Storia della Repubblica di Firenze v. 3/3 - 15

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e dell’arte, superbo non era: abbiamo di quel tempo le lettere di
Michelangelo alla sua famiglia, soccorsa da lui e quasi governata con
cure paterne; ma per la modesta gravità delle sue parole non si direbbe
fosse egli nè tanto giovane nè tanto grande: una volta che un suo
fratello aveva voglia di andare a Bologna, scrisse non lo lasciassero
andare perchè (aggiungeva) «Son qua in una cattiva stanza e ho
comperato un letto solo nel quale stiamo quattro persone, e non arei il
modo raccettarlo come si richiede.» In Roma gli Artisti grandi vivevano
lautamente: Raffaello aveva ornata una sua casa, usciva con grande
accompagnamento, e per poco non fu cardinale. Michelangelo ebbe altre
glorie, nè fu chi ne avesse al pari di lui: era invalso chiamarlo il
divino; due suoi discepoli ne scrissero e pubblicarono la vita mentre
era ancor vivo: i Principi stessi a lui facevano di berretta.
Molto aveva guadagnato, ma non mutò quella sua semplice vita: aveva
ottant’anni quando gli moriva un suo carissimo servitore chiamato
l’Urbino, e scrisse di quella morte al Vasari con sì profonda verità
d’affetto, che non può egli tanto essere ammirato da noi per l’ingegno
che più non sia amato per quelle parole: respira in esse quell’alto
sentire in fatto di religione, che fu tanta parte della sua natura di
uomo e di artista. Il secolo declinava, e il sommo ideale già si era
abbassato per due contrari versi nel mondo diviso. Pare a me che il
Buonarroti rimanesse ultimo nell’antica altezza; non si abbassò mai
fino alla critica che tutto distrugge, nè avrebbe sofferto sentirsi
nell’animo turbata la fede. Non rinnegava però l’umanità, ma suo studio
era torne via il troppo (ha questa imagine nelle sue rime), come faceva
del rozzo marmo perchè di dentro a quello uscisse una divina figura.
In questi pensieri gli era compagna Vittoria Colonna, che amò avendo
egli settant’anni e fu amato condegnamente da lei, bella, illustre,
onorata sopra quante donne allora fossero in Italia. Nè per essere ella
figlia di Fabbrizio Colonna e stata moglie del Marchese di Pescara,
cadde a lui nella mente di essere egli a lei disuguale. Diresse a lei
molte delle sue rime, e sono quelle dove più forte spira quel senso di
religione a cui diceva di sentirsi da lei innalzare: potevano questo in
essa l’ingegno, gli studi, le poesie e le opere virtuose. I loro due
nomi rimasero segno a gran riverenza in mezzo ad un secolo nel quale
erano come soli; ma se molti avessero seguito quelle orme, nè il misero
sbrano sarebbe avvenuto, e meglio sarebbe stato all’Italia e a tutto il
mondo.
Si narra che Michelangelo, al vedere la corniola che ha incisa
l’effigie del Savonarola, dicesse che l’Arte avendo toccato il colmo
doveva necessariamente declinare. Da Giotto insino a Raffaello era
stato un progredire, dove si direbbe che l’arte mettesse appena piede
innanzi piede, perchè ad ogni passo era una fermata, e copia d’ingegni
avevano occupato ciascuno dei gradi. Compieronsi i tempi, e il Sanzio
venne a porsi in sulla cima portato da quelli che lo precederono; ed
egli avendo così acquistata pienissima scienza di tutte le parti onde
si compone la pittura, in sè le congiunse con armonia maravigliosa. Per
questo nelle opere di lui si può dire perfetta ogni cosa, perchè ogni
cosa risponde in esse a quello che forma il fine dell’arte, ritrarre
l’ideale dalla bellezza del vero. Cotesto ideale temprato e diffuso per
tutto il dipinto riesce, egli è vero, a farsi quasi una negazione del
sublime ch’è sopra ogni legge e che non può fare a meno di avere in
sè qualche sorta di disarmonia; ma io non vorrei che fosse Raffaello
uscito da quella pacata e sempre uguale perfezione ch’è tutta sua
propria. Alquanto più vecchio degli altri due sommi, Leonardo da Vinci
cominciò pittore; ma poi trasportato dal genio suo speculativo, cercò
il sublime per via di assidue meditazioni dell’intelletto e fece l’arte
essere una forma della scienza. Poneva uno studio insaziabile in ogni
parte di quello che avesse in mente di fare, dal volto del Cristo fino
alla vernice dei suoi quadri, talchè distendendosi per tutta l’ampiezza
del sapere, lasciò poche opere, che pure a lui valsero altissimo luogo.
