Storia della Repubblica di Firenze v. 3/3 - 12

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L’antico Signore di Casa Varano rientrò in Camerino, cacciatone un
altro di quella famiglia che Leone X avea fatto duca. Lo Stato intero
di Ferrara tornava in mano del duca Alfonso; ma rimanevano alla Chiesa
Modena e Reggio; e il Guicciardini Governatore difendeva con molta
sua lode la città di Parma da un forte assalto dei Francesi durato più
giorni.
Tardi arrivavano in Roma i Cardinali, dei quali trentanove si
chiusero in Conclave, numero insolito, non preparati al grande atto ed
imprevisto, nè bene intesi ciascuno co’ suoi. Giulio dei Medici, che
aveva poca speranza per sè medesimo, bastava però col molto seguito a
impedire l’elezione del Soderini che sopra ogni altro manifestamente
ambiva il papato. Nei primi giorni, a fine di prova, si metteano
innanzi, com’è consueto, diversi nomi; quando ai 9 di gennaio trovatosi
avere il Cardinale di Tortosa quindici voti, si levò il Gaetano, e
molto lodandolo esortava gli altri Cardinali a eleggerlo in quella
mattina istessa per via di accessione: il che da uno essendo fatto,
gli altri seguitarono, ed il cardinale Adriano Florenzio riescì eletto
Papa,[130] quando niuno a lui pensava e niuno forse lo conosceva: ma
temendo ciascuno un nemico più che non avesse per sè fiducia, fu come
un riposo eleggere un uomo ignoto e lontano. Era di piccola estrazione,
fiammingo di nascita; e stato educatore del giovane Carlo, governava la
Spagna dopo il Ximenes in assenza dell’Imperatore: uomo pio e dotto,
di costumi semplici; e grande dovette in lui essere la maraviglia
quando gli giunse il primo nunzio che lo salutava Papa. Non volle
mutare nome, perchè in tale usanza soleva egli forse vedere qualcosa
di troppo fastoso, e si chiamò Adriano VI. Andava più tardi al nuovo
Pontefice una solenne Legazione di tre Cardinali, conducendo le galere
della Chiesa quel Paolo Vettori che fu principale nella caduta di Piero
Soderini e poi sollevato da Leone X al comando generale delle armi di
mare.
Francesco Maria della Rovere nel riacquisto di Urbino aveva seco
Malatesta e Orazio figli dell’ucciso Gian Paolo Baglioni, bramosi
questi di recuperare Perugia: Ad essa muovendo insieme, e dato
battaglia contro alle genti dei Fiorentini che vi erano dentro,
espugnarono la città cacciando un altro Baglioni che Leone X vi aveva
posto. Continuarono verso Siena, della quale se ad essi riusciva
mutare lo Stato, si confidavano che Firenze vorrebbe togliersi di
sotto al giogo di Casa Medici. Era il Cardinale accorso già incontro
a questi pericoli; e avendo assoldati Svizzeri e Tedeschi e fatto
di Lombardia venire Giovanni de’ Medici, potè oltre a fermare le
cose di Siena, minacciare anche Perugia: ma in Roma il Collegio de’
Cardinali, dov’erano molti avversi al Medici, vietò a quelle genti
di andar oltre sulle terre della Chiesa, e confermò lo stato al Duca
d’Urbino. Intanto un altro disegno si ordiva per simile effetto dal
Cardinale Soderini, con l’intesa dei Francesi e con le armi di Renzo
da Ceri che stava disoccupato nella campagna di Roma. Questi era già
entrato nel territorio di Siena, dove però gli riusciva male ogni
cosa, il Cardinale avendo condotti a’ suoi stipendi il Duca d’Urbino
ed i Baglioni che prima gli erano stati tanto fieri nemici, e fatto
Governatore generale di tutta la guerra il conte Guido Rangone; del che
molto essendosi adontato Giovanni de’ Medici, andò coi Francesi: ma di
nuovo il Collegio de’ Cardinali faceva posare le armi alle due parti;
Giulio dei Medici rimaneva signore in Firenze.[131]
Teneva lo Stato in modo pressochè assoluto, ma senza forme che lo
assicurassero e non avendo a chi trasmetterlo: rimaneva ultimo della
Casa di Lorenzo e non legittimo, e quanto a sè avendo l’animo sempre
avvinto al desiderio del papato, senza del quale s’accorgeva che non
avrebbe potuto nemmeno tenere Firenze. Era invecchiata oramai quella
bugia di governo che doveva parere repubblica ed essere principato;
laonde Giulio si propose ringiovanire cotesta forma slentando i freni,
perchè riuscisse più effettiva la libertà. Parco allo spendere,
al donare scarso, vivea sulle entrate dei suoi benefizi, nulla
costando alla città, con molto mala contentezza de’ suoi partigiani.
