, la pace in Cambray tra Francia e Spagna, quando
l’imperatore Carlo V salpato dal porto di Barcellona sulle navi che
Andrea Doria gli aveva condotte, discese in Genova a’ 12 agosto:
lo accompagnava un’armata numerosa con nove mila fanti e mille
cavalli: di Puglia salivano altri soldati Spagnoli e quattro mila
venturieri Calabresi; alcune migliaia di Tedeschi venivano a rinforzo
dell’esercito Spagnolo ch’era in Lombardia. Scendeva in Italia non
contrastato arbitro e moderatore di nuove sorti: era l’Italia fino
allora stata fucina dove gli ingredienti della vita morale dei
popoli, prodotti o attratti in copia maggiore, facevano quasi una
continua combustione; ma in questa l’Italia si era consunta, e oggi
era espediente alle altre nazioni ch’ella si tacesse, che lasciasse
fare, che non turbasse e non attraversasse quel moto interiore per cui
ciascuno Stato compieva la sua speciale e propria formazione. L’Impero
non era più altro oramai che cosa tedesca; ma Carlo V era spagnolo
di genio, di educazione, di potenza e parte di sangue, fiammingo nel
resto; l’ultima parte della sua vita non fu che una lotta contro alla
Germania che lo respingeva. Discese in Italia dopo averla conquistata
come re spagnolo, nè avrebbe voluto mai farla essere parte dell’Impero;
col gius imperiale avrebbe l’Italia avuto una sorta d’unità servile;
divisa com’era, si prestava bene a una spagnola dominazione. Carlo
V, già signore in Napoli e nella Sicilia e nella Sardegna, aveva il
possesso di quella mezza parte d’Italia che per il sito e per le nature
dei popoli e per le comodità che dava l’accesso dal mare, la Spagna
poteva tenere più facile e meglio difendere. Aveva Milano in sua balìa
non per anco certa, ma sopra vi stavano i suoi soldati e le fortezze
e Antonio da Leyva, al quale avea dato Pavia in appannaggio. A lui
era Genova legata dai vincoli d’uno scambievole beneficio; Venezia
con la restituzione degli acquisti fatti oltre ai confini del Po,
abbandonava ogni altro pensiero il quale non fosse della sua propria
conservazione. Rimanevano due repubbliche popolari, Siena e Lucca:
la prima cadde, ma generosamente, più anni dopo; l’altra col dare al
popolo nome di Straccioni, rendeva legittimo un governo di Signori, che
a lei fu permesso. Il Papa ritenne, ma più soggetti e più sicuri gli
antichi suoi Stati, col restituire al Duca di Ferrara Modena e Reggio;
l’Imperatore pigliava in protezione quello d’Urbino, e il marchesato
di Mantova promosse a ducato. Faceva egli queste cose per trattati, o,
come arbitro, per sentenze o lodi, pubblicati mentre era in Italia o
poco più tardi. I Principi e i feudatari dell’Impero ed altri Signori
con le donne e le famiglie loro a lui accorrevano in Bologna, dov’era
col Papa: vi andò Carlo III duca di Savoia, ridotto allora in bassa
fortuna; ma quella Casa dipoi si apriva con le armi il cammino ad altra
grandezza. Tale assetto ebbe l’Italia in quell’anno, tale fu la sorte
nella quale scese; per ultimo rimaneva da eseguire la condanna che il
Papa e Cesare insieme avevano pronunziata contro alla Repubblica di
Firenze.
