Storia della Repubblica di Firenze v. 3/3 - 19

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Morone, che nella varia sua vita dopo avere tradito molti, fermatosi
nella ubbidienza dell’Imperatore ed ora del Papa, serviva a questo con
grande passione, come infaticabile che egli era ed atto a ogni cosa.
Per quella morte parve a Clemente di avere fatto una grave perdita, ed
ai Fiorentini parve non lieve guadagno.
Ma questi aveano poco innanzi perduto il castello della Lastra a Signa,
luogo importante per la vicinanza e perchè posto sulla strada verso
Pisa, la quale però infino al tempo dei padri nostri, non bene essendo
aperto il passo della Golfolina, saliva su’ poggi dov’è Malmantile. Di
già incominciava a comparire nel Mugello la testa del nuovo esercito
che di Lombardia scendeva tostochè si furono i Turchi levati d’intorno
a Vienna: erano poco meno che ottomila tra Spagnoli, Tedeschi e
Italiani, che tutti spargendosi nel piano e pei colli prossimi alla
città, pervenne l’assedio a cingerla da ogni banda, che prima non era
se non dalla parte sinistra dell’Arno. Portavano seco venticinque pezzi
d’artiglieria grossa, che molto indugiarono a passare nel cuore del
verno le strade pei monti da Bologna sino a Firenze; quivi intanto
si radunavano a gran fretta grasce e vettovaglie quante potessero
maggiormente. Da prima si era nei Consigli fatto proposito di tenere
Pistoia e Prato, d’onde a molti parve gravissimo errore averle dipoi
abbandonate; il che avvenne a questo modo. Erano in Pistoia, come si
è veduto, da oltre a due secoli ferocissime le parti dei Panciatichi
e dei Cancellieri; stava la prima ora per le Palle, l’altra per
Marzocco. In Firenze erano ritenuti ostaggi di ambe le parti: mandavano
a Pistoia Commissari, spesso eleggendo lì ed altrove (come accade
dove gli elettori sono in troppo gran numero) uomini contro dei quali
non fossero accuse nè sospetti, ma nemmeno prove di sufficienza. Un
Bracciolini di parte Panciatica, la prima volta che in Consiglio ebbe
a conoscere la pochezza del Commissario Agostino Dini, levato rumore,
prima uccise per le scale un suo nemico di Casa dei Tonti, poi altri
diciotto della parte Cancelliera. Aveva Clemente da Bologna mandato a
Pistoia uno dei Cellesi con gran numero di fanti, pei quali la terra
perduta affatto dai Fiorentini pervenne in sue mani. Con la medesima
imprudenza fu Prato abbandonata nè saputa mai recuperare. Pietrasanta
con la sua Rôcca e con quella di Mutrone male difese e pel timore del
sacco, mandarono in Lucca cercando qualcuno a cui darsi; e vi andò
Palla Rucellai, che ne pigliò il possesso nel nome del Papa.[204]
Era in Empoli Commissario Francesco Ferrucci, nel quale siccome può
dirsi che fosse d’allora in poi tutta la difesa della città di Firenze,
così è notabile che innanzi quel tempo, o nulla sappiamo di lui, o ciò
solo che non era uscito dal comun livello, ed ebbe fino ai quarant’anni
oscura la vita: ma pare vi sieno degli uomini nati a essere Capitani,
che se ne stanno perchè incapaci di farsi innanzi con la pazienza del
soldato. Il Ferrucci era di antica gente e buona cittadinanza, che
aveva spesso goduto in Firenze i sommi uffici. Attese alla mercatura
per necessità di vita, ma come se fosse (il che non appare) vissuto
a lungo nella milizia, aveva costumi rissosi e maneschi; di scarsa
