Storia della Repubblica di Firenze v. 3/3 - 18

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che li modi nostri avessino causato tanto tristo effetto; dicendo non
avere manco affetto alla patria sua che qualunque altro cittadino.
— Quanto all’esercito, rispose non essere al tutto in suo potere
ritenerlo, massime quando fossi tanto vicino alla preda, che appena
fossi in potere dei Capi il farlo: il che si doveva avere previsto, e
non indugiare che le cose fossino in questo termine; dolendosi, oltre
molte altre cose, e dello essere stato infamato e vilipeso, ancora di
questo, che non si fossi mai voluto mandarli oratori. Il che excusai
con la difficoltà del condursi tale opera per il consenso di molti: e
alle querele che faceva, dissi non essere tempo di giustificare molte
cose, essendo necessario più presto riparare al futuro che dolersi
del passato. E perchè il tempo era breve, avvicinandosi l’esercito
alla città, pregai Sua Santità che dovessi senza intermissione di
tempo provvedere a tanti danni, dei quali potevano patire ancora
gli innocenti, e che a quella, come uomo e come Vicario di Cristo,
grandemente dispiacerebbono. Domandommi se le commissioni che avevo
erano libere come il mandato; a che dicendo avere autorità di poter
trattare e concludere tutto, salva la libertà e il presente popular
governo; disse, questo non bastare, non potendo alterare i Capitoli
aveva con Cesare, delli quali uno in fra gli altri, come volle
leggessi, contiene che li suoi abbino a esser rimessi nella città con
la medesima autorità che avevano avanti al 26. Al che risposi: Cesare
essere per contentarsi in questo di quello che volessi Sua Santità,
la quale non doveva volere altro che il giusto. Disse, voleva prima
recuperare l’onor suo; dipoi faria che cotesta città conoscerebbe che
lui vuole conservare la sua libertà. Al che risposi: che io vedevo
grandissima difficoltà in far capace alle menti di molti, che Sua
Santità fosse di tale buon animo; e sebbene alcuni gli presteriano
fede, molti altri, per la grande gelosia che hanno, non sariano di
tale animo. Ed essendo gli uomini di costì disposti al conservare
al tutto la libertà, ne seguirebbe che gli nemici non spugnando la
città, rovinerebbero tutto il contado; al che poteva Sua Santità
facilmente riparare con il far fermare l’esercito, ed io intanto farei
noto l’animo suo a Vostre Signorie. Circa a che ha promesso questo
giorno spedire uno al Principe d’Orange, significandogli che non venga
avanti; e se fossi venuto, fermi le offese; e per poter trattare più
efficacemente in tal cosa, dice domani mandare monsignore Arcivescovo
di Capua al prefato Principe per far tale opera; il che il tutto ha
voluto fare con partecipazione e con consenso dell’Oratore Cesareo.
Avrà il detto Arcivescovo, come dice Sua Santità, libero mandato e
commissione di poter comporre con Vostre Signorie, le quali potranno
riconoscere per la prudenza loro quello sia da operare e come sia
da governarsi con il prefato Arcivescovo. Mostra Sua Santità aver
preso tale spediente di mandare l’Arcivescovo, non manco per essere
ottimo istrumento con il Principe, e poter facilitare la cosa, che per
potere comodamente costì trattare quello che non aspetta lunghezza di
tempo, nè risposte che vadino di qui. Ha Sua Santità molto confortato
che costì non si manchi delle debite provvisioni per resistere a
questi impeti, e non manco all’essere uniti; circa a che gli ho fatto
intendere, che e dell’uno e dell’altro è da stare di buon animo. —
In che m’ingegnai confermarlo, mostrando in tanta buona opera non
essere altra difficoltà che il far noto a cotesto popolo Sua Santità
non volessi dominarlo; e con affetto d’amore, e non per timore, li
sarebbe d’aiuto in ogni buona azione. Sua Santità mostra con le parole
e con li gesti avere buona mente circa questo: e Iacopo Salviati molto
asseverantemente lo conferma, dicendomi tener per certo Sua Santità
non impedire mai la libertà nostra. — Francesco Nasi, il quale è stato
sempre alla presenza e intervenuto in tutti i ragionamenti, farà
noto a Vostre Signorie il tutto, acciò quelle per la prudenza loro
discorrino quanto sia da operare a benefizio della città e libertà di
essa pregando Iddio che le inspiri alla salute di essa; ricordando
a quelle con la debita reverenza, che non manchino della cominciata
provvisione per resistere a questi primi impeti.» Questo scriveva
il Portinari;[189] pochi giorni dopo andavano in Roma gli altri tre
ambasciatori, che furono Iacopo Guicciardini, Andreolo Niccolini e
Francesco Vettori; ma non poterono che più tardi alquanto esporre il
mandato.