Qui tutti frattanto pareva cercassero di fare inganno a sè medesimi
col non credere agli accordi nè alla venuta di Carlo in Italia; poi
confidavano che dovesse questi andare a soccorrere Vienna dai Turchi, e
che allora il re Francesco, riavuti i figliuoli, cominciasse un’altra
guerra pel bene d’Italia. Ma sotto agli inganni facili della mente
stava un proposito, che si avvalorava molto in quei giorni anche dal
sapersi che il Papa era stato più volte in pericolo di vita per mali
di stomaco dai quali non s’era mai bene rimesso; e s’egli venisse a
morte, nessuno a Casa Medici più non baderebbe. Ma importava sempre
alla Repubblica di acconciarsi con l’Imperatore e averlo propizio
comunque volgessero i casi avvenire: per questi motivi fu nella Pratica
vinto di mandare a Genova quattro ambasciatori, e il Gonfaloniere fece
che nei Consigli fossero scelti a quell’uffizio anche uomini tenuti
amici a Clemente, Niccolò Capponi e Matteo Strozzi, a questi mettendo
a contrappeso due principali della contraria parte, Raffaello Girolami
e Tommaso Soderini: ai quattro vollero che si unisse Luigi Alamanni
come sotto ambasciatore. In Genova tosto si appresentarono al Doria,
che gli accolse dicendo: «Tardi veniste e in mala ora.» Nè avevano
mandato se non di prestare omaggio a Cesare e implorare il suo favore
per la conservazione dello Stato e della libertà loro. Del Papa non
fecero menzione alcuna in quel discorso solenne; al quale rispose Carlo
freddamente, che al Papa solo doveano rivolgersi quanto all’aggiustare
le loro faccende. Il Gran Cancelliere parlò dell’antico diritto
imperiale nella Toscana, come i curiali di Massimiliano venti anni
innanzi; ma ora più che il diritto, il fatto valeva. Nuove istruzioni
erano da chiedere, ma impossibile accordarsi tra gli Ambasciatori sul
modo e sulle cose da scrivere a Firenze; composero a grande stento
una lettera comune, intorno alla quale si disputò molto quando ella
fu giunta: se fuori una grande necessità stringeva, una contraria
premeva dentro sovra i consigli dei governanti. Sapevano bene essere
vano ogni temperamento, dacchè i Medici e la libertà più non potevano
stare insieme: qui era la somma di tutto il negozio; ed in quella
Commissione, senza nominare il Papa, erano parole contro a chi faceva
guerra a Firenze col solo fine di opprimere questa libertà stessa.
Non credo che molto queste parole commovessero Carlo V, che prima di
uscire di Spagna ebbe cura di mettere a morte gli ultimi difensori
di quegli antichi solenni diritti su’ quali aveva base il regno
dell’Aragona.[181]
Carlo dipoi si recò a Piacenza, per ivi dettare le condizioni sotto
alle quali si adattò a riporre lo Sforza in Milano; lo seguivano
gli Ambasciatori fiorentini, ma giunti alle porte di Piacenza, fu ad
essi vietato l’entrarvi: stavano appresso all’Imperatore come Legati
pontificii il decano del Sacro Collegio Alessandro Farnese che poi
fu Paolo III, e il giovane cardinale Ippolito de’ Medici.[182] A quel
rifiuto l’Ambasceria fiorentina si disciolse: Tommaso Soderini si recò
in Lucca, Matteo Strozzi andò in Venezia ai suoi Banchi; Raffaello
Girolami, uomo ambizioso di popolarità, venne solo in Firenze, dove
appena giunto e con gli stivali in piede andò in Palazzo a dire
novelle che più accendessero le speranze. Niccolò Capponi scriveva in
contrario lettere e consigli appassionati perchè s’accordassero; venne
fino a Castelnuovo di Garfagnana, dove s’incontrava con Michelangiolo
Buonarroti, che tristo e temendo il peggio si era partito da Firenze.
Ma Niccolò, trattenuto in quel luogo stesso da febbre, moriva dopo
alcuni giorni; e le ultime sue parole furono: «Dove abbiamo noi
condotto questa misera patria?[183]»


CAPITOLO IX.
APPARECCHI DI GUERRA E NEGOZIATI. — STATO DELLA CITTÀ. PRIMI SEI MESI
DELL’ASSEDIO. [AN. 1529-1530.]

Tanto era l’Imperatore frettoloso di compiacere a papa Clemente,
che appena fermato in Barcellona l’accordo aveva dato commissione
al Principe d’Orange, vicerè in Napoli, di mettere insieme le genti
e condurle dovunque il Pontefice imposto gli avesse. Le quali nel
mentre che si congregavano, giungeva l’Orange il giorno ultimo del
luglio in Roma con cento cavalli e forse mille archibusieri per
conferire col Papa; nè senza difficoltà essendo convenuti, il Vicerè
ai 19 d’agosto era in Terni, dove l’esercito si doveva raccogliere.