Nel Buonarroti insieme con l’idea nasceva intera la forma, nè in ciò
altri credo che lo arrivasse: di lui non abbiamo bozzetti nè studi
pe’ quali salisse gradatamente alla espressione del suo concetto; e
molte statue si direbbe lasciasse imperfette perchè alla vita di quegli
abbozzi null’altro credesse potere aggiungere con la finitezza. Nelle
prime opere di scultura si attenne al semplice dell’antica scuola,
mostrando appagarsi di quello ch’è umano; e questa io credo che fosse
in lui timidità giovanile. Ma nella figura tranquilla del David giunse
al perfetto, e in quella e nel Bacco di Galleria vedi le membra in sè
avere la necessità del moto, com’è nella vita. Michelangelo non fece
mai professione che di scultore, tenendo quest’arte da più delle altre:
chiamato da Papa Giulio a dipingere la grande volta della Cappella
Sistina, ignorava le pratiche dell’affresco; ma tosto pervenne a fare
l’opera più difficoltosa e la maggiore che abbiano vista i moderni
secoli, e che gli antichi nemmeno avrebbero potuta sognare. Per lui
dal perfetto si andò al sublime: dipinse le opere della Creazione, e il
genio biblico mai non ebbe più alta espressione. Dio che scorrendo pei
cieli divide la luce dalle tenebre, poi col tocco del dito suo infonde
la vita nell’uomo che sorge: poi quelle severe figure dei Profeti in
ampie vesti, dentro alle quali si vede la travatura di membra potenti:
tutto questo insieme di alti concetti fatti palesi con la magnificenza
di forme solenni, destava nel mondo nuova maraviglia. Non che altri
Raffaello, allora sul colmo della gloria e della fama, si diede a
seguire le orme del Buonarroti; e da quel giorno la pittura mutò le sue
vie.
Avea Michelangelo trasceso il bello ed era andato più in là del
perfetto, il che non può l’arte fare impunemente; quanto a sè aveva
toccato il suo colmo. Le Sepolture in San Lorenzo dei congiunti di
Leone X, perchè non traevano maestà dal subietto, non mostrano a noi
che statue bellissime, nè altro egli voleva. Le figure di quei due
giovani trattò in modo affatto generico, e forse con qualche segreto
dispetto pose quattro nudi di non ben chiara significanza a stare a
disagio sulle due grandi arche. Ma chiunque voglia da un marmo solo
conoscere quale fosse il Buonarroti, guardi più volte il suo Mosè,
poi vi pensi sopra, poi si dia ragione di quel che ha pensato. Non
vi ha opera d’arte che presti alla critica più facile appiglio, nè
altra ve n’è che ti lasci sì forte impressione: quel braccio dentro
a cui tu vedi correre tanta e tale vita, quelle ginocchia potenti a
salire il monte del Sinai ed a scenderne gravate di quelle tavole che
saranno sempre divina legge alla umanità; quella lunga e strana barba,
capriccio d’un genio fuor di ogni misura; quella faccia istessa dove
all’uomo si aggiunge la vigoria d’un leone, ma dentro alla quale siede
un pensiero più che umano; queste cose il Buonarroti avea trovate fuori
dei confini che sogliono essere quei dell’arte. A lui non bastava quel
che l’uomo vede, ma fuor ne traeva un’altra imagine con la mente, che
aveva in sè stessa la verità sua; nè la figura del suo Mosè avrebbe
cercata tra gli uomini. Dove anche si fosse dentro ai confini naturali,
faceva lo stesso; nè credo che mai potesse un ritratto copiare dal
vivo.