coltura, leggeva tradotte le storie antiche, e uomo solitario, fermava
il pensiero nei fatti di guerra. Di questa ebbe egli esperienza
quando Gian Battista Soderini lo menò seco sotto Napoli dove andava
ambasciatore presso a Lautrech: tenendolo appresso di sè, lo aveva
fatto pagatore delle genti mandate da Firenze a quella impresa: erano
in gran parte delle antiche Bande Nere; ed il Ferrucci, com’era suo
genio, esercitandosi nella guerra, cadde prigioniero. Finita poi questa
e morto il Soderini, Donato Giannotti, ch’era Segretario dei Dieci,
metteva innanzi Francesco Ferrucci come uomo da farne capitale. Così
andò Commissario a Prato, ma insieme ad uno antico cittadino che voleva
fare da sè ogni cosa e nulla sapeva: di questo s’accorsero i Dieci, e
mandarono il Ferrucci in Empoli con balìa piena ed assoluta in tutte le
cose che importassero alla guerra.[205]
Il Ferrucci arrivato in Empoli, attese a maggiormente fortificare
quel castello e a munirlo d’ogni sorta di provvigioni, da non poter
essere sforzato dentro, e così avere le mani più libere contro al
nemico; nel che era egli vigilantissimo. Una volta fece tornare
all’ubbidienza Castel Fiorentino, del quale gli uomini si erano
ribellati a istigazione di certi giovani, i quali andavano per quelle
contrade dicendosi Commissari del Papa; e Girolamo Morone tantochè
visse era infaticabile in tali maneggi. Per questo fatto pigliò il
Ferruccio maggiore animo; e da Pisa gli rispondeva bene Ceccotto
Tosinghi, antico soldato fiorentino di antica famiglia, insieme facendo
prede all’intorno di bestiame e di soldati prigionieri. Ma il Ferruccio
non appena ebbe dai Dieci l’aggiunta di un altro centinaio d’uomini a
cavallo, di subito una mattina di buon’ora conducendo seco guastatori e
artiglierie e strumenti da espugnare terre, andò all’assalto di quella
di San Miniato, dove gli Spagnoli appena giunti avevano messo dugento
soldati. Il Commissario fu il primo a porre ed a salire le scale, e
combatteva insieme agli altri, facendo passare a fil di spada oltre ai
soldati, anche molti uomini della terra, che a lui avevano resistito;
imperocchè San Miniato, anticamente soprannominato dal Tedesco che vi
risedeva, non fu mai gran fatto amico a Marzocco. Al quale terrore, ma
non però senza battaglia, cedette nel giorno stesso anche la rôcca,
salve le robe e le persone: già i soldati correvano la terra facendo
sacco, ma il Commissario fece restituire la roba, e sotto pena della
forca salvò alle donne l’onore. Più tardi, con una marcia rapidissima
di notte, colse tra Palaia e Montopoli una banda numerosa di Spagnoli,
che fu distrutta rimanendo in mano sua cinque dei loro Capitani ed
altri essendo uccisi. Per questi fatti già era il nome del Ferrucci
mirabile a molti, e segno d’invidia.[206]
Finiva con l’anno il gonfalonierato di Francesco Carducci, ed era
decretato che il Gonfaloniere nuovo appena eletto andasse a stare in
Palazzo ed assistesse a tutti i Consigli, ma senza dar voto. Poteva il
Carducci con buone ragioni sperare d’esser rieletto, come colui che
si era mostrato uomo di governo e uomo di parte, nemico ai Medici,
schietto popolano per tutto l’abito della vita; nè altri aveva più
efficacemente promosso la guerra. Ma uomo nuovo, era senza seguito e
senza clientele, tenuto a vile dai potenti, temuto dagli uomini mezzani
e pacifici; a molti del popolo pareva esser egli salito tropp’alto.