S’intratteneva co’ cittadini migliori e più degni, ai quali s’apriva
dicendo volere d’accordo con essi trovare una forma per cui la città
potesse vivere con soddisfazione di tutti e senza mutare Stato; che
in quanto a sè aveva in Roma la stanza sua, rispetto al grado ch’egli
teneva. Andavano oltre questi discorsi, e non è a dire quanto gli
animi se ne accendessero; il Cardinale chiedeva pareri a ognuno, e
molte sorte di modelli di nuova repubblica a lui erano presentati.
Quello che aveva il Machiavelli scritto ad istanza di Leone X, parve
non praticabile come insolito e stravagante; un altro di Alessandro
dei Pazzi, che pure abbiamo a stampa, lasciava le cose in aria senza
impegnarsi contro al volere dei governanti.[132] A questo modo non
era disegno che non si facesse; perchè alle diverse parti civili si
aggiungevano anche le dottrine, in città di molto sapere, e che aveva
fatto tante esperienze di libertà e di servitù nel corso vario di tre
secoli. Vi fu chi avrebbe voluto comporre un governo di Ottimati, vano
sogno nella città di Firenze; chi ristringerlo in pochi arbitri d’ogni
cosa sotto all’ombra del nome dei Medici: i più chiedevano si riaprisse
il Consiglio grande con un Senato eletto a vita, dove i Settanta
della Costituzione di Lorenzo facessero anche le parti che erano degli
Ottanta nel governo popolare. A questo parvero una volta fermarsi i
pareri, e già si parlava d’un Gonfaloniere ad anno e di chi scegliere
a quel grado; le opinioni essendo divise tra Francesco Vettori come
più aderente ai Medici, e un uomo di molta autorità e nome, Roberto
Acciaioli, che era stato da papa Leone tenuto in Francia ambasciatore:
il Varchi scrive di lui, che egli e il Guicciardini erano le due più
savie teste d’Italia. Nè il Cardinale respingeva gli antichi seguaci
del Savonarola, che in tanto rumore venivano innanzi anch’essi con le
speranze loro; e si giovava della familiarità di Girolamo Benivieni per
la riverenza in che era tenuta la bontà e fede di cotest’uomo. A così
fatte dimostrazioni furono molti che non crederono.
Era in Firenze una conversazione di nobili giovani e letterati,
soliti convenire insieme negli Orti che Bernardo e Cosimo Rucellai
aveano adornati signorilmente in via della Scala, svariati di alberi
stranieri, e viali e grotte artisticamente lavorate: gli uomini più
insigni per nome o per grado che capitassero in Firenze, vi erano
convitati. Si venne a formare qui una sorta d’Accademia, dove la scuola
del Ficino ebbe qualche parte; ma i giovani attendevano più volentieri
a esercitarsi nelle antiche storie e negli studi che più risguardano
cose di Stato: il Machiavelli scriveva per quella radunanza i Libri
sull’Arte della guerra e i Discorsi sopra le Deche di Tito Livio.
