Storia della Repubblica di Firenze v. 3/3 - 21

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ogni più trista cosa, i giovani stettero tutta la notte vigilantissimi
facendo la guardia alla Piazza, intantochè di là dal fiume i soldati
stavano in arme con pericolo che venute le due parti tra loro alle
mani, entrassero quelli di fuori portando l’estrema rovina. Ma niuno
del Campo si mosse: abbiamo autore credibile, che tale era l’ordine del
Principe per non essere rimasti più di quattromila; ed anzi in caso di
difficoltà, ridursi tutti nella piazza in cima del Campo, abbandonando
lì presso e all’intorno gli altri luoghi forti. Se fosse possibile
in quel giorno espugnare il Campo, noi non possiamo determinare, nè
chi era in mezzo a quelle passioni poteva con libero e sicuro animo
giudicare. Che fosse trovata addosso all’Orange una cedola di Malatesta
con la promessa di non fare alcuna mossa mentre egli era assente,
scrissero taluni, ma senza affermarlo, e noi a crederlo non abbiamo
bastanti motivi.[229]
Da più giorni prima, col mezzo di spie e di lettere intercette,
aveva il Principe saputo il disegno dei Fiorentini, e giudicandolo
di quell’importanza ch’egli era, risolvè andare egli in persona a
impedirlo, radunando contro al Ferruccio da ogni banda quelle maggiori
forze che in fretta potesse. Scrisse in Pistoia ad Alessandro Vitelli,
che facesse di avere seco certi Spagnoli ammutinati, che alloggiavano
all’Altopascio vivendo di ratto. Comandò a Fabbrizio Maramaldo che,
facendo punta da San Gemignano dove egli era, cercasse impedire il
passo al Ferrucci verso Pisa; e non gli riuscendo, gli fosse alle
spalle seguitandolo infinchè lo stesso Principe non giungesse. Il quale
avendo lasciato in suo luogo Ferrante Gonzaga, e avvisato il Conte
di Lodrone che stesse avvertito, muoveva la notte con mille Tedeschi
veterani e mille Spagnoli, che rimandò poi, ed altrettanti degli
Italiani con Giovan Battista Savello e Marzio Colonna e il Conte di San
Secondo e Monsignore Ascalino, ai quali aveva ordinato di alloggiare
in Prato la gente d’arme; ed egli seco menò trecento archibusieri
e tutti i cavalli leggeri e gli Stradioti. Passato Arno a guazzo e
avendo camminato tutta la notte, si fermò nella mattina a riposare ed a
mangiare poche miglia distante da San Marcello, dove il Ferrucci si era
condotto in quella stessa ora.
Da Pisa il Ferrucci era venuto a Pescia con tremila fanti e intorno
a quattrocento cavalli; piccolo esercito, ma ottimamente provveduto
di viveri per tre giorni e polvere e scale e ogni sorta di ferramenti
e fuochi lavorati e moschetti da campagna che stessero invece di
artiglierie: nemico il paese, in Lucca stavano il Cardinal Cibo e genti
assai del Papa. Intendimento del Ferruccio era far capo al Montale,
castello dei Cancellieri, posto allora in alto, e di là sempre per la
via dei monti condursi a Firenze. Si fermò la notte del primo agosto
in Calamecca, donde piuttostochè seguitare l’Appennino, i Cancellieri
lo fecero volgere a San Marcello; il quale, perchè era della parte
Panciatica, fu crudelmente da quelli arso e quasi disfatto. Quivi egli
fece riposare alcune ore la mattina del 3 agosto i suoi soldati; poi
gli condusse verso Gavinana, piccola terra a cui s’avviavano da un
lato Alessandro Vitelli e dall’altro lato il Maramaldo; intantochè
il Principe d’Orange, mandati prima innanzi i cavalli leggieri e gli
Stradioti, egli medesimo si avanzava per occuparla con le genti d’arme:
in tutto erano gli Imperiali da sette a otto mila, senza contare la
parte Panciatica. Dai tocchi a martello delle campane di Gavinana, e
dalla gente che fuggiva, conobbe il Ferrucci che dentro già entravano i
nemici. Entrò il Ferrucci dall’opposto lato, combattendosi lungamente
con pari ferocia da ambe le parti dentro la terra stessa, che fu più