Quando si venne a trattare della elezione, aveva il Carducci con
maggior sincerità che accortezza designato apertamente sè stesso in
un’arringa da lui recitata nel grande Consiglio, così scatenando vie
più le invidie. Fu eletto in sua vece Raffaello Girolami, al quale
aveva dato grande favore l’essere egli solo dei quattro Ambasciatori
tornato da Genova in Firenze, dove riaccese le buone speranze: uomo
d’antichissima famiglia che si diceva essere quella del Santo Zanobi,
destro, vario, intramettente ed oggi tutto cosa del popolo; ma in lui
concorsero i voti ancora d’alcuni Medicei che ricordavano essere egli
stato insieme con essi alla cacciata del Soderini, e lo credevano uomo
di non troppo difficile composizione.
Entrò il fatale anno 1530, nei primi giorni del quale il Gonfaloniere
nuovo radunato il Consiglio grande, dopo i consueti ringraziamenti,
espose cercarsi in nome del Papa un qualche termine d’accomodamento,
al quale effetto era in Firenze Rodolfo Pio vescovo di Carpi che
stava in casa di Malatesta e trattava seco di consentimento dei Dieci;
interrogò il Consiglio, principe sovrano della Città, se a lui piacesse
di mandare al Papa oratori. Divisi i pareri, fu grande la confusione;
parole veementi si pronunziarono, e fra tutte notabili in favore
dell’invio quelle di Filippo del Migliore, lo stesso che aveva prima
posto in salvo la Libreria dei Medici, alla quale nessuno più era che
badasse. Ristretti, secondo l’usanza, ciascuno nei suoi Gonfaloni e
nei Collegi, fu a quel modo tra pochi più aspro il contendere e più
lungo; stava talvolta il figlio contro al padre ed un fratello contro
all’altro. Si venne a raccogliere i voti, e di 1300 che erano radunati,
sommando insieme le deliberazioni dei vari Gonfaloni e dei Collegi,
intorno a mille furono per l’invio al Papa, che soli trecento avevano
negato. Potè sugli animi forse lo spavento dei nuovi soldati che tratto
tratto Cesare inviava e la penuria del danaro e il caro dei viveri
e i presagi disperati di chiunque si mettesse a ragionare. Lo stesso
Girolami lasciava le vie aperte a un accordo; ma in molti di quelli che
lo avevano votato era un sentire a cui la prudenza pareva vergogna,
e dentro sè incerti, in Piazza stavano co’ più arditi, laonde fecero
che la deliberazione presa avesse a rimanere inefficace. Andarono due
Ambasciatori e un sottoambasciatore, ma senza mandato, e solo a udire
la mente del Papa ancora una volta, prima si partisse da Bologna. Qui
era un diverso ordine d’uomini ed altri pensieri; muovevano a riso
quegli inutili ambasciatori, e quando interrogati da Clemente che
cosa volessero, tre cose dissero: la conservazione del dominio, la
libertà di Firenze e il mantenimento dei presenti Ordini popolari;
questi rispose, che in quanto al dominio aveva egli più di loro brama
d’accrescerlo, che una vera libertà darebbe quanta essi nemmeno sapeano
pensare, ma circa poi al Governo popolare non ebbe parole bastanti a
dannarlo come servitù di tutti, vituperando quello che si faceva contro
a lui personalmente e contro alla Chiesa e ad ogni giustizia. Così
tornarono gli Ambasciatori; e in quanto al voto del Gran Consiglio,
senza cassarlo, fu annullato dichiarando quella essere stata solo
una Pratica o Consultazione dove nulla si era potuto in via formale
deliberare.[207]
Allora si fecero leggi crudeli perchè chi avesse votato l’accordo
pagasse la guerra. Contro ai ribelli si procedeva spietatamente per
annullare non che ogni contratto simulato, ma qualunque azione la quale
per forza di legge potesse in nome loro esercitarsi sopra i loro beni
che andavano al fisco; pena la morte a chi presentasse di tali azioni,
con multe e gastighi a quel giudice che non lo avesse condannato dentro
due giorni. Per tutti quei mesi la città aveva spesa incredibile di
soldati e di capitani. Nè il buon volere dei molti bastava, se gli
altri non fossero costretti per via d’arbitrii, come la necessità
stringeva e a sfogo di parte. Sottili trovati servivano alle forzate
vendite di quella gran massa di beni che si era messa sul mercato; al
quale fine inventarono anche certa lotteria per gli averi dei ribelli
a un ducato per polizza, che buttò assai dentro pochi giorni, per
togliere con la fretta i sospetti della frode. Mandarono alla Zecca
tutti gli ori e gli argenti non coniati che si trovarono nelle case di
chiunque abitasse in Firenze, eccetto i soldati, e quelli ancora dei
luoghi sacri, lasciatine solo i più necessari. Tolsero quindi e per via
d’esperti gioiellieri venderono tutte le gioie ch’erano intorno alla
Croce d’oro del tempio di San Giovanni e quelle di una mitra donata
da papa Leone al Capitolo di Santa Maria del Fiore: il ritratto tra
ogni cosa furono cinquanta tre mila ducati, dei quali batterono monete
d’argento che da uno dei lati avevano il Giglio e dall’altro la Croce
con una corona di spine.