Zanobi Buondelmonti e Luigi Alamanni conducevano quella scuola a dei
pensieri di libertà: il primo nella gioventù si estinse; l’altro
debole poeta, ma copioso ed elegante scrittore di versi, ebbe più
lunghe la vita e la fama. Con essi andavano Jacopo di quella dotta
famiglia da Diacceto continuatrice della scuola Platonica, e Antonio
Brucioli che in Venezia fuoruscito tradusse la Bibbia. Questi nella
spedizione di Renzo da Ceri si erano confidati avere occasione di
mutare lo Stato in Firenze, tenendo pratiche a tale effetto in Roma
col Cardinale e con gli altri Soderini che furono autori di quella
impresa; e non cessavano, svanita questa, di macchinare cose nuove.
Nelle quali essendosi accorti quei giovani Fiorentini d’essersi
oramai troppo avanzati, deliberarono venire al fatto con l’ammazzare
il Cardinale; non che avessero odio seco, a quel che dissero, ma per
liberare la patria loro. Fu scoperta la congiura per lettere prese
addosso a un cavallaro che andava da Firenze a Siena, e tosto il
Diacceto e un altro Luigi Alamanni, che era soldato in Arezzo, fatti
pigliare ed esaminati, e avendo per mezzo loro saputa i ogni cosa,
furono decapitati. Fuggirono il Brucioli e il Buondelmonti in diversi
luoghi; l’altro Alamanni, di nome celebre, si condusse nelle terre
degli Estensi in Garfagnana, dove ebbe rifugio da Lodovico Ariosto
che n’era Governatore: essi e tutti i Soderini furono fatti ribelli,
tra’ quali il vecchio Piero essendo morto in quei giorni, fu dannata
la sua memoria. Concorsero alla Casa Medici i principali cittadini;
ai quali raccolti insieme, il Cardinale con amorevole maestà,
invocando in testimonio Iddio e gli uomini, affermava l’ottima sua
mente verso la patria comune; la quale dolendosi che i malvagi gli
impedissero dimostrare, sperava un giorno soddisfare alla sua pietà e
al desiderio popolare. Cessarono per allora i discorsi della riforma:
il Cardinale adoperandosi a frenare le prepotenze dei partigiani suoi,
temporeggiava; ma per assicurarsi da ora innanzi meglio la vita, chiamò
alla guardia della sua persona Alessandro Vitelli con un numero di
fanti.[133]
In questo tempo l’esercito dei Francesi, rinforzato di diecimila
Svizzeri, combatteva sotto agli ordini di Lautrech in Lombardia, contro
agli Spagnoli e a un egual numero di Tedeschi mercenari che aveva
assoldati Prospero Colonna: difendeva questi Milano e altre città, dove
gli Svizzeri agognavano trovare col sacco le paghe sottratte ad essi
in Francia per lo scialacquo di danaro che il Re faceva. Disubbidienti
ad ogni disciplina, aveano forzato Lautrech a impegnarsi in luogo
svantaggioso alla Bicocca presso Milano, e per cupidità prodighi della
vita, si lanciarono temerariamente innanzi contro l’ordine dato; nè
la gendarmeria francese, nè Giovanni dei Medici con le sue di già
famose Bande Nere poterono restaurare la battaglia da quel folle impeto
disordinata: gli Svizzeri mezzo distrutti tornarono alle montagne loro,
e indi a poco Lautrech fu costretto evacuare la Lombardia per via d’un
accordo. Dopodichè Prospero Colonna andato rapidamente contro Genova
che i Francesi con piccole forze tuttora occupavano, già era sul punto
d’averla a patti, quando i soldati suoi accortisi nelle mura essere una
breccia che niuno guardava, entrarono senza comando, nè freno, dentro
alla città opulente, che da quelli avidi mal pagati fu messa a sacco,
deposto il Doge di Casa Fregosa ed il suo luogo dato a un Adorno che
seguitava la parte spagnola.