Già vecchio dipinse il Giudizio Universale nella parete della sua
stessa Cappella Sistina, ch’è sopra all’altare; opera fra tutte
vastissima per le innumerabili figure che vanno dal cielo fino
all’inferno, ciascuna facendo parte d’un insieme e poste dentro a
quello stesso ambito di luce per cui tutto il quadro si abbraccia in
una veduta: nè Michelangelo fu mai tanto mirabile per la scienza dei
nudi e per la novità e per l’ardire delle invenzioni. Volentieri egli
dal sublime andava al terribile; i tempi nell’animo gli ponevano una
tristezza da lui medesimo espressa più volte. In quella grandissima
composizione, piuttostochè il giudizio della umanità risorta al bene
ed al male, fece la condanna dei reprobi: in cima il Giudice irato
e la Vergine spaurita, e gli Angeli con le loro terribili trombe, e
pochi Santi: poi sotto subito il precipizio dei malvagi, e più sotto i
loro tormenti già in esercizio, come nell’Inferno di Dante, dal quale
gli piacque di trarre perfino Caronte con la sua barca; nè a lui fu
vietato. Quest’opera, in mezzo a tante bellezze, mostrò che l’arte
aveva passata la sua perfezione; l’aveva passata, ma pure spiegando
potenza insolita fino allora. Quindi è che l’impronta lasciata da lui
riuscì troppo forte; ma io per me credo giovasse alle arti infondere
nella scuola dei quattrocentisti un nuovo fermento; e bene sarebbe
stato alle lettere, se ad esse pure lo stesso avveniva.
Come architetto il Buonarroti fece i disegni di molti edifizi, fu
consultato per grandissimi lavori, diresse le fortificazioni della
città di Firenze. Nell’arte del costruire valentissimo sopra tutti,
seguiva il suo genio quanto alle forme ed agli ornamenti, d’esempi
classici si curava poco. Andava il pensiero suo alle opere smisurate:
nelle dimore che fece in Carrara ed in Serravezza per attendere alla
cava dei marmi, aveva immaginato di tagliare uno di quei monti con un
suo disegno, per cui a guardarlo di lontano dal mare offrisse figura
di un grandissimo Gigante accovacciato in quelle sommità. Nei venti
estremi anni della sua vita fece la Cupola di San Pietro. Non che però
si conducesse egli ad alzarla su quel fondamento che egli medesimo le
aveva posto a tanto nuova e maravigliosa altezza; ma tutta l’opera del
voltarla e del munirla fu condotta sopra i suoi modelli e con le misure
da lui lasciate. Chi stando in terra nel centro del grande spazio, alzi
su gli occhi girandoli per tutta la Cupola all’intorno, poi giunga a
fermarli nel sommo punto dov’ella si chiude, crede il pensiero avere
cedute le sue ragioni alla fantasia o crede esser egli nell’infinito.