Tali spogliazioni, non che la vendita d’una parte dei beni
ecclesiastici, ed altre offese contro al Papa, si facevano a quel tempo
senza rispetto, benchè il popolo di Firenze, religiosissimo sempre
ed allora più che mai per l’educazione di Frate Girolamo, sperasse
molto negli aiuti divini e nelle solenni preci, e in una liberazione
prodigiosa che a lui promettevano alcuni Predicatori, massime di San
Marco. Era fra questi un Fra Bartolommeo da Faenza savio e virtuoso,
e un Fra Zaccaria; ma sopra gli altri Fra Benedetto da Foiano, che in
sè aveva tutte le doti richieste ad un oratore popolare, non senza una
dose di vanità o d’ambizione poi gastigata troppo crudelmente. Mostra
il linguaggio dei Cronisti come questo popolo quanto era più acceso
di fede ardita e speranzosa andasse franco nel vilipendere Papa e
Cardinali senza alcun ritegno:[208] furono un giorno messi in accusa
Clemente e i quattro Cardinali fiorentini che seco erano in Bologna,
per una sorta di delazione segreta che appellavano tamburazione; vinse
a mala pena la prudenza di soprassedere prima di portare i nomi dei
cinque avanti al giudizio della Quarantia. Nè mancò pure chi proponesse
atterrare il Palazzo Medici nella Via Larga, e farvi una piazza
la quale avesse nome di Piazza dei Muli. Ma se nella infima plebe
un Pieruccio con la scempiezza delle parole, che a taluni parevano
misteriose, faceva che dietro molti gli corressero come a profeta di
buoni eventi; un altro anch’egli piacevole mentecatto, di soprannome
il Carafulla, stava pei Medici. Questa parte comprendeva molti cauti
e timorati e sempre devoti al nome del Papa: una Suor Domenica del
Paradiso (così appellata dal nome del luogo dove nacque nel piano di
Ripoli), era in molta stima tra gli uomini pii come buona e avveduta e
ben parlante; la quale stima poi mantenne sotto il Principato per avere
essa consigliato sempre l’accordo col Papa.[209]
Era nel monastero delle Murate la Caterina dei Medici, figlia di
Lorenzo che fu duca d’Urbino, onde la chiamavano la Duchessina. Aveva
allora undici anni, e per la nascita e per una entrata che aveva di
dieci mila ducati all’anno, molti disegni si erano fatti sul conto
suo: il re Francesco cercava d’averla in custodia come sua parente dal
lato di madre; il Papa faceva la restituzione della Duchessina primo
articolo d’ogni accordo co’ Fiorentini, i quali tanto più si studiavano
ritenerla e bene guardarla. Dalla età prima fu essa palleggiata dalle
ambizioni altrui o dalle passioni civili; il che divenne a lei forse
poi scuola di regno, che buona non era. Nel monastero la sua presenza
fomentava la divisione che era entrata fin tra le monache; si pregava
per il Papa, e si pregava contro di lui per la libertà. Credette la
Signoria essere prudente cosa trasferirla dalle Murate nel monastero
Domenicano di Santa Lucia, dov’era stata altra volta; e a questo fine
andò alle Murate Silvestro Aldobrandini, uomo atto a ogni cosa e pronto
a ogni cosa: dopo qualche indugio Caterina venne al parlatorio in mezzo
a due monache, vestita da monaca, e protestando volere essa rimanere in