Frattanto il Collegio dei Cardinali governava lo Stato in Roma, dove
Adriano tardò a recarsi. Col solenne avviso della elezione, per via
d’una carta minutamente specificata gli avevano posto innanzi le
norme ed i confini della sovranità che risedeva nel Papa insieme e
nel Collegio;[134] nè quanto a lui, era uomo da invasarsi del sommo
grado ch’egli assunse non senza una vera trepidazione: si direbbe
anzi, che prima cercasse in sè medesimo d’assuefare la mente e l’animo
al pontificato. Percorse alcune città della Spagna prima di muoversi
per la Italia, nè altro fece se non esortare con lettere i due grandi
avversari a pacificarsi. Carlo V nel tornare di Fiandra in Ispagna lo
aveva richiesto d’una conferenza in Barcellona, ma il Papa sollecitò
la partenza, deliberato mostrarsi eguale tra’ contendenti, e forse
temendo qualcosa concedere all’affetto pel discepolo o all’ossequio
per l’Imperatore. Giungeva in Roma nel mese d’agosto in compagnia
di molti Cardinali che gli erano andati incontro a Livorno. Nuovo e
straniero entrava in mezzo a quella politica nella quale erano prima
stati immersi con lunga pratica i predecessori suoi; gli usi ed i
modi e il linguaggio non conosceva, e degli uomini si fidava poco:
ai Cardinali dal canto loro tornava male avere a parlare latino con
lui. Da principio avea saputo entrargli in grazia il Soderini, tra i
Cardinali il più intramettente; avere tolto a suo ministro chi tutto
era dedito a parte francese, mostrava l’animo d’un Pontefice che voleva
essere comune padre. Badava in quanto a sè a correggere i vizi e a
rettamente governare quella parte che spetta all’ordine ecclesiastico;
e se era in lui tempra più forte e più capace alle grandi cose, o
se avesse egli intorno a sè trovato altri di egual volere, forse
che un papa non italiano era più atto ad impedire quella infelice
separazione che avvenne allora dentro alla Chiesa. Ma le sue stesse
virtù lo rendevano odioso ai Romani, avvezzi al fare secolaresco e
alla incurante prodigalità di Leone X, che aveva consunto il tesoro
di Giulio II, e lasciato dopo sè l’erario vuoto e gravato di molti
carichi delle guerre. Adriano invece severo e stretto nel cercare
l’economia dello Stato, era anche più rigido e guardingo nelle grazie
che sono d’ordine ecclesiastico: a un suo nipote, al quale avea dato un
mediocre benefizio, negò il secondo. Parco e dimesso nel suo privato
vivere e contento di piccola Corte, dei cento palafrenieri che aveva
Leone, dodici ne ritenne a mala voglia; si perdeva negli alti palagi,
dei ricchi arredi non sapea che fare, condannava i gai passatempi e
fino agli studi che in Roma fiorivano. Irto di teologia scolastica e
di feudale giurisprudenza, odiava le lettere, profane com’erano allora
molto e licenziose, il bello delle arti al suo animo non diceva nulla;
dal gruppo antico del Laocoonte di poco scoperto, rivolse gli occhi
dicendo ch’erano idoli dei pagani. Quindi era tenuto come zotico e
selvaggio, e Roma al suo tempo pareva deserta; i letterati fuggivano
spauriti, andavano i Vescovi alle loro diocesi che prima non avevano
mai vedute, maledicevano i poeti a un Papa barbaro e frugale:[135] in
quella Roma il miser uomo avea trista vita.