Quella Cupola fortunatamente rimase all’interno sobria d’ornamenti,
e non perdè la sua grandiosità sublime. Volea il Buonarroti che tutta
la Chiesa fosse a croce greca, chiudendo le tre grandi navate con una
quarta d’eguale misura. Quella più lunga che venne fabbricata dopo alla
sua morte, disturba non che l’economia di tutta la pianta, l’effetto
ancora per cui la chiesa, com’è ingombrata di ornamenti costosi e
importuni, appare d’assai minore grandezza pei molti inciampi e per
gli inganni che incontra la vista. Se il primo disegno fosse stato
mantenuto e che il nobile e grandioso vestibulo avesse introdotto a
quella bene ragionata e sopra tutte magnifica base che il Buonarroti
voleva dare alla sua Cupola, la chiesa accorciata sarebbe agli occhi
apparsa più grande; e il pensiero religioso di tutto il tempio, che
oggi ha perduto l’unità sua ed è interrotto da tanto incongrua varietà
d’oggetti, sarebbe asceso riposatamente verso il cielo. Michelangelo
Buonarroti moriva di presso che novant’anni a’ 18 febbraio del 1564;
nel giorno medesimo (come ora è accertato) nacque Galileo.

Alla fine del Libro Nono dell’Istoria di Benedetto Varchi è una
descrizione della città e stato di Firenze, la quale si rannesta in
qualche modo all’altra che aveva scritta della città stessa Giovanni
Villani due secoli prima. A tutti è ovvio quanta incertezza regni nelle
descrizioni o statistiche di tal sorta, ai tempi antichi per saperne
poco e ai nostri per volerne sapere troppo. Sembra però a me che la
statistica del Villani abbia maggior chiarezza e precisione, quanto ai
fatti, di quella del Varchi. Noi trascrivemmo più ampiamente quella,
ed ora di questa poco trarremo e sparsamente, pigliando le cose che
sembrano a noi più certe e più chiare. Sulle origini di Firenze molto
si distende quel dotto uomo che fu il Varchi, nè senza un qualche acume
di critica; vorremmo che egli avesse speso più tempo a cercare le cose
quali erano in quelli estremi della Repubblica. Non possiamo a buon
conto accettare i calcoli suoi quanto alla popolazione della città;
ma perchè scrive più sotto, che «circa due mila settecento erano i
battezzati annualmente in San Giovanni,» possiamo noi così all’ingrosso
opinare che circa novantamila fossero gli abitatori di Firenze, non
contando i forestieri, nè quella crescita che veniva dal molto numero
dei religiosi pei quali si altera la proporzione dei vivi sul numero
dei nati. Più di cento erano tra conventi di frati e monache e chiese
collegiate; di sole donne quarantanove monasteri; settantacinque le
confraternite di varie sorte, dalle più ricche e più fastose fino alle
più chiuse e più devote che attendevano a pietà rigida o ad uffici di
carità. L’antico e celebre Spedale di Santa Maria Nuova era opinione
ai tempi del Varchi che avrebbe posseduto, pei molti lasciti che in
diversi tempi gli erano stati fatti, la maggior parte delle possessioni
della città, se per varie cause molte non ne fossero state alienate.
Spendeva ogni anno per la cura degli infermi venticinque mila scudi,
dei quali traeva diciottomila dalle possessioni e il rimanente da
limosine; più altri Spedali erano in Firenze, molti nel contado. Lo
Spedale degli esposti, detto degli Innocenti, spendeva ogni anno undici
mila scudi, che settemila cinquecento da beni stabili, e ogni di più
dal pubblico in limosine.
Oltre ai pubblici edifizi, erano un centinaio di case private che
avevano nome di palazzi; delle quali trenta, scrisse un contemporaneo
essere state edificate tra ’l mille quattrocento cinquanta e il
settantotto; molte più belle e di più ornata architettura avea Firenze
vedute sorgere in quei tempi splendidi, che furono dalla creazione di
Leone X fino all’Assedio. Era magnificenza delle più antiche famiglie
avere presso alle case loro una loggia ad uso pubblico: se ne vede
tuttora qualcuna, e ai tempi del Varchi n’erano aperte più che una
ventina. Le antiche torri, forza e superbia della città, scapezzate
per la maggior parte, di rado si alzavano più in su del pari delle case
che appartengono al primo cerchio: grande era il numero e la estensione
dentro alle mura di orti e giardini, sia di privati sia di religiosi.