«In questo tempo non si vedeva altro per Roma che spennacchi, altro
non si sentiva che tamburi;» ed erano tanto grandi la cupidigia e
la certezza di saccheggiare Firenze, e massime negli Spagnoli, che
vi ebbero di quelli i quali, dubitando non giungere in tempo, a chi
gli aveva trattenuti protestarono danni e interessi sopra il sacco
di Firenze. Si fece la massa tra Fuligno e Spello nei confini di
Perugia: i Tedeschi non arrivavano a tremila cinquecento, ma tutti
erano di quelli i quali condotti in Italia da Giorgio Frundsberg, erano
alla peste di Roma e alla fame di Napoli avanzati, e per conseguenza
veterani e valentissimi. Cinque mila erano gli Spagnoli rimasti in
Puglia un poco indietro col loro capitano marchese Alfonso del Vasto:
più tardi Ferrante Gonzaga, giovane ancora, conduceva trecento uomini
d’arme e ottocento cavalli leggieri; più tardi ancora, di Lombardia
scesero quei famosi Bisogni Spagnoli, terribile nome di gente lacera
e affamata. Man mano arrivavano con le genti loro i colonnelli; Pier
Luigi Farnese, che fu il primo a comparire, quattro dei Colonnesi, un
Savelli, uno dei Rossi conti di San Secondo, e Alessandro Vitelli che
menò tremila buonissimi fanti. Altri raggiunsero l’esercito presso a
Firenze, altri più tardi. Giovanni da Sassatello scese da Bologna con
tremila soldati; Ramazzotto, gran capo di Parte in quelle montagne,
avendo occupate Firenzuola e Scarperia, di là predava tutto il Mugello
ed impediva le vettovaglie; Fabrizio Maramaldo, con forse tremila
de’ suoi Calabresi non pagati e nemmeno essendo condotto, come altri
che non tiravano soldo, se ne andò a predare prima in sul Senese e
poi in quel di Volterra, senza consentimento del Papa. Nel forte di
quella guerra si può dire che sotto alla città di Firenze e nel suo
dominio si trovassero più di quaranta mila uomini da guerra, senza i
venturieri che disordinati seguitavano il campo in un gran numero sulla
speranza del saccheggio e delle prede. Con tale apparecchio Clemente
da principio si era fatto a credere che l’impresa di Firenze gli
riuscirebbe agevole cosa; tanto che avendogli Carlo profferto di fare
sbarcare alla Spezia un certo numero di soldati, non volle, perchè non
gli parevano necessari, e perchè fosse almeno salvata dal guasto quella
bella parte di Toscana.[184]
Contro alla piena di tanti nemici, quali apparecchi si facessero dai
Fiorentini diremo tra poco. Sapevano bene di essere derelitti dai
Veneziani e dal Duca di Ferrara, ultimi avanzi di quella Lega la quale
non era più che un nome vano. Avevano sulla fine del precedente anno
fatto Capitano generale di tutte le genti loro Ercole da Este, figlio
primogenito del duca Alfonso, con patti gravosi ma effetto nessuno;
finchè alla venuta di Carlo in Italia, il Duca cercando propiziarselo,
disdisse ai Fiorentini la condotta del figlio, e indi si pose coi loro
nemici. Pei Veneziani stava in Firenze un ambasciatore, che era in quel
tempo Carlo Capello, dalle cui lettere si apprende come fino dal mese
di giugno nè i Fiorentini mai cessassero dal chiedere aiuti secondo i
patti, nè i Veneziani dal rispondere che avevano troppo da fare e da
spendere in Lombardia; ivi erano i confini ch’essi volevano mantenere,
il Senato avendo fermato nell’animo già l’abbandono di ogni possesso
nel resto d’Italia. Più volte da Firenze avevano chiesto facesse almeno
la Signoria di Venezia muovere i soldati, i quali stavano in Ravenna
e in Cervia, e altri in Urbino: questo consigliava lo stesso Capello,
mettendo innanzi che se i Fiorentini per disperazione cedessero,
non sarebbe ai Veneziani buona cosa rimanere soli e ultimi quando
convenisse loro di fare la pace.[185] Ma intorno a ciò nulla rispondeva
quella Signoria, tenendo il cuore già occupato da un solo pensiero,
salvare sè stessa; che pure all’Italia fu gran benefizio.
Come principio della guerra, Clemente ordinò al Principe d’Orange
di farsi innanzi contro a Perugia. Teneva quello Stato come signore
Malatesta Baglioni, capitano di qualche nome, venuto ai soldi della
Repubblica fiorentina, com’era stato il fratello Orazio; entrambo figli
di Gian Paolo, fatto morire da Leone X. Fu qualche disputa in Firenze
circa al soccorrere Malatesta, il ch’era un mettersi apertamente in
guerra col Papa: ma vinse il consiglio ch’era più animoso, e tosto
mandarono tre mila buoni fanti a difesa di quella città. L’Orange
aveva, dopo a una molto viva battaglia, già occupata Spello, ed era
fin sotto alle porte di Perugia, quando Malatesta dopo lunghe pratiche,
nè senza il consentimento dei Fiorentini, venne seco agli accordi. Le
condizioni furono, che Malatesta dovesse lasciare Perugia libera ai
ministri del Papa, uscendone egli con le genti pagate dai Fiorentini,