In quell’autunno la peste afflisse Roma e si venne a dilatare nella
Toscana. Intanto Rodi, baluardo della cristianità, cadeva in potestà
degli Ottomanni, difesa con lungo valore dai Cavalieri di San Giovanni
di Gerusalemme, i quali avevano sede in quell’isola; il giovane
Solimano, che vi era in persona, concesse loro di uscirne liberi
portando seco quanta più roba potevano. In favor loro niuno si mosse
dei Principi cristiani, i quali ordivano leghe che di nome erano sempre
contro al Turco; ma in Italia vinceva ogni cosa il desiderio d’impedire
in Lombardia un’altra invasione di Francesi che il Re minacciava. Non
che fosse dolce quella dominazione degli Spagnoli, nè decorosa, nè da
riposarvisi volentieri guardando al piede che vi pigliavano; Carlo V
mescolava con molta destrezza qui tra noi le parti di conquistatore
a quelle di Cesare, dimodochè insieme si confondessero e aiutassero:
imponeva ora a Milano ventimila ducati al mese, a Firenze quindicimila,
a Genova ottomila, e minori somme a Siena, a Lucca ed ai Marchesi di
Monferrato e di Saluzzo, come Stati che rilevavano dall’Impero per via
d’un diritto non mai abolito comunque in oggi poco espresso. Confermava
alla Repubblica e allo Stato di Firenze i privilegi di libertà e di
possessi, dati per ultimo da Massimiliano: Leone X gli avea chiesti
al nuovo eletto Imperatore, in nome del quale don Giovanni Manuel
ambasciatore di Cesare in Roma ne fece promessa con una cedola di sua
mano, la quale ebbe ora spedizione per Bolla imperiale. Grandi erano in
Roma l’autorità e la potenza di cotesti Ambasciatori; la esercitavano
con altura spagnola, che molto bene s’investiva del nome imperiale da
essi rappresentato, ma senza però che rifuggissero dalle astuzie, o si
astenessero dalle violenze.
Che da principio fosse il Papa sinceramente neutrale, parve anche
agli occhi sospettosi degli ambasciatori Veneziani.[136] Ma indi al
vedere l’ostinazione di Francesco I per la recuperazione di Milano,
al quale effetto si preparava con grandi armamenti, e perchè intanto
per tutta Italia si era contenti d’avere in Milano quell’ombra di Duca
e mantenere la pace, Adriano credette potersi onestamente avvicinare
a quella parte che più gli era accetta. Giulio cardinale dei Medici
allora venne da Firenze in Roma, dov’egli entrò con grande numero di
cavalli, incontrato da Cardinali e sommi personaggi; al suo palazzo
era più frequenza di corteggiatori che in corte del Papa. Il che
molto accrebbe la parte Spagnola; e il Duca di Sessa, che succede al
Manuel, faceva al di fuori delle porte di Roma fermare i corrieri e
togliere ad essi le lettere, il ch’era avvenuto anche agli ambasciatori
Veneziani.[137] In tale modo se n’ebbero in mano del cardinale
Soderini, per le quali esortava il re Francesco a fare scendere
in Sicilia soldati che avrebbero dato mano a una grande ribellione
ordita in quell’isola: dopo di che il Papa imprigionava e chiudeva
nel Castello il Soderini come perturbatore della pace tra’ Cristiani,
privandolo delle sue grandissime ricchezze. Una Lega fu allora
conchiusa tra il Papa e Cesare e il Re d’Inghilterra e Ferdinando
arciduca d’Austria minore fratello di Carlo V, e il Duca di Milano e
i Genovesi e il Cardinale dei Medici e lo Stato di Firenze, congiunti
insieme; che in Milano fu sottoscritta da Paolo Vettori. I Veneziani
si erano prima legati a Cesare, ma non vollero impegnarsi a entrare in
guerra col Turco, sapendo che in quella sarebbero i primi esposti e
poi da tutti abbandonati. E già il Re di Francia, venuto a Lione con
esercito grandissimo, stava per muoversi verso l’Italia, quando si
scoperse lo scellerato ed inaudito tradimento che il Duca di Borbone
suo primo congiunto preparava non contro al Re solo, ma contro allo
Stato di Francia, del quale aveva patteggiato co’ nemici la divisione.