quel santo luogo e ivi consacrarsi. Tornò Silvestro il giorno dopo, e
condusse via la fanciulla che piangeva temendo la volessero ammazzare;
ma dipoi stette tranquilla nel nuovo ricovero, sebbene proposte crudeli
e infami si facessero contro a lei da taluni di quella schiuma che
sempre galleggia nei moti civili. Fu detto che il Principe d’Orange
avesse un qualche disegno di sposare egli la Duchessina, caso che il
Papa morisse o fosse abbandonato da Carlo V per la lunga resistenza
dei Fiorentini: certo è che l’Orange nei suoi discorsi diceva, che la
ragione stava dal lato di questi, ma che egli soldato dell’Imperatore
ubbidirebbe al suo giuramento.[210]
Malatesta Baglioni cercava da qualche tempo con grande istanza d’essere
fatto Capitano generale e che gli fosse dato il bastone: al che sebbene
molti sentissero certa repugnanza, non era motivo di contrastare in
modo espresso; talchè negli Ottanta trovò il partito assai favore,
venendosi poi con molto solenne cerimonia a conferirgli quel grado
supremo. Era il Baglioni oltre che astutissimo, che sapeva co’ discorsi
andare a versi di tutti, verace in questo che egli faceva di quella
guerra un retto giudizio, conforme a quello del maggior numero dei
prudenti, come si è più volte potuto vedere: gli stessi più duri e
più ostinati avevano fede nella scienza di guerra ch’era in lui non
poca, senza per allora espresso motivo di averlo in sospetto. Diceva
aperto, che la città si difenderebbe, ma che venire a un qualche onesto
accordo sarebbe stato buon consiglio; mandare in lungo la difesa non
era per anche vincere la guerra, essendo al tutto speranza vana rompere
il Campo dei nemici, munito com’era con ogni artifizio e in luogo
fortissimo e con buoni capitani e vecchi soldati da non si lasciare
sorprendere mai; tentare un assalto e avere la peggio avrebbe aperto
Firenze al saccheggio, cui tanto anelavano stranieri soldati; la stessa
vittoria sul campo nemico, se gli assediati una volta l’ottenessero,
verrebbe in fine dei conti allo stesso, perchè in tal caso l’Imperatore
non se ne starebbe dal vendicare con altre genti sulla città di Firenze
l’offeso onor suo. Tuttociò era vero; ma come nell’animo di quanti
credevano in Firenze le cose medesime stava il ritorno inevitabile
della Casa Medici; così nel consiglio di Malatesta era un aderire
nel fatto ai pensieri che più giovavano a Clemente e il Capitano
dei Fiorentini si trovava essere un uomo del Papa; senza contare la
dipendenza in che lo metteva personalmente il volersi mantenere lo
stato in Perugia. Queste cose erano fino da principio; e che tra ’l
Baglioni e i messi del Papa non fossero dette, che non fossero discorse
tra lui e un uomo di tale importanza qual era il vescovo Rodolfo
Pio, lo creda chi può. Infino all’ultimo dell’Assedio fece Malatesta
quanto egli doveva perchè i nemici per via d’assalto non entrassero in
Firenze; il che non voleva nemmeno Clemente: ma questi contava sopra
Malatesta per avere o prima o poi la città per via d’accordo e senza
saccheggio; e ciò era il voto supremo del Papa.