volte presa e perduta; ed in quel mentre avendo al di fuori Alessandro
Vitelli urtato la retroguardia, che il Ferruccio aveva commesso a Gian
Paolo Orsini, fu varia la mischia finchè le due parti non si separarono
per soccorrere ciascuna i suoi. Imperocchè la cavalleria del Principe
mentre girava intorno alle mura, ebbe da quella del Ferruccio tale
percossa che dopo essersi mescolate insieme con strage grandissima,
l’Orange, veduto i suoi sbaragliati, si cacciò innanzi con impeto
di Francese dove più fioccavano le archibusate, delle quali due nel
tempo istesso lo fecero cadere a terra morto. Anche oggi i paesani
mostrano il luogo dove è il crocicchio di una stradella molto ripidosa
che sale sul monte. Avvenne che uno spagnolo uscito dalla battaglia
corse annunziando la morte del Principe e la vittoria del Ferruccio,
che fu creduta per qualche ora a Pistoia ed a Firenze, e sino in Roma
dal Papa stesso. Ma in questo mentre il Maramaldo abbattendo un muro,
già era nella terra, e mille Lanzi freschi discesi dal monte, diedero
per fianco e alla coda di quei del Ferruccio, assai ammazzandone e
facendo molti prigionieri. Il piccolo esercito, stanco e consunto
nei vari scontri, fu quasi distrutto. Lo stesso Ferrucci continuando
il combattere di sua mano, e già in più luoghi ferito, andò con Gian
Paolo a porsi dentro a un casotto dove furono attorniati e presi dagli
uomini del Maramaldo; il quale avendo comandato che il Ferruccio gli
fosse condotto innanzi sulla piazzetta di Gavinana, prima di sua mano
lo feriva nella gola, mentre questi gli diceva: «Fabrizio, tu ammazzi
un uomo morto;» poi lo diede a finire ai soldati. Così moriva Francesco
Ferrucci: vissuto fino ai quarant’anni semplice cittadino, era egli ad
un tratto divenuto grande uomo di guerra, amando del pari la libertà e
la gloria, le quali entrambe nella patria sua perirono seco. Fu egli
sotterrato nella piazza stessa lungo la chiesa di Gavinana. Giovan
Paolo Orsini si riscattò pagando quattro mila ducati di taglia; Amico
d’Arsoli, vecchio e rinomato capitano di quei del Ferrucci, fu comprato
seicento ducati da Marzio Colonna, che a sfogo scellerato d’una privata
vendetta l’uccideva di sua mano. Potè riscattarsi, tra molti, anche
uno degli Strozzi, soldato di conto, ma cui troppo bene stava il
soprannome di Cattivanza che tutti gli davano. Il corpo di Filiberto
Principe d’Orange, portato fuori penzoloni attraverso un mulo, fu messo
in deposito per essere quindi recato ai suoi. In quella battaglia, che
aveva durato dalle diciannove alle ventidue ore, si trova che il numero
dei morti e feriti andasse a duemila.[230]
La notizia della morte del Ferrucci e della rotta produsse in Firenze
un generale sgomento, di mezzo al quale molti però sempre uscivano
disperatamente a chiedere le armi, sorretti non poco dalla fede
incrollabile dei Piagnoni. La Signoria stava sempre co’ più arditi;
chiamò il giorno stesso i settantadue Capitani stipendiati che erano
in Firenze, promettendo loro se difendessero la città il soldo a vita e
altri benefizi; la quale promessa accolta con plauso, non però in essi
potè ispirare fiducia durevole. A Malatesta pareva intanto d’avere alla
fine toccato il segno: si era egli levata d’addosso la gloria importuna
del Ferrucci e dall’animo la gelosia d’un uomo che non era nemmeno
soldato; poteva ora offrire al Papa Firenze salvata dal sacco. Mandò
chi dicesse al Gonfaloniere e alla Signoria che la guerra era perduta,
e che era da porre giù l’ostinazione: Stefano Colonna, al quale il
Giannotti era andato per tentare d’indurlo a uscir fuori, rispose
non essere più tempo, e domandò licenza. Già era d’assai cresciuto il
numero di coloro che apertamente s’intendevano con Malatesta, oltre
ai Palleschi andando a lui molti di quei ricchi cittadini i quali
sognavano un Governo stretto, e si credevano volere egli condurli a