Avevano ancora inviato all’Orange Rosso Buondelmonti, che trovatolo
sotto Cortona e tenendosi, come gli era imposto, sulle generali, non
ebbe ascolto; ed una volta gli disse il Principe, non sapere quello che
si facesse lì: ma pure avendo continuato a seguitarlo sino a Figline,
conversava seco nel suo privato amicamente, e lui e gli altri maggiori
Capitani manteneva di vino e di altre lautezze in nome della Signoria:
la quale mandava poi altri nunzi ed oratori, uno Strozzi, un Ginori, un
Marucelli, e da ultimo Bernardo da Castiglione, uomo di maggior conto,
che raggiunse il Principe a Figline. Quivi era giunto l’Arcivescovo
di Capua, col quale i negoziati furono più stretti, ma senza uscire
dai soliti termini. Ve n’ebbero pure con l’Orange e con Antonio
Muscettola che ivi stava per l’Imperatore, ed era quello che governava
il tutto: nè pare mancassero discorsi di riscattarsi per danaro
con modi segreti; ma in Firenze la povertà stessa del Gonfaloniere
induceva molti a dubitare della integrità. Era prima l’Arcivescovo
stato in Firenze; ma perchè diceva non avere espresso mandato, e che
solamente s’intrometterebbe volentieri tra la Città e Sua Beatitudine,
riuscendo la sua presenza odiosa a molti, ebbe onesto commiato, e come
per fargli onore, fu in arme fatto accompagnare fuori della porta
San Niccolò, sicchè non potesse favellare con alcuno.[190] Ma pure
i negoziati non cessavano; ed a suggerimento dell’Orange, andava un
messo a Cesare, che non volle riceverlo. Dagli amici del Papa o dai
prudenti d’ogni gradazione si facevano intanto proposte di varie sorte
d’accomodamenti, che tutti avrebbero in fine condotto per vie più torte
e meno decorose al principato di Casa Medici, quando ella una volta
fosse tornata in Firenze. Ma i quattro Oratori, pervenuti non senza
qualche difficoltà in Roma, udivano sempre le stesse ingiunzioni di
rimettersi al Pontefice e in lui confidare. Non però ebbero da Clemente
udienza, essendo già questi sul partire per Bologna, dov’egli recavasi
a ricevere l’Imperatore; lo seguitarono, e in Cesena finalmente uditi,
anche lì ebbero, ma privatamente, di quelle proposte le quali in
Firenze nemmeno si volle che fossero riferite. Qui era la guerra già
solennemente decretata quando vi tornarono gli Ambasciatori, dei quali
il solo Francesco Vettori rimase col Papa.[191]
Imperocchè mentre il Principe d’Orange stava in Figline e con lui
tuttora continuavano i ragionamenti, Francesco Carducci Gonfaloniere
chiamava nel Consiglio degli Ottanta una Pratica larga nella quale
potessero intervenire tutti i Benefiziati.[192] In essa lette le
lettere degli Oratori, il Gonfaloniere si alzò dicendo: ciascuno
esponesse quello che sentiva liberamente perchè egli, quanto a lui
si spettava, tutto quello che da loro determinato fosse, era non