Tradire Firenze con farvi entrare gli assedianti sarebbe poi sempre
stato impedito dalla milizia cittadina, la quale faceva con volontà
forte la guardia interna della città. Era stata riordinata e ricomposta
nella fine dell’anno; discorsi vani erano stati pronunziati in
cerimonia dal solito Bartolommeo Cavalcanti. Ma in questa nuova milizia
scesero fino ad un maggior numero d’artefici, e in quella descrissero
altresì con buoni ordini e cautele gli uomini del contado che in numero
di settemila si ritrovavano in Firenze;[211] nè fu da meno della prima,
perchè in lei stava quel popolo vero il quale ogni volta si trovasse
unito ed armato, voleva difendersi e altro non udiva. Stefano Colonna
la comandava con fede di soldato; ma egli diceva essere uomo del Re di
Francia al quale ubbidiva, nè di governo s’impacciava. Dalle due parti
nei primi quattro mesi di quell’anno quasi ogni giorno si combatteva;
non che l’Orange tentasse mai sul serio un assalto contro alla città,
ma con le artiglierie cercava buttar giù le torri e le opere di difesa,
senza contare le scaramuccie le quali nascevano dall’incontrarsi le
squadre nemiche, secondo i disegni che ognuna avesse delle due parti.
Anguillotto da Pisa, capitano di molto valore, passato dal campo
nemico sotto alla bandiera di Marzocco, diede occasione forse alla
più fiera di queste battaglie, essendo incredibile nel Conte di San
Secondo, del quale Anguillotto era fuggitivo, e nello stesso Principe
d’Orange la smania d’ucciderlo: il che alla fine venne loro fatto non
senza fatica, e con la morte di assai gente, presso a San Gervasio.
Tre altri Capitani (che due degli Orsini) aveano all’incontro condotto
fuori della città con tradimento trecento soldati perchè si unissero ai
nemici: ma questi tornarono la maggior parte, e i traditori, secondo
l’usanza, furono dipinti appesi alle forche col capo all’ingiù, dal
principe della Scuola toscana, Andrea del Sarto. Un altro Orsino,
l’Abate di Farfa, si era messo a favorire gli Imperiali, intanto
che un figlio di Renzo da Ceri di quella famiglia pigliava soldo co’
Fiorentini; essendo allora quell’assedio, comune ritrovo ai capitani
mercenari, poichè era mancato l’esercizio di quell’arte nel resto
d’Italia. Più spesso avveniva che gli assediati uscendo a foraggiare
s’incontrassero col nemico: non era in Firenze grande per anche la
carestia, sebbene mancasse il companatico e un asino si mangiasse come
cosa rara per farne convito il giorno di Pasqua. Ma spesso entravano
in città bestiami e altri soccorsi; Francesco Ferrucci mandava da
Empoli buoi e salnitro, che in Firenze si cercava con grande paura non
venisse meno. La città era piena di allegro coraggio, tanto che nel
Carnevale non vollero fosse omesso l’antico gioco del Calcio, del quale
diedero un simulacro, com’era usanza, sulla piazza di Santa Croce, che
fu salutato, ma senza danno, dalle artiglierie nemiche. Nè mancavano
le sfide da un Campo all’altro, da una delle quali uscì con vantaggio
contro a un cavaliere tedesco Iacopo Bichi, soldato valorosissimo dei
Fiorentini.