e ritenendo tutte le possessioni sue e le castella che aveva nello
Stato, senza che vi entrassero altri dei Baglioni, i quali erano suoi
nemici. Queste allora parvero condizioni eque anche a Firenze; dove
sebbene fosse grande il desiderio di tenere la guerra lontana, pareva
non essere consiglio prudente lasciare esposto un tal numero delle
loro genti alle armi nemiche, non che alla fede sempre dubbia di un
condottiero. Quanto a Malatesta, è verisimile che, oltre all’avere
egli tutta la casa e la roba sua come pegno in mano del Papa, sperasse
meglio da un accordo che dalla sorte delle armi per sè e per la stessa
città di Firenze. Aveva seco in questa opinione allora i politici tutti
d’Italia: ai Fiorentini era trista sorte fidare sè stessi in mano d’un
uomo a cui non bastava la morte del padre perch’egli potesse mai tutto
essere cosa loro.[186]
Usciti di Perugia i soldati fiorentini, vennero fino ad Arezzo per la
via de’ monti, sicura da ogni assalto nemico. L’Orange entrato ai 14
settembre nello Stato della Repubblica, pose il campo sotto a Cortona,
dentro alla quale essendo alcuni buoni capitani con le loro bande,
convenne ai nemici andare all’assalto scalando le mura, che tutto
quel giorno fecero gagliarda difesa con la morte di non pochi soldati
di conto; guidava l’assalto il Marchese del Vasto, che vi ebbe una
leggera ferita. Ma il giorno dopo i terrazzani, temendo il saccheggio,
vennero a patti, e con lo sborso di ventimila ducati aprirono le porte,
lasciatine uscire liberi i soldati. Proseguì l’Orange più innanzi;
e perchè Castiglione Aretino, o Fiorentino che lo chiamassero, avea
fatto qualche cenno di difendersi, vi entrò a forza; e la terra fu
saccheggiata, e molti uomini e donne fatti prigioni. In Arezzo era
commissario Anton Francesco degli Albizzi, uomo di vario ingegno,
il quale al primo accostarsi dei nemici d’accordo col Malatesta, e
come alcuni dissero col Carducci, lasciata con pochi armati la rôcca,
abbandonò Arezzo, condottosi fino a Montevarchi. Era pensiero del
Gonfaloniere, che Arezzo male potesse tenersi, massime con quelli
ardenti spiriti degli abitanti, e che più savio consiglio fosse
difendere il cuore (come dicevano), riducendo tutte le forze intorno
alla città di Firenze. Il che si vidde anche alla prova, gli Aretini
avendo accolto i nemici, dai quali con vana gioia si credevano avere
licenza di governarsi da sè stessi. Intanto si erano i nostri ritirati
sino a Figline; di dove, parendo ai Capitani di avere mal fatto,
rimandarono verso Arezzo, con Francesco dei marchesi del Monte, mille
soldati; i quali trovando la città perduta, tornarono indietro, quando
già gli altri alla sfilata, e facendo guasti per tutta la via, si
continuavano a ritirare fin sopra a Firenze: cosicchè l’Orange, venuto
innanzi, poneva egli stesso il campo in Figline ai 27 di settembre.
Si fece intanto padrone del Casentino, dove quei di Bibbiena cedevano
tosto al nome dei Medici; e Poppi si arrese dopo avere sostenuto non
piccola guerra, patteggiando che uscissero libere le genti che vi erano
della Repubblica.[187]
In Firenze da principio le lettere degli Ambasciatori a Carlo V e
la guerra immediatamente mossa, avevano prodotto grande travaglio e
confusione; in mezzo alla quale si fece una Pratica di settantadue
cittadini scelti d’ogni colore, dove erano dei più noti amici
dei Medici e molti prudenti consigliatori delle vie di mezzo, per
deliberare se quelli Ambasciatori dovessero avere mandato libero. Dopo
molto disputare, la Signoria fece andare il partito, il quale fu vinto
con tutte le fave nere, eccetto quattro. Di questa risoluzione volle
farsi un qualche mistero, ma trapelò in Piazza; onde quei che uscivano
dalla Pratica ebbero a patire ingiurie e minaccie da uomini armati: fu
tutto quel giorno un andare e venire di cittadini in Palazzo e intorno
alla Signoria. Infine il Gonfaloniere licenziò tutti, e dietro al
mandato andarono le commissioni, dove era spiegato che la libertà si
mantenesse ad ogni modo. Tuttociò rimase inutile dopochè l’Ambascerìa
si era disciolta.[188]
Ma poichè Cesare aveva espressamente ingiunto rivolgersi al Papa,
nominarono quattro Ambasciatori i quali andassero a Roma; e perchè
taluni dei nominati rifiutarono, e molte difficoltà nacquero prima di
allestire le commissioni, mandarono in poste il solo Pier Francesco
Portinari che era stato per la Lega ambasciatore in Inghilterra, ed
ora aveva incarico di fare istanze presso al Pontefice perchè intanto
fermasse l’esercito. Andò il Portinari, e subito ammesso, fece la
commissione; a cui rispose Clemente: «Avere grandissimo dispiacere
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