Ma poichè le arti ebbero sparsa in questo popolo la ricchezza,
chiunque poteva ebbe desiderio di farsi una villa; talchè all’intorno
dei castelli disarmati si fabbricarono le casette pacifiche, dove il
lanaiolo ed il setaiolo amavano lietamente riposarsi con le famiglie
loro; si adornavano ciascuna secondo le facoltà, improntandosi di
quel bello che vi mettevano i grandi artisti. Scrivono esserne state
ottocento dentro le venti miglia, murate di pietra e di scalpello, cui
davano nome di palazzi: presso a Firenze erano frequenti così, che alla
vista la città si prolungava lungo spazio fuori delle mura; e l’Ariosto
scriveva in sua lode:
«Se dentro un mur, sotto un medesmo nome
Fosser raccolti i tuoi palazzi sparsi,
Non ti sarian da pareggiar due Rome.»
Il piccolo Stato aveva oltre a cinque città, Pisa, Volterra, Pistoia,
Arezzo, Cortona; quattrocento terre murate, le quali si serravano ogni
sera e si riaprivano la mattina: le terre che in segno di tributo la
mattina di San Giovanni offrivano ciascuna un palio, erano cento;
e circa trenta Comunità offrivano un cero ciascuna. La Repubblica
mandava col nome generico di Rettori a governare le varie parti
dello Stato diciassette Capitani, dodici Vicari, ed altri minori
col nome di Potestà, oltre ai Castellani delle Fortezze, Consoli
di mare a Pisa e camarlinghi e provveditori e doganieri. Dicevano
essere d’intorno a ottomila gli uomini chiamati alla milizia delle
Ordinanze col nome di volontari. Il Varchi scrive, che le entrate
della Repubblica non passavano quei medesimi trecentomila fiorini
d’oro che erano ai tempi di Giovanni Villani: registra come titoli di
maggior conto, dalla gabella delle porte, settantatremila; dalla dogana
di Firenze, settantamila; dal camarlingo del sale, vino e macello,
cinquantatremila; dalle decime ordinarie e straordinarie e arbitri
della città, cinquantamila; dalla gabella dei contratti, dodicimila
novecento trentanove; dalle gravezze del Contado, quattordicimila;
dalle città, castella e comunanze tassate, dodicimila; dal camarlingo
d’Arezzo, quattromila; dall’accatto de’ contadini e non sopportanti,
duemila trecento trentotto; dalle gravezze de’ sobborghi, quattrocento
cinquanta; con altre minori fino agli avanzi dei pegni venduti al
giudeo. Maggiori d’assai erano in ogni tempo le entrate straordinarie
di balzelli ed accatti posti ai cittadini: dal 1377 al 1406 le sole
guerre costarono undici milioni e cinquecentomila fiorini d’oro:
nei primi venti anni della dominazione repubblicana di Casa Medici,
settantasette case di Firenze pagarono di straordinari imposti ad
arbitrio quattro milioni e ottocentomila fiorini, che sono in detto
tempo più che cento some d’oro. Lo stato popolare dal 1527 al 30 cavò
di straordinari in tre anni un milione e quattrocento diciannovemila
cinquecento fiorini d’oro. Questi erano debiti scritti sul Monte, a
cui pagava la Repubblica innanzi quel tempo, per interessi e paghe
d’ogni sorta, novantaquattro mila fiorini all’anno; e sedicimila per
terzi delle doti delle fanciulle che hanno la dote sul Monte e si
maritano. Ricchezze erano principali alla città le arti della Seta e
della Lana, la quale sola «lavorava ogni anno da venti a ventitremila
pezze di panni, come si può vedere dai libri dell’Arte, dove dette
pezze si marchiano giornalmente tutte quante.» Correvano molte sorte di
moneta, delle quali era il Fiorino la più antica e principale, e monete
forestiere d’oro e d’argento, il maggior numero francesi.