solamente per approvare come utile, ed eseguire come onorevole, ma
eziandio commendare come onesto: che se a loro paresse, a lui bastava
la vista di difendere la libertà di Firenze. Ricordassero la promessa
fatta in nome di tutto il popolo fiorentino a Gesù Cristo figliuolo
di Dio, di non volere mai altro re accettare che lui solo: il quale
pareva che della promessa loro si ricordasse, poichè aveva mandato
Solimano imperatore dei Turchi con trecento mila uomini e infinita
cavalleria fino alla reggia stessa Imperiale. Le forze dei Fiorentini
essere di quello che si stimava maggiori assai, e quelle del Papa e
dell’Imperatore molto minori; le mura della città gagliarde; la terra
fornita d’artiglieria d’ogni sorta; ed oltre ai soldati forestieri,
la loro milizia di tale virtù che potevano, purchè fussono d’accordo
a volersi difendere, stare sicurissimi contro ogni sebbene fortissimo
esercito: non essere per mancare loro le vettovaglie nè i danari,
essendo la città ricca e i cittadini pronti a dare ogni cosa volentieri
per salvare l’onore e la libertà della patria loro. Si tacque dopo
queste parole il Carducci; e i cittadini ristretti tra loro a dare
il voto, dopo avere lungamente consultato, tutti i sedici Gonfaloni,
eccetto uno, quello del Drago Verde nel Quartiere di San Giovanni,
deliberarono: «anzichè perdere la libertà loro, sostenere non solamente
la ruina del contado e la jattura delle facoltà, ma eziandio porvi
la propria vita, offerendo ognuno volontariamente quella quantità di
danari che comportavano le forze sue.» Il giorno dopo decretarono di
non tardare più, e che all’indomani si rovinassero e si abbruciassero
tutti i borghi della città, non avendo rispetto a molti bellissimi
palazzi e luoghi religiosi. Trascriviamo le parole che l’Ambasciatore
di Venezia scriveva in quei giorni ai suoi Signori. Ivi non si era
usi fare grande stima della Repubblica di Firenze; ma il Capello reca
testimonianza «del grande animo e dell’abbandono che tutti facevano, e
fino ai vecchi, della vita e della roba loro, e degli apparecchi bene
ordinati alla difesa, cui davano mano popolarmente con grande amore e
grande concordia.[193]»
Il che però non poteva essere senza che gli odii antichi e i sospetti
contro ai partigiani di Casa Medici si manifestassero per via
d’ingiurie e di minaccie, più spesso contro uomini dei più qualificati.
Di questi non pochi si erano posti in salvo fuggendo; i quali citati
per editto pubblico a tornare dentro un termine assegnato, a chi non
comparve si diè bando di ribello, e i beni furono confiscati: erano in
quel numero i parenti del Papa, Iacopo Salviati, Giovanni Tornabuoni,
Luigi Ridolfi, Alessandro dei Pazzi; e vi erano i suoi più insigni
fautori, Francesco Guicciardini, Francesco Vettori, Roberto Acciaioli.