Un’altra disfida solenne fra tutte ottenne per l’opera degli scrittori
durevole fama sino ai giorni nostri, come avvenne spesso di fatti
anche piccoli in questa storia di Firenze. Lodovico Martelli, giovane
di gran cuore, mandò un cartello a Giovanni Bandini come a traditore
della patria, perchè stava nel campo nemico; e se cercò lui, fu
detto essere perchè il Bandini aveva usato parole di spregio contro
alla milizia fiorentina: ma era tra loro cagione d’odio più segreto
l’amore che entrambi portavano a una gentildonna fiorentina, Manetta
de’ Ricci, moglie di Niccolò Benintendi. Giovanni, che a molto valore
accoppiava grande accortezza, era più avanti nell’animo della piacente
donna. La sfida fu accettata, con che ciascuno dei due avesse seco un
compagno; al che il Martelli elesse Dante da Castiglione, la più famosa
spada che fosse in Firenze: il Bandini menò seco Bertino Aldobrandi,
giovanetto di valore temerario. Doveva il Principe d’Orange tenere il
campo e avere la guardia dello steccato, che fu costrutto sul poggio
dei Baroncelli. Uscirono al giorno dato i due nostri dalla città con
pompa grandissima e con quello sfoggio di prodezza di cui potesse
chiamarsi pago l’onor militare, combattendo i quattro campioni in
vesti leggiere senz’alcuna arme di difesa. Fu lungo lo scontro come
tra valorosi; ma infine Dante, dopo avute più ferite dall’Aldobrandi,
gliene diede una per cui dovette il giovane arrendersi e morì nella
seguente notte. Contro al Martelli era il Bandini, ottimo schermitore,
che senza quasi ferite ne diede molte al Martelli, ed infine lo ridusse
in tal condizione che egli dovette darsi per vinto. Ebbe quell’infelice
giovane malattia lunga; una visita che gli fece la Manetta, quale
tumulto di passioni destasse nell’animo di lui non so dire: dopo molti
giorni moriva, per quello che fu creduto, più del dispiacere che delle
ferite.[212]
Fino dal gennaio aveva la Repubblica di Venezia fatto pace con
l’Imperatore; ma tuttavia Carlo Capello rimase in Firenze come oratore,
malgrado che il Papa facesse ogni sforzo perchè fosse richiamato.[213]
Ne’ suoi dispacci apparisce sempre grande amico ai Fiorentini, che da
lui sono lodati a cielo; nè alla sua Repubblica dispiaceva mostrarsi,
com’era sempre, di animo italiano; a lui però nulla rispondeva per non
s’impegnare con parole scritte delle quali altri pigliasse offesa.
Riebbe la Chiesa per quella pace Ravenna e Cervia; il che lasciava
Firenze scoperta dal lato delle Romagne, alle quali era guardia
la presenza delle armi veneziane. Ma bastò quella che fece Lorenzo
Carnesecchi, Commissario generale della Romagna fiorentina; il quale
con poca gente e meno danari, ma pel valore che era in lui molto,
gastigò prima la ribellione di Marradi, fugò in più scontri le genti
nemiche, teneva infestati i confini della Chiesa, e resistè a un grande
assalto che alle mura di Castrocaro diede ripetutamente Leonello
da Carpi, presidente della Romagna ecclesiastica, rinforzato allora
da Cesare da Napoli che venne dal Campo, e dai propri cavalli della
guardia del Papa mandati da Roma: tantochè poi si fece tra le due parti
una molto onorata tregua, per cui rimasero da quel lato frenate le
armi.[214]
Ai Fiorentini, lasciati soli, nemmeno restava la vieta speranza
d’essere una volta soccorsi da Francia; imperocchè un Signore di
Clermont, venuto a bella posta in Firenze, portò consiglio alla
Signoria di pigliar tosto qualche partito nè di aspettare più gravi
mali; offrendosi egli di farsi mediatore tra la Città e il Papa, col
quale aveva più volte discorso e che sapeva essere di buon volere.