Il Re in tanto caso non si volle partire di Francia, ma inviava con
molta parte dell’esercito in Italia l’ammiraglio Bonnivet, che entrato
in Lombardia stava già presso a Milano, quando giunse nuova della morte
di papa Adriano, dopo un anno e pochi giorni dacch’egli era venuto in
Italia: lo tolse di vita in una villa presso Roma una di quelle febbri
autunnali ch’erano state fatali a tanti Papi ed a Principi forestieri
in quella regione.[138]
Si venne quindi all’elezione del nuovo pontefice, innanzi a tutti
stando il nome del cardinale Giulio de’ Medici; talchè per cinquanta
giorni che durò il Conclave si dibattè sempre sostanzialmente se egli
dovesse o no essere papa. Sicuri aveva dodici voti, ma il numero
de’ suoi non bastava a fare i due terzi che sono richiesti dalle
costituzioni; e contro di lui stavano i più vecchi Cardinali, ricusando
eleggere un papa di quarantasei anni, che a loro avrebbe tolta ogni
speranza. Gli conduceva Pompeo Colonna, giovane fra tutti, ma nemico
aperto dei Medici e cardinale di grande seguito per l’ingegno e il nome
e i costumi signorili.[139] Nulla si faceva, i vecchi adoperandosi per
sè ciascuno, e Giulio essendo uomo ostinato nelle ambizioni e che si
teneva all’alta cattedra come necessario. Di tanto indugio grave era lo
scandalo; i letterati ricordavano la contesa che fu nell’antica Roma
tra un altro Giulio e un altro Pompeo, ed imprecavano ai presenti la
fine istessa.[140] Infine il Colonna tediato si offerse all’avversario,
patteggiando per sè la Vicecancelleria col sontuoso palazzo che il
cardinale Raffaele Riario aveva fatto terminare da Bramante: così a’
19 novembre 1523 Giulio de’ Medici ottenne col nome di Clemente VII il
papato, infelicissimo a lui stesso ed alla Italia ed alla Chiesa.[141]
In Firenze per quella esaltazione si fecero feste con poca allegrezza,
la quale fu anche turbata subito da un atroce fatto. Era usanza nelle
sedi vacanti scommettere calcolando con diverse proporzioni quanto
fosse probabile il caso all’uno o all’altro cardinale di essere
papa. Un Piero Orlandini aveva scommesso che il Medici non sarebbe;
e chiamato a pagare i cento scudi i quali erano la sua posta, disse
che voleva prima vedere se la elezione, attesa la nascita illegittima
di Giulio, fosse tenuta valida; talchè il vincitore per essere pagato
andò agli Otto, e questi giudicando tali dubbi non essere da lasciarsi
correre, chiamato a sè l’Orlandini, gli fecero senz’altro discorso la
sera stessa mozzare la testa. In quel giudizio un Antonio Bonsi dottore
di leggi, ch’era degli Otto, solo aveva dato scopertamente la fava
bianca; del che andò in Roma a giustificarsi presso il Papa: questi,
per levarlo di Firenze, lo ritenne presso di sè, avendogli conferito un
vescovado e quindi altri uffici di conto. Agli avversari di Clemente
parevano queste tutte essere simulazioni; ma vero è poi che in così
fare seguiva l’antico suo costume, avendone forti ragioni in quel
giudizio che si era dovuto fare egli stesso della città.