Filippo Strozzi era venuto di Francia in Genova, dove favellò in
segreto con Alessandro dei Medici; quindi ritenuto da infermità in
Lucca, dove lo visitarono i suoi tre figli Piero, Roberto e Leone,
passò in Roma. Più ardito degli altri e cupido e scaltro e pronto a
ogni cosa, Baccio Valori, venuto in molta grazia di Clemente, stava con
l’Orange nella qualità di Commissario generale; egli, oltre all’essere
fatto rubello, ebbe taglia di mille fiorini, e come traditore della
Patria gli fu sfregiata e sdrucita una lista della casa sua da capo a
piè, secondo l’ordine di una antica legge. Chiamata una Giunta di sei
uomini a ricercare quali cittadini fossero giudicati più pericolosi tra
quegli che non si erano mossi dalla città, furono per tal modo notati
diciannove; i quali presi e ritenuti nel Palazzo, vi rimasero tutto il
tempo che durò l’Assedio; tra’ quali tre notabili personaggi, Ottaviano
de’ Medici, Anton Francesco Nori e Filippo dei Nerli, stato per il
Papa governatore in Modena, autore dei Commentari. In questo tempo tre
altri uomini per avere sparlato pubblicamente, in segreto macchinato
cose contro allo Stato, ebbero condanna del capo: dei quali uno era dei
Ficini nipote a Marsilio, un altro de’ Cocchi e il terzo un Frate. In
questi bollori andò una brigata di giovani, e diede fuoco alla Villa
magnifica d’Iacopo Salviati presso il Ponte alla Badia, e a quelle dei
Medici a Careggi e a Castello; e se non erano impediti, facevano lo
stesso a quella del Poggio a Caiano di già sontuosa per opere d’arte.
Intanto però si affrettavano le demolizioni decretate intorno a
Firenze, mosse da nobile carità di patria e quasi risposte a chi
diceva che i Fiorentini anzichè vedersi bruciare le Ville tanto a loro
care, avriano cessato da ogni resistenza. Andavano attorno frotte di
giovani agli altrui ed ai propri loro poderi oltre a un miglio dalla
città, guastando con gran furia le case e gli orti e i giardini,
per ivi distruggere ogni cosa che potesse recare ai nemici comodità
o impedimento alla difesa. Altri portavano una macchina a foggia
d’ariete, con la quale abbattevano le muraglie: sul quale proposito
si narra che avendo fatto cadere un muro interno nel Monastero di
San Salvi presso a Firenze, quando si viddero innanzi lo stupendo
Cenacolo che ivi Andrea Del Sarto aveva dipinto, presi d’ammirazione
desisterono dall’abbattere, attenti a salvare da ingiurie nemiche tanto
bella opera. Fortificavano intanto da ogni parte la città, inalzando
difese alle porte e bastioni e baluardi e ripari di vario artifizio;
il che prima essendo stato cominciato da Clemente, fu sino dai primi
mesi di quest’anno ripreso con più vigore, dappoichè Michelangelo
Buonarroti, fatto dei Nove della Milizia e Commissario generale delle
Fortificazioni, attese a quelle opere che egli medesimo dirigeva. Fu
suo consiglio inchiudere nella cinta di difesa il Poggio sul quale
stanno le chiese di San Miniato e di San Francesco, per essere tanto
prossimo e imminente alla città che ogni difesa era impossibile se i
nemici potessero batterla da quelle alture. Dentro avevano otto mila
buoni fanti, la miglior parte avanzati dalle Bande Nere, con altri
di varie armi e paesi, nè tutti Italiani: la milizia cittadina era di
circa duemila cinquecento uomini dai 18 ai 36 anni ed altrettanti da
36 a 50, senza contare gli artefici che a un bisogno potevano essere
più di ottomila, divisi tutti per Compagnie con ufiziali, che in parte
erano cittadini ma tutti nelle armi bene esercitati.[194] Avevano per
capo supremo il signor Stefano Colonna da Palestrina, stato ai servigi
del re Francesco e da lui volentieri conceduto quando per la pace gli
era d’aggravio. Le genti assoldate ubbidivano a Malatesta Baglioni,
che aveva supremo comando; per la Repubblica Commissari generali furono
Anton Francesco degli Albizzi, Raffaello Girolami e Zanobi Bartolini,
non senza l’aggiunta di Magistrati e di Consigli, impaccio alle imprese
nei popoli liberi. Mandarono Commissari in quei punti del dominio
che intendevano mantenere, sebbene la guerra poi si ristringesse
tutta in quel tratto ch’è tra Firenze e Pisa; tanto importava salvare
Firenze non che dall’assalto nemico, da ogni commozione dentro di chi
volentieri avrebbe ceduto. Fra questi erano i più ricchi, o aderenti
alla Casa Medici, o male disposti verso quel governo tanto popolare e
tanto vivo che non badava nè a roba, nè a case, nè alle dolcezze di
un lauto vivere. Aveva già questo Governo due anni prima ed in vari
modi battuto gli avversi allo Stato popolare con balzelli e accatti
o imprestiti sottilmente congegnati, dei quali è minuto ragguaglio
nei nostri scrittori: la somma fu trarre ottanta mila fiorini dentro
pochi mesi da un certo numero di cittadini designati con un’apparenza
di voto pubblico o di sorte, che poi nel fatto era l’arbitrio d’una
parte. Venderono quindi per fare moneta i beni immobili delle Arti;
istituzioni oramai cadute da ogni valore politico e fatte in oggi o
inutili sospette. Venderono i beni dei ribelli, ed obbligarono i loro
amici rimasti dentro a farne la compra, sborsando il prezzo a brevi
termini con penali e soprattasse da dirsi crudeli piuttosto che dure.