tal fine; primo dei quali era Zanobi Bartolini anticamente beneficato
da Casa Medici, e che ora cercava un Governo dove a lui come a uomo
capace toccasse una parte in qualunque modo prominente. Era egli uno
dei quattro Commissari della milizia, nel quale grado e già da un pezzo
fomentava gli andamenti di Malatesta; laonde la Pratica fece un passo
molto ardito, cassando lui co’ tre suoi compagni, uomini da poco, ed
eleggendo nei luoghi loro quattro più sicuri, dei quali era l’anima
Francesco Carducci. Il che era un rompere le fila in mano a Malatesta,
a cui aderiva in oggi il Colonna; onde il giorno stesso in nome di
questi due andarono messaggeri a don Ferrante Gonzaga, il quale, per
essere il Principe d’Orange morto e il Marchese del Vasto assente,
aveva il comando di tutto l’esercito. Questi, non appena udito il
messaggio, mandò per Baccio Valori Commissario generale del Papa, ed
insieme formarono una bozza di Capitoli, i quali portavano che la Città
rimanesse libera ancorchè il Papa vi ritornasse, e che nello spazio di
quattro mesi all’Imperatore spettasse dare forma al governo; salvo però
sempre a tali proposte il consentimento di Clemente.
Fermata la bozza, mandò Malatesta a confortare la Signoria che non
dubitasse di accettare quel partito di rimettere i Medici; perchè
opererebbe egli sì, che fosse mantenuta quella condizione di conservare
la libertà: risposero, ingiungendo a lui di combattere come era suo
obbligo. Aveva Malatesta non solamente oltrepassato ma tradito il suo
mandato, quando chiamato ad essere Capitano della Repubblica, non aveva
fatto in dieci mesi altro che sempre negoziare coll’inimico, e ora
disponeva della città come di sua roba, e di suo arbitrio ne regolava
le sorti avvenire. Ma egli esclamando, essere qui a difendere Firenze
non a distruggerla, e che non soffriva farsi autore della desolazione
d’una tanto nobile e ricca e tanto da lui amata città, diceva
pubblicamente avere proposito di chiedere buona licenza e partirsene:
al che uniformandosi il Colonna, scrissero insieme alla Signoria
con parole molto ossequiose, chiedendo licenza quando il partito di
combattere si volesse mandare ad effetto. Rispose la Signoria col dare
ad essi onorevolmente per iscritto la chiesta licenza; la quale essendo
a Malatesta recata da un Andreolo Niccolini, quegli, infermo com’era
di male francioso, gli tirò parecchie pugnalate, dopo alle quali gli
fu a stento levato di mano. In questa ira che accecava Malatesta è
tutto l’arcano delle intenzioni sue, potendo rimanere dubbio se egli
o temesse perdere il grado che lo faceva innanzi a Clemente comparire
arbitro di Firenze, o se piuttosto non vedesse cadere a terra un suo
disegno per cui la Città con l’intervento dell’Imperatore venisse ad
un qualche ragionevole componimento. Al quale effetto avrebbe egli
condotto le fila che furono rotte dalla morte dell’Orange, e forse
andavano ad un qualche più segreto pensiero di questo: certo è che in
mezzo a quei tumulti, Malatesta si fece da molti udire dicendo come tra
sè, «non essere Firenze stalla da muli, ma che l’avrebbe egli salvata
ad ogni modo.» Di questo accenno ai due bastardi di Casa Medici pensi
ognuno come più gli aggrada, e a quelle parole in apparenza tra sè
borbottate potrebbono darsi molte e molto varie spiegazioni.
Ma ciò in qualunque modo sia, Malatesta da questo punto, senza più
cercare coperta nè scusa, dovette mutare non so bene se io dica l’animo
o le apparenze. La Signoria, udita l’ingiuria a lei fatta nella persona
del Niccolini, comandò a tutti l’armarsi e andare contro alle case
di Malatesta e contro ai nemici. A questo effetto chiamò in Piazza i
Gonfaloni; ma tali erano di già il tumulto e la confusione d’ogni cosa,
tanto a un ardire male consigliato si era già in molti mescolata la
paura, che dei sedici Gonfaloni, otto soli comparvero nella Piazza.