Quivi era in odio sopra ogni cosa la tirannia dei pochi; ed il favore
che in molti uomini sparsamente si aveva acquistato la Casa dei Medici
con quelle sue arti di semiregia popolarità, formava la principale
forza di quella famiglia. I suoi più ardenti seguaci temeva, perchè non
erano veramente suoi, bramosi molti di soddisfare private vendette;
intantochè altri, ed erano questi i più autorevoli e qualificati,
cercavano imporsi ai Medici, usando per sè il governo sotto al nome
d’un Papa lontano, e pronti a volgersi dove conseguissero il fine
loro ultimo, che era di farsi grandi e ricchi. Sogno di molti sarebbe
stato ridurre Firenze sotto un governo di Ottimati; ma qui era troppo
alto il livello popolare, perchè fosse luogo a un altro grado che
lo sopravanzasse; nè le differenze potevano essere ben distinte
qui, dove i nobili non avevano in mano le armi, nè come a Venezia il
comando delle navi: aggiugni poi l’essere divisi tra loro e in vario
modo pregiudicati, da non si potere insieme comporre a forma stabile
di repubblica. Di qui avveniva che in mezzo alle opinioni mal ferme
dei molti fosse da scegliere tra due partiti; o dare ai Medici senza
mistura il principato, ovvero al popolo restituire nei modi antichi
la libertà: se non che al primo si opponeva, mancare i Medici di
una soldatesca loro; ed al secondo, essere nel popolo venuta meno
la sua forza vera, o direi quasi la sua milizia, la quale consiste
nella prontezza all’operare uniti in fascio da un sentir comune,
persuasi che il bene pubblico e privato facciano insieme una cosa
sola. Erano andati da Firenze ambasciatori al nuovo Papa, com’era
usanza, ai quali Clemente, avendoli un giorno congregati intorno
a sè, richiese dicesse ciascuno liberamente il suo parere circa lo
Stato della città. Il maggior numero, che era degli sviscerati, lo
supplicavano non abbandonasse i suoi devoti e dèsse loro un capo di
sua famiglia; osarono altri dare consigli di libertà, magnificando
l’eterna gratitudine e la gloria che a lui ne verrebbe. Di tali parole
si proferivano dagli aderenti di Casa Medici, e alle volte il Papa
stesso pareva inclinare verso quel partito, secondo che avesse sulle
varietà delle alleanze o delle guerre più da sperare dai Fiorentini o
più da temere: si trova inclusive che fosse disceso fino ad ammettere
la riapertura del Consiglio grande.
Promovitore presso a lui delle più libere opinioni era sempre Iacopo
Salviati, che stava in Roma insieme alla moglie madonna Lucrezia, sola
rimasta viva dei figli di Lorenzo de’ Medici ed ultimo avanzo di quella
famiglia che era tanto numerosa, e tanto lieta di alte speranze, quel
giorno in cui Leone fu assunto al papato.[142] I figli di Lucrezia
e delle due sorelle morte, Giovanni Salviati, Niccolò Ridolfi e
Innocenzio Cibo, furono in età giovane innalzati al cardinalato.
Questi poi furono adoprati da Clemente, di già essendosi alienate da
Casa Medici le altre famiglie che seco avevano parentela, com’erano i
Pazzi e i Rucellai. Un assai stretto congiunto di quella Casa, Filippo
Strozzi, perchè era uomo da potersi anche da sè levare in alto, dava
sospetti così a Leone come a Clemente che lo avevano sempre accosto.
Marito a una figlia di Piero dei Medici, e in età giovane capo di
una casa ricca e magnifica oltremodo, viveva da principe; ingegno
franco e variamente colto, di grande ambizione, di grande maneggio,
scopertamente licenzioso nella vita e nei pensieri, sapeva in età
corrotta rendersi universalmente grato, perchè nei vizi e nelle virtù
ogni cosa eragli come naturale: la moglie Clarice, cresciuta nelle
alterezze della madre Alfonsina degli Orsini, vedeva di poco buon grado
la Casa de’ Medici cadere in bastardi. Aveva la sorte dato a questa
Casa un uomo capace a innalzarla con la prodezza nelle armi, che agli
altri era mancata sempre: Giovanni dei Medici in età giovanissima non
aveva chi lo agguagliasse come soldato nè come capitano, sempre innanzi
a tutti nelle battaglie; e col sangue degli Sforza, che ebbe dalla
madre, avendo in sè come naturale l’arte della guerra, lo seguitavano
con amore e fede incredibile i più audaci nelle armi, nè si vedeva a
quale altezza non potesse egli salire, qualora avessero gli anni in lui
mitigata una ferocia tutta soldatesca. Clemente amava poco e cercava
tenersi lontano questo suo congiunto uscito dal ramo collaterale di
quei Medici, i quali abbiamo veduti mutare l’antico cognome in quello
di Popolani; mai non avrebbe voluto in essi trasferire la grandezza
della Casa, e solo com’era rimasto, e avendo necessità d’un erede, andò
a cercarlo con poco suo decoro, non aiutato nè dalla prudenza nè dalla
fortuna che a lui parvero mancar sempre.