Posero in vendita, non che tutti i beni delle Confraternite o Compagnie
laicali ma erette a fine di devozione, un terzo ancora dei patrimoni
delle Chiese, per la necessità che doveva in tutti essere di sottrarre
il luogo nativo da uno stato di servitù comune a tutti.[195] Andavano
intanto agli esercizi militari congiunte le pubbliche preci e gli atti
di privata devozione. L’immagine della Nostra Donna che dal santuario
allora solenne dell’Impruneta soleva trarsi in città nei tempi di
universali calamità o pericoli, vi fu condotta, e nel maggior tempio
custodita perchè non cadesse in mano ai nemici: quivi ella rimase per
tutto l’Assedio.[196]
In mezzo a questi provvedimenti abbiamo veduto la Repubblica cercare
con messi e con doni di arrestare l’Orange dacchè egli fu entrato
dentro a’ confini della Toscana. Grande in quei giorni era il
terrore della città di Firenze. Continuavano a fuggire molti, fuggiva
Michelangelo Buonarroti. Un capitano dei principali, suo grande amico,
Mario Orsini, ed altri con esso gli andavano dicendo, che Malatesta
era traditore, e che entrerebbero i nemici, e che Firenze anderebbe
a sacco senza dare spazio a compire le fortificazioni: poca fede avea
nel Carducci Gonfaloniere che, avvertito, non pareva temere abbastanza;
nè prima si era potuto intendere col Capponi che, troppo guardingo e
pronto a cedere, nulla provvedeva.[197] Quell’anima tanto impetuosa del
Buonarroti, fu vinta di subito dalla impazienza propria di un artista
che odia gli impacci di quelle minute fila di cui s’intesse la vita
pubblica. Per la via di Garfagnana andò a Ferrara, quindi a Venezia;
e qui avrebbe bramato vivere sconosciuto, ma quella Signoria coi molti
onori gli attristò l’animo più che mai. Tornò a Ferrara, dove quel Duca
cercò ritenerlo; ma quivi apprese come egli avesse dalla sua patria
bando di rubello insieme con altri ch’erano fuggiti nei giorni stessi.