Dentro al Palagio, Ceccotto Tosinghi dimostrò in Consiglio per la
vecchia sua esperienza militare, che nulla poteva tentarsi oramai:
per le cui parole lo stesso Gonfaloniere, che si era armato, tornò
indietro. E già Firenze pigliando aspetto di città sforzata, non si
vedeva e non si udiva più che un gridare per l’imminenza dei mali
estremi, un ricoverarsi nelle chiese, un aspettarsi l’esterminio della
sua casa ciascuno e della sua famiglia. Imperocchè Malatesta in quel
tempo aveva mandato Margutte da Perugia a rompere la Porta a San Pier
Gattolini, e a Caccia Altoviti che v’era a guardia comandato da parte
del Generale che se ne partisse; aveva già fatto entrare Pirro Colonna
dentro ai Bastioni e rivolte le artiglierie contro alla città stessa,
minacciando che metterebbe dentro gli Imperiali, se le bande della
Milizia venissero avanti.
Ma intorno a lui già molti erano accorsi o antichi Palleschi, o nuovi
e pentiti adoratori di Casa Medici, o stanchi o prudenti o paurosi; di
quelli insomma che fanno ad un tratto mutare l’aspetto alle città in
trambusto, mettendo col numero negli altri paura. Non pochi vi erano
disertori della stessa milizia e uomini già provetti in gran parte
delle famiglie maggiori e più ricche, i quali tutti insieme ed armati
si andarono a raccogliere sulla Piazza di Santo Spirito, da essi scelta
per la vicinità del nuovo alloggio di Malatesta. Figurava in capo agli
altri un Alamanno de’ Pazzi; vi erano Giovan Francesco degli Antinori
detto il Morticino, stato dei primi e dei più feroci per la libertà,
e tra gli altri molto rumoroso Pier Vettori che nelle lettere poi
acquistò fama; vi erano alcuni della famiglia e della parentela di
Niccolò Capponi, il quale non si era creduto condurre le cose a tal
fine. Giungevano essi al numero forse di quattrocento, tra loro essendo
antichi odiatori dello stato popolare e molti di quei leggiadri giovani
che sono il fiore delle città doviziose, i quali in Firenze anelavano
da cittadini salire al grado e al titolo di cavaliere, presentendo
in sè già quei tempi che hanno nome di giocondi perchè nulla è in
essi di serio e di forte. Ma questi già erano la parte che dominava:
Bernardo da Terrazzano, Commissario della milizia di quel Quartiere,
vi corse subito a pregarli tornasse ciascuno al suo Gonfalone; ma
fu ributtato con aspre parole, e fin della vita dai più temerari
minacciato. La Signoria vi mandò Rosso dei Buondelmonti, chiedendo
ciò solo che mostrando la città divisa non disturbassero gli accordi;
al quale dissero, che non conoscevano altra Signoria nè altro Signore
che Malatesta: e questi, a casa del quale era andato il Terrazzano,
alla sua volta gli disse, che stava con quei giovani e che non
conosceva altra Signoria. Bene entrambi avevano giudicato; e la libertà
Fiorentina, come se allora si fosse guardata in seno, conobbe giunta la
sua fine.
La sera medesima il Consiglio e la Pratica, radunati in fretta,
rendettero per minor male il bastone a Malatesta, e al solo Zanobi
Bartolini l’autorità del commissariato. Era il Governo già tutto in
mano di questi due; Zanobi andava chiamato in Palazzo, dove non senza
qualche difficoltà gli Ottanta crearono quattro Ambasciatori i quali
andassero nel Campo a trattare con don Ferrante e col Valori, intesi
già prima di queste cose con Malatesta: erano essi Bardo Altoviti,
Iacopo Morelli, Lorenzo Strozzi e Pier Francesco Portinari, quello
che fu ambasciatore in Roma a Clemente; i quali ebbero autorità di
capitolare con la condizione che la Città rimanesse libera e che
dei fatti di questi mesi non si tenesse memoria alcuna. In Piazza
rimanevano alcuni armati, ma i più risoluti; tra’ quali Giovacchino
Guasconi che vi condusse tutta intera la sua Compagnia, ed il Busini
che di queste cose diede minuto ragguaglio. Questi essendosi raccolti
sotto alla Ringhiera dei Signori, mentre di quelli di Santo Spirito
alcuni venivano in arme nella Piazza, poteva una zuffa tra essi
appiccarsi, e i soldati entrati dentro parteciparvi con grave pericolo
della città. Nulla però avvenne; ed al tornare dei Commissari con la
Capitolazione, già era in Firenze Baccio Valori divenuto con Malatesta
signore ed arbitro d’ogni cosa.