A questo effetto andò in Bologna, dicendo sarebbe tornato subito, ma
poi non si ebbe di lui più notizia.[215] Proposte consimili recava più
tardi al Papa in Roma il Vescovo di Tarbes, del quale abbiamo una lunga
lettera al re Francesco. L’ambasciatore aveva dei suoi occhi veduto
le forze dei Fiorentini, che erano città ben fortificata, soldati che
bastavano, vettovaglie per più mesi, e il _cuore buono_ e risoluto a
mantenere la libertà loro.[216] Forte all’incontro l’esercito nemico
da non dissolversi (come a Firenze avevano sperato) dopo alla partenza
dell’Imperatore, il quale invece, contro all’usanza sua, mandò più
volte danari al Campo. A dare la battaglia non si pensava, e il lento
assedio, come era secondo la mente del Papa, così anche pareva che
all’Imperatore convenisse; al che i più accorti assegnavano questo
motivo. Quell’infelice Francesco Maria Sforza duca di Milano pareva
che fosse vicino a morte, e tutti sapevano essere proposito di Carlo
V occupare tosto quello Stato: giovava a tal fine mantenersi intanto
un esercito pronto e raccolto in vicinanza. Ma un tale indugio perchè
a Clemente portava molta difficoltà e pericoli; e al re Francesco,
ricevuti i figlioli, era buona ogni occasione a ricondurre la guerra in
Italia; l’Ambasciatore mette al Re innanzi un suo disegno, del quale
aveva già tenuto discorso col Papa. Fatti persuasi prima i Fiorentini
della convenienza d’un onesto accordo sotto all’ombra di Francia,
bastava che il Re mandasse inverso questa città due migliaia di fanti,
e tosto il Papa, separando le genti sue dalle imperiali, verrebbe ad
occupare Firenze in unione col re Francesco, potendo disporre per la
spesa dei soldati di tutto lo Stato fiorentino ricongiunto sotto alle
sue mani. Per l’avvenire, fino d’allora si pensava al matrimonio della
piccola Caterina con un figlio del re Francesco, il quale dovesse avere
lo Stato di Milano. A tutto questo maneggio avrebbe dovuto proporsi il
conte Alberto Pio di Carpi, ch’era forse l’autore ardito ed ingegnoso
di questo alquanto fantastico disegno, come erano in Francia consueti
formarne. L’Ambasciatore promette al Re non solamente la conservazione
della città di Firenze, «che è cosa sua, ma che in Italia comanderebbe
a bacchetta in tutto e per tutto.[217]»
Ma pure da questa lettera non poche cose s’imparano, ed un’altra
parte di essa riscatta quel ch’era di vano in tali pensieri. Viveva
Clemente in grandi angustie per questo assedio che durava da oltre
sei mesi, nè ancora se ne vedeva la fine. Dell’Imperatore si teneva
certo quanto al volere egli farla in Italia finita con questo popolo
che resisteva quando i Principi ubbidivano; sapeva che il duca
Alessandro era tenuto in corte onoratamente come fidanzato alla
giovinetta Margherita. Ma Carlo V stava ora in Germania, dove molte
novità potevano attraversarsi; e le amicizie co’ Papi essendo fondate
sopra a vite brevi, cedevano facilmente al cospetto di vantaggi più
sicuri: Clemente aveva per malo indizio quel grande sparlare che si
faceva di lui nel Campo. Sentiva essere egli esposto all’odio dei suoi
stessi amici, ma non gli poteva capire nell’animo che la Città non
si desse a lui spontaneamente, ed aspettava di giorno in giorno una
sommossa: contava sul grande numero dei beneficati da Casa Medici e
degli avversi a questo governo popolare; non però aveva messo in conto
quel fascio antico della cittadinanza, di già logorato, ma che non
poteva se non dalla forza lasciarsi disfare. Stringevalo poi l’essere
affatto venuto al secco di danari e il non sapersi quanti in seguito
ne occorrerebbero; e perchè il credito gli mancava, ed erano esauste le
fonti a nutrirlo con altri proventi, gli stavano attorno perchè facesse
una creazione di Cardinali, al che aveva egli grande repugnanza; già si
diceva che ne avrebbe ad un tratto nominati fino a ventisei, dai quali
aveva le offerte in mano per cinque o seicento mila scudi. Contro ad
un tale pensiero l’Ambasciatore andò e parlò alto, non come ministro
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