Ebbe però anche certezza non essere egli compreso nella condanna se non
per la forma, e che era da tutti desiderato: fu tolto il bando, e tornò
alle opere della difesa, alle quali, assente lui, attese Francesco da
San Gallo, egregio architetto.[198] Tornarono altri di quei fuggiti;
altri si dispersero, aspettando dove il vento piegasse; passarono
altri nel campo nemico. «Ma come prima tutta la città era in somma
trepidazione ed attendevano con la fuga a salvarsi, così ora partiti
non pochi e purgata la città dalla maggior parte di quelli i quali o
con la timidità o col desiderio delle cose nuove attiravano le menti
degli altri,» nota il Capello «come gli animi si venissero a riunire
ed a confermare di sorta, che molti oramai desideravano di vedere il
nemico alle mura, non dubitando di averne grandissimo onore.[199]» Al
che aggiungendosi la crudeltà dei nemici nel Valdarno, e quelle usate
dal Ramazzotto nel Mugello, entrò in questo popolo insieme tutto quella
disperazione feconda e nobile che infiamma gli animi degli uomini,
i quali non sieno ancora prostrati. Se in qualche parte l’Istoria
nostra avesse saputo mostrare quante onorate gioie in mezzo ai dolori
provasse, nel corso di trecento anni, questo popolo tutto intero,
potrebbe ora farsi ragione di quello che allora sentisse, vedendosi
innanzi agli occhi una servitù continua e come i tedii e gli ozii
oscuri di una vecchiezza. Se questa cogliesse la vita ad un tratto,
non vi sarebbe uomo che la sopportasse; nè volle entrarvi il popolo
di Firenze senza illustrare la fine sua. Dio ha concesso alla libertà
questo onore, che mai si spegnesse senza levare di sè una fiamma,
quasi a mostrare più tristi quei tempi che sopravvengono quando ella è
oppressa.
L’esercito dei nemici, soprastato quasi venti giorni in quella ricca
sebbene angusta Valle dell’Arno che si prolunga dai poggi aretini
infino a quelli che la separano da Firenze, andava in quel tempo
devastando quella misera contrada più miglia all’intorno. Il ricolto
era stato abbondante oltre all’usato, e servì al nemico; si erano
i contadini rifuggiti e sparsi nei boschi e nei luoghi circostanti,
dove cercati e scoperti, andavano essi e le robe e le donne loro in
preda ai soldati.[200] Tra queste fu molto celebrata la virtù d’una
Lucrezia Mazzanti di gente povera all’Incisa, la quale venuta alle
mani d’un soldato e questi adescandola con promesse, trovò non so quale
ragione di andare di là dall’Arno, ed in mezzo al ponte avviluppatasi
con le vesti il capo, si gettò nel fiume ch’era molto grosso, ed ivi
annegò. A’ 6 d’ottobre era il nemico a nove miglia da Firenze; ai 10
l’Orange muovendo con tutto l’esercito, si venne ai 14 ad alloggiare
nel Piano di Ripoli alla villa dei Bandini, un miglio presso alla
città. È fama che gli Spagnoli, allorchè giunti all’Apparita videro
innanzi tutta la città di Firenze col suo piano, vibrando le armi
gridassero allegri nella lingua loro: Signora Fiorenza, apparecchia i
broccati, che noi veniamo per comprarli a misura di picche. Intanto
avvenivano scaramuccie tra cavalli leggieri dell’una e dell’altra
parte, nelle quali sempre i Fiorentini accadde che avessero la meglio;
il che aggiunse ad essi animo e la fiducia della sicurezza. Gli
incendi moltiplicavano all’intorno, «nè si distingueva quali per opera
dei nemici, quali dei cittadini stessi, confondendosi l’inumanità
di quelli con la generosa costanza di questi, e la grandezza degli
animi e la prontezza d’ognuno in sostenere ogni danno, ogni pericolo
per conservazione della libertà.[201]» Il danaro diveniva ognora più
copioso, e continuamente ognuno si rendeva più pronto ad offrirlo
volontariamente.