Due giovinetti erano tenuti come di Casa Medici, nonostantechè
d’entrambi fosse la nascita poco certa. Ippolito, in età forse di
sedici anni, passava per figlio del morto Giuliano, avuto da una
gentildonna pesarese; Giuliano istesso, che lo teneva in casa sua,
diceva però dubitare non fosse opera di un suo rivale. Raccolto poi
e avuto caro da papa Leone, cresceva bello della persona, grazioso di
modi e nelle lettere ingegnoso; Goro Gheri avea consigliato dopo alla
morte di Lorenzo mandare Ippolito a Firenze, e sopra di lui fondare
la grandezza della famiglia. Era pensiero anche di Clemente, ma questi
però aveva pure da provvedere a un altro bastardo, a cui vedemmo nella
Capitolazione con Carlo V promesso uno Stato nel Reame, che fu il
ducato di città di Penne.[143] Aveva questi nome Alessandro, minore
all’altro di due anni, ed era nato da una schiava mora o mulatta,
mentre Lorenzo e Giulio vivevano in protezione dei Duchi di Urbino.
Lorenzo aveva per suo quel fanciullo che fiero e robusto riteneva della
madre la pelle scura, le labbra grosse e i capelli crespi. Clemente
nei primi tempi del pontificato mandava Ippolito a Firenze, dove
egli viveva civilmente nel palazzo dei Medici sotto alla tutela d’un
confidente della casa: l’anno dipoi veniva pure Alessandro, che fu
mandato a stare nella villa del Poggio a Caiano. Il cardinale Silvio
Passerini teneva il governo della città; uomo di poca mente, di modi
aspri, e male accetto ai Fiorentini.[144]
Quando Clemente divenne papa trovò la guerra tra Francia e Spagna
essersi rianimata in Lombardia, dove i primi successi aveano condotto
l’ammiraglio Bonnivet fino alle porte di Milano. Qui era il vecchio
Prospero Colonna infermo, che bentosto venne a morte, ma illustrò gli
ultimi suoi giorni rialzando la fortuna delle armi spagnole per via di
una bene sostenuta guerra di difesa, nella quale era egli eccellente.
Carlo V, benchè lontano, sapeva imprimere nelle cose una fermezza che
mai non era nel governo del suo nemico, nè si creava i generali per
favori di Corte o di donne; ebbe in Italia capitani insigni, Antonio
da Leyva ed il Marchese di Pescara, nato di gente spagnola ma divenuta
oramai napoletana: molto autorevole presso a Carlo era il Signore di
Lannoy fiammingo, vicerè di Napoli. Una crudel guerra di piccoli fatti
conduceva. infine i Francesi a evacuare la Lombardia; mancò la scienza
militare a quella nazione che tutte vinceva per valentìa: moriva in
mezzo a quelle distrette Francesco Baiardo, esempio nobile di soldato
virtuoso, nè io del suo nome vorrei fraudare l’Istoria nostra. Intanto
l’inverno correva terribile ai vincitori come ai vinti; sopravvenne
la peste, e mieteva oltre ai soldati gli abitatori miseri e affranti
ed affamati di quelle Provincie: Antonio da Leyva, spietatamente
devoto alla causa del suo Re, vessava la ricca Milano con crudelissime
estorsioni.[145]
A questo tempo già gli Spagnoli con l’avere tante volte respinti
d’Italia quei brevi impeti dei Francesi, parevano qui essere divenuti
come inevitabili. E già la guerra che Leone aveva mossa e pagata,
era grandissimo peso a Clemente che si sentiva del tutto inabile
a fermarla. Il Duca di Sessa gli andava mostrando che egli era
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