Nel vitto erano i Fiorentini tenuti frugali, ma di grande pulitezza;
si nominavano poche case che fossero use a mettere tavola ed a
vivere splendidamente. I cittadini si appellavano col proprio nome
o col soprannome, questi essendo qui frequentissimi; ciascuno dava
all’altro del tu, fuorchè ai dottori, ai cavalieri ed ai canonici, i
quali avevano del messere; e i frati, del padre. Quanto al vestire,
il cappuccio repubblicano, con quella striscia lunga che si avvolgeva
intorno al collo, non era per anche affatto dismesso; non si cavava
che al Gonfaloniere di giustizia o a grandi prelati: ma sottentravano
altre nuove foggie, ciascuno cercando mostrarsi gentile quanto era più
fiacco; le avevano recate le Corti che si erano in Firenze succedute
dal dodici in poi, e massime quella del Cardinale di Cortona. Ma
nondimeno sempre le usanze ritennero qui assai più che altrove del
mercatantesco, del che i Fiorentini venivano proverbiati da quanti in
Italia più avessero accolto i nuovi costumi.


CAPITOLO VIII.
CACCIATA DEI MEDICI E GOVERNO POPOLARE. — CARLO V IN ITALIA E SUO
ACCORDO COL PAPA. [AN. 1527-1529.]

L’avere Clemente perduto da papa quella fiducia di sè stesso e fuori
quel credito che prima godeva, ebbe il suo effetto anche in Firenze,
dov’era incerto e sempre mal fermo lo stato degli animi. Qui tutti
sentivano l’amore di libertà; ma nè il popolo si dimenticava d’avere
goduto più grasso vivere e più lieto all’ombra dei Medici, nè i
cittadini più eminenti di essere stati depressi ogni volta che il
popolo governasse. Tra questi ve n’era dei più affezionati o più
servili, i quali amavano, o ai quali era necessario lo stato dei
Medici; agli altri bastava di comandare essi co’ Medici, o senza,
secondo avvenisse. A questi il Papa non avea saputo nè ispirare fede
nè farli contenti di quello splendore che ad essi veniva da Roma; ivi
era un tristo vivere pei Fiorentini, odiati come inventori di balzelli
e maestri del farvi guadagno. In Firenze avevano sopra il capo il duro
governo di un Cardinale da Cortona, chiamandosi offesi che il Papa
mettesse tutta la sua fiducia in uomini delle città suddite, dai quali
sapeva di avere più cieca ubbidienza, e che si lascerebbero gravare
dell’odio pubblico. Io per me tengo ancora per fermo, che brutta cosa
paresse a molti l’avere a servire a quei due bastardi tirati su a
forza quando altri non v’era, e perchè Firenze a ogni modo avesse un
padrone. Del che si adontava molto la superbia di Filippo Strozzi e
della moglie Clarice, nei quali fiorenti di bella e maschia famiglia
più degnamente potea rivivere la Casa dei Medici. Nel modo stesso anche
i Salviati, per tenersi in alto, si erano sempre mostrati avversi al
principato; essi e i Ridolfi, altri cugini di Leone, sebbene ciascuno
di loro avesse un Cardinale, volevano pure una repubblica in Firenze,
massimamente da che un giovane Ridolfi si fu agli Strozzi unito per
parentado. Francesco Vettori, nel vario suo ingegno, voleva lo stesso.
Luigi fratello di Francesco Guicciardini, ma uomo dappoco, stava con
gli altri sopraddetti, che insieme formavano una molto vasta parentela.