L’indugio che fece l’Orange in Valdarno dicono tutti che provenisse
dalla necessità di aspettare otto cannoni che a lui mandavano i Senesi,
perchè, non potevano negare nè questi nè altri soccorsi all’Imperatore,
male inclinati egualmente verso il Papa e verso i Fiorentini: dovettero
inoltre gli otto pezzi fare verso Arezzo un lungo circuito di strade
cattive.[202] Io credo però vi entrasse anche un aspettare di Clemente,
che sempre sperava ricevere Firenze per vie pacifiche; e vi entrasse
pure il dubbio in cui erano i Cesarei per le cose di Vienna, innanzi
che il Turco si fosse di là ritirato. Convengono tutti però, che
l’indugio fosse causa di mandare a lungo l’impresa, la città essendosi
in quei giorni fortificata da ogni banda per lo zelo meraviglioso dei
Fiorentini e per l’intelligente direzione di chiari architetti e grandi
artisti d’ogni maniera che vi abbondavano.[203]
Dei grossi bastioni con fianchi e fossi e bombardiere, fasciati da
una corteccia di mattoni crudi composti di terra pesta e capecchio
trito, si distendevano dalla porta a San Miniato per tutto il Poggio di
questo nome, dov’era il forte della difesa: un altro argine scendeva
dall’alto verso oriente, fino all’Arno da San Niccolò; continuava
un altro all’occidente, fuori della porta a San Giorgio e San Piero
in Gattolino, finchè non trovasse l’Arno a San Frediano. Dall’altro
lato di questo fiume le porte avevano baluardi e argini, e a luoghi,
torri da starvi soldati. Guardava il Poggio di San Miniato e di San
Francesco verso oriente Stefano Colonna; e dall’opposto lato, Mario
Orsini; con più di tremila fanti fra tutti due, sotto ventiquattro
Capitani. Alloggiava Malatesta su’ Renai nelle case de’ Serristori.
Altri Capitani aveano la guardia delle altre porte: Giorgio Santa Croce
stava co’ suoi cavalli nel prato d’Ognissanti; Pasquino Côrso col suo
colonnello era in arme nel mezzo della città, pronto a soccorrere
dovunque ne fosse bisogno. Della milizia fiorentina ciascuna banda
stava il giorno al suo Gonfalone; la notte andavano, parte al Poggio
e al Bastione di San Giorgio insieme ai soldati; parte stavano alla
guardia della città, dov’era proibito a questi mostrarsi la notte.
Incontro a queste fortificazioni l’assedio nemico circondava quasi,
a guisa di un mezzo cerchio, tutta la parte di là d’Arno; cioè da
oriente fino alla porta San Niccolò, e all’occidente di nuovo fino
all’Arno presso alla porta di San Frediano, cominciando dal palazzo
di Rusciano, che Brunellesco disegnava per la famiglia dei Pitti:
qui alloggiava Gian Battista Savelli; alla Torre del Gallo, il
conte Pier Maria da San Secondo; a Giramonte, Alessandro Vitelli;
a Santa Margherita a Montici, Sciarra Colonna: il Principe d’Orange
risiedeva nel pian di Giullari, dov’erano le case dei Guicciardini:
lì presso erano la piazza del Mercato e le Forche. Più sotto abitava
Baccio Valori, Commissario generale del Papa: il Marchese del Vasto
con altri stavano verso la porta di San Giorgio, più vicino a San
Leonardo. Questi erano gli alloggiamenti degli Italiani. I Lanzi si
erano accampati, alcuni nell’alto, vicino al Principe; altri presso
alla villa dei Baroncelli, che oggi ha nome di Poggio Imperiale. Gli
Spagnoli, sparsi in più luoghi, si distendevano dalle Campora fin sotto
Marignolle e a Bellosguardo: cresciuti poi di numero, occupavano tutto
il Monte Oliveto presso occidente, e le loro bagaglie arrivavano fino a
Scandicci. Tale era il campo degli Imperiali.