Ad essi per grado e per età soprastava Niccolò Capponi cognato a
Filippo, nella città onorato per la memoria di Piero suo padre e per la
parte che egli stesso ebbe nei maggiori fatti della Repubblica; uomo
di onesta e decorosa vita, molto facoltoso e buon massaio, nel quale
ognuno poneva fiducia che volesse il bene della città e fosse disposto
a promuoverlo con temperanza. Non era egli stato da principio avverso
ai Medici, ma gradatamente venne a dichiararsi contro a loro, ed era
da ultimo tenuto il capo di quella fazione molto autorevole di Ottimati
che li combatteva.[157]
Nel popolo aveva il nome dei Medici perduto favore pei modi spiacevoli
e il genio avaro del Cardinale Passerini, costretto servire alle
necessità ognora crescenti dell’erario di Papa Clemente e ai gravi
carichi delle guerre. In nove mesi avea Firenze dovuto pagare per via
d’accatti straordinari dugento venti mila fiorini d’oro;[158] del che
si faceva un grande sparlare, la gioventù essendo in ciò divenuta molto
licenziosa. Dipoi sopravvenne con la morte di Giovanni de’ Medici il
terrore dei Lanzichenecchi, pel quale i giovani cominciarono a chiedere
le armi, covando in quella domanda un disegno sotto alla condotta
di quegli uomini principali che a ciò gli spingevano. Ma tosto dipoi
avendo il Borbone pigliato altra via, cessò per un qualche tempo la
paura e il chiedere le armi. Nel mese d’aprile, come si è narrato,
entrava in Toscana tutto l’esercito del Borbone dal lato d’Arezzo; e
vi era sceso quello della Lega col luogotenente Guicciardini per la
via più breve della Romagna; talchè il Borbone, che già si era spinto
fin oltre a Montevarchi, tornava indietro. Firenze per quella mossa fu
salvata dal sacco; ma i nemici devastavano il Val d’Arno, gli amici
il Mugello: nella città era scompiglio, chiedevano i giovani le armi
tumultuosamente pel vicino pericolo. Aveva il Papa mandato da Roma i
due suoi cugini Cardinali Ridolfi e Cibo a rinfiancare il Passerini,
ma fu senza frutto; e già nelle Pratiche il Capponi e gli altri avversi
al governo più si venivano a scuoprire: intanto l’esercito del Papa si
avvicinava alle porte di Firenze.[159]
Era il giorno 26 aprile quando i tre Cardinali e il giovinetto Ippolito
e il conte Noferi da Montedoglio che aveva la guardia del Palazzo,
uscirono incontro al Duca d’Urbino ed agli altri Capitani. Quale
disegno avessero non si vede, ma per Firenze si cominciò a dire che
i Medici abbandonavano la città; e fu da per tutto un radunarsi di
giovani armati che si avviavano al Palazzo. Qui andavano intanto uomini
di tutti i gradi, e primi coloro che sopra dicemmo, a consultare, a
provvedere, a osservare quello che il caso portasse. Era Gonfaloniere
Luigi Guicciardini, che disceso giù alla porta del Palazzo e avute
parole oneste dai primi che erano accorsi, disse volere egli pure
quel ch’essi volevano. Dentro cresceva il vario tumultuare, molti si
offrivano alla Signoria, temevano i più savi quel moto incomposto;
avrebbono accolto volentieri una qualche sorta di compromesso, che non
ebbe però mai una proposta formale. E intanto i più ardenti stavano
intorno alla Signoria: Iacopo Alamanni, giovane feroce, andò contro
alla persona dello stesso Gonfaloniere, e feriva uno dei Priori tenuto
aderente ai Medici: il bando di questa famiglia fu messo ai voti e
decretato. In quel mentre i Cardinali e gli altri usciti tornavano
indietro e con essi veniva l’esercito: avevano quelli di dentro mandato
a chiudere le porte, ma l’ordine non fu eseguito, e i Capitani entrati
nella città, sfilavano i soldati che erano innanzi, verso la Piazza,
della quale occuparono gli sbocchi; e intanto quelli di dentro al
Palagio facevano mostra di volerlo difendere; armi non mancavano.
Iacopo Nardi, che era stato chiamato come uno dei Gonfalonieri di
Compagnia, del pari onesto che animoso, mostrava su alto, lungo il
Ballatoio, un certo muricciolo a secco, fatto ivi apposta per cavarne
alla occorrenza pietre a difesa del Palagio. Era cominciato l’assalto
e poteva riuscire terribile; in quello colpiva una pietra il braccio
del David del Buonarroti, che tuttora si vede rappezzato.[160] Allora
un rinomato Capitano, Federigo Gonzaga da Bozzolo, che era nelle armi
dei Francesi, entrato in Palagio e orando caldamente alla Signoria,
e pregando quanti erano dentro stornassero dalla città un grande e a
tutti inutile infortunio, persuase alla fine venire a un accordo pel
quale tornasse lo Stato com’era, e del fatto di quel giorno non si
tenesse memoria: Francesco Guicciardini, come dottore di leggi, distese
quell’atto.[161]
Si allontanarono i soldati della Lega, seguendo la strada loro inverso
Roma. Lo Stato in Firenze rimaneva senza genti che lo difendessero e
senza danari, non bene sapendo chi avesse amici o nemici, per essere
gli animi incerti e inquieti e quindi facili a ogni mutazione; piena
la città di uomini del contado, che vi si erano rifuggiti con le robe
loro; donde un alternarsi di subiti sbalzi tra le paure di carestia
e la sovrabbondanza di derrate, cagioni ai tumulti.[162] Quegli dello
Stato pigliavano scarsi e odiosi provvedimenti; condannarono in moneta
alcuni che s’erano mostrati più vivi nel fatto del 26: ma per il primo
di maggio fecero che entrasse Gonfaloniere Anton Francesco Nori, del
quale non era nè il più capace nè che più fosse appassionatamente
devoto alla Casa dei Medici. Intorno ai casi di Roma correvano incerte
notizie perchè le alterate dicerie celavano il vero, che in Firenze
fu recato agli 11 maggio da Filippo Strozzi. Veniva questi molto
irato contro al Papa che non gli aveva pagato il riscatto quando fu
mandato in Napoli ostaggio dopo all’insulto dei Colonnesi; aveva però
guadagnato coi due Papi suoi parenti cento cinquanta mila scudi,[163]
ed era in Firenze depositario del Comune. Al quale avendo il Vicerè
Lannoy onestamente rimandato gli ottanta mila scudi dal Papa offerti
perchè il Borbone tornasse indietro, Filippo non volle che andassero
in mano di quei dello Stato, avendogli invece fatti restituire ai
cittadini, secondo la posta di accatto che avesse pagata ciascuno.[164]
Madonna Clarice, venuta in Firenze avanti al marito e dato animo a quei
primi che la visitarono, si fece essa stessa portare in lettiga a Casa
de’ Medici, dove rinfacciando con fiere parole al giovane Ippolito la
bassezza dei natali e al Passerini quella dell’animo, dava essa come
il primo segnale ai fatti che indi avvennero. Giunse Filippo, e già in
Palazzo si era una Pratica radunata, dalla quale usciva e fu poscia in
nome dei Medici consentita una deliberazione, per la quale mettendosi
innanzi la promessa di adunare con certe limitazioni il Consiglio
generale, si ordinavano intanto dei nuovi Consigli non molto numerosi
che avessero in mano il Governo; i Medici rimanessero in Firenze liberi
e sicuri con tutti gli averi loro, e onorati al pari degli altri
cittadini. Del che fu letizia grande nel popolo al primo annunzio;
ma poi bentosto molti cominciando a mormorare e a fare capannelli
per le piazze, e minacciando volere andare a casa i Medici, questi
furono esortati a partirsi per sicurezza loro dalla città: uscirono
pubblicamente per la via Larga calcata di gente Ippolito e Alessandro e
il Cardinale Passerini, fermandosi al Poggio a Caiano, donde passarono
a Lucca. Gli accompagnava Filippo Strozzi come a guardia delle persone
loro e con la commissione di recuperare la Fortezza di Livorno e quella
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