Nella città quando fu pronta ogni cosa, una mattina a levata di sole,
Malatesta si appresentò in persona sul bastione di San Miniato con
trombe e strumenti, come salutando i nemici e invitandoli a battaglia:
poi mandò un trombetta nel Campo a sfidarli; e poichè vidde che niuno
si muoveva, fece ad un tratto scaricare tutte le artiglierie, che
molte erano, e i tamburi suonare, con tale rumore che rimbombandone i
vicini colli empiè la città insieme di letizia e di paura. Nè per molti
giorni fu dalle due parti altro che uno spesso cannoneggiarsi; quando
la notte di San Martino, che era buia e piovosa, fece il Principe
accostare tutte le genti alle mura, muniti di scale, deliberato di
assaltare sprovvedutamente Firenze. Ma trovò le guardie vigili e
gagliarde, e la milizia si armò in un attimo; e nella città furono i
ponti e le strade calcate di gente con torce e lampioni e lumi alle
finestre: l’istorico Varchi vidde un fanciullino condotto da un vecchio
a dividere seco il pericolo. Tutti andavano verso i bastioni, donde
le artiglierie traendo alla cieca nelle masse degli assalitori là dove
udissero più grande il rumore, facevano ad essi non piccoli danni; per
il che l’Orange fece suonare a raccolta, e andò a Bologna il giorno
dopo a cercare nuove genti, ivi essendo giunto l’Imperatore. Nel Campo
intanto era la carestia grande per la necessità di condurre le grascie
a schiena di mulo o d’asino, e le strade rotte e fangosissime: per le
case di fuori e per le ville i saccomanni non trovarono più nulla;
fuggivano alcuni in Firenze, e ivi si mettevano con gli assediati.
Questi avrebbero i nemici voluto fiaccare con le scaramuccie, nelle
quali mai non vollero fare buona guerra co’ giovani della milizia,
dicendo ch’erano gentiluomini e non soldati, ma in fatto per poterli
come danarosi taglieggiare. Ad essi pertanto era con pene rigorosissime
vietato l’uscire; ma pure tenere non si potevano, avendo a male quel
trattamento a segno, che alcuni uccidevano a ricambio i prigionieri
fuor d’ogni usanza.
Tanto era l’ardire di quella milizia, che il signor Stefano Colonna col
solo aiuto di cinquecento fanti spediti in corsaletto si fidò condurla,
girando attorno al Campo nemico, fin quasi alla coda verso alla chiesa
di Santa Margherita a Montici. Era una notte oscurissima e le cose
ordinate in modo che allo sbaraglio prodotto dai primi assalitori,
altri uscissero per tre porte della città e attaccassero di fronte il
nemico; il che si fece con grande impeto, ed il Principe d’Orange, il
quale già era tornato in campo, credette, assaltato così all’impensata
da due lati opposti, di essere tradito. Perivano molti dei suoi; ma
era esercito condotto da uomini sperimentati, i quali seppero anche
in mezzo allo sbalordimento fare che tosto con l’ordine tornasse
il valore: il Principe stesso combatteva nelle prime file, soldato
insieme e capitano. Sforzare il Campo era oggimai reso impossibile a
quei notturni assalitori, tantochè Malatesta dalla città fece dare il
segno prima convenuto, per cui si ritrasse ciascuno ma in modo lento e
decoroso, le cannonate dai bastioni tenendo indietro le genti nemiche.
Non mutò quel fatto le condizioni della guerra, ma rialzò gli animi
e servì a temprarli più fortemente: a quelli assalti in quel modo al
buio davano nome d’incamiciate, perchè sopra all’armi ponevano una
camicia bianca che gli distinguesse dai nemici. Ebbe gran parte in
quell’abbattimento Mario Orsini, Capitano amatissimo in Firenze: questi
e seco un altro nobile romano, Giorgio Santa Croce, mentre stavano
pochi giorni dopo nell’orto di San Miniato a ragionare con Malatesta
e i Commissari di cose pertinenti alla difesa, una palla di colubrina
tirata in quel mucchio percuotendo il pilastro di una pergola, fece
che i rottami cadendo addosso a quei due gli uccidessero in un colpo
insieme con altri soldati e cittadini; di che in Firenze fu grande il
rammarico, ed all’Orsini ed al Santa Croce fu data dal pubblico onorata
sepoltura. Nel giorno istesso moriva nel campo subitamente Girolamo
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