I Capitoli furono questi: «In primis: Che la forma del Governo abbia da
ordinarsi e stabilirsi dalla Maestà Cesarea fra quattro mesi prossimi
avvenire, intendendosi sempre che sia conservata la libertà; che i
sostenuti dentro Firenze o in altre parti del Dominio per amicizia
con la Casa dei Medici, si abbiano immediatamente a liberare, e
i fuorusciti e banditi sieno _ipso facto_ restituiti alla patria
e beni loro; che la città paghi all’Esercito ottanta mila scudi a
brevi scadenze; che sieno dati in potere di don Ferrante, per sicurtà
dei pagamenti da farsi, quelle persone che saranno nominate da lui
medesimo fino al numero di cinquanta o di quel manco che piacesse alla
Santità di Nostro Signore; e che le fortezze di tutto il dominio sieno
ridotte in potere del Governo che si avrà a stabilire da Sua Maestà;
che il signor Malatesta ed il signor Stefano Colonna, rinunziato il
loro impegno con la Città, giurino in mano del Commissario Cesareo di
restare con quelle genti che a loro Signorie parranno nella città,
infino a che siano adempiute tutte le presenti convenzioni dentro
al termine de’ quattro mesi soprascritti; che qualunque cittadino
fiorentino, di che grado o condizione si sia, volendo, possa andare
ad abitare a Roma o in qualsivoglia luogo liberamente e senza esser
molestato in conto alcuno, nè in roba nè in persona; che tutto il
Dominio e Terre acquistate dal felicissimo esercito abbiano a tornare
in potere della Città di Firenze; che l’Esercito, pagato che sia, abbia
ad uscire dal Dominio al possibile dentro il termine di otto giorni;
che sia fatta generale remissione di tutte le pene, e che dal canto
di Nostro Signore e suoi parenti ed amici sieno dimenticate tutte le
ingiurie ricevute da qualsivoglia cittadino, usando con loro come buoni
cittadini e fratelli; del che personalmente fanno promessa don Ferrante
Gonzaga per conto dell’Imperatore, e Bartolommeo Valori per conto del
Pontefice; che sotto la stessa promessa, ai sudditi e vassalli di Sua
Maestà o della Santità Sua che si fossero fatti rei di disobbedienza
per avere portato le armi contro ai loro Signori, sia fatta generale
remissione e restituzione dei beni e della patria loro.» Queste cose
furono stipulate nel Campo Cesareo ai 12 agosto; ma quanto valessero
accordi siffatti, ben tosto si vidde.[231]


CAPITOLO XI.
FINE DELLA REPUBBLICA. [AN. 1530-1532.] FIRENZE DOPO LA REPUBBLICA.

Ma fino all’ultimo la Città mantenne almeno il suo onore, avendo nel
nome del Papa e di Cesare avuto promessa di rimanere libera e signora
nell’antico dominio, e che i Medici non vi entrassero come vincitori.
Le quali cose ai loro amici dispiacquero; e parve il danaro scarso,
e quell’arbitrio dato a Carlo V riusciva sospetto. Ma dentro Firenze
già erano i soldati; per le strade i Côrsi di Malatesta, ai quali era
prima vietato mostrarsi, facevano guardia la notte, nè alcuno della
città ardiva uscire di casa. Non erano ancora tornati dal Campo gli
Ambasciatori, che una mano di quelli da Santo Spirito venuti in Piazza,
comandarono alla Signoria che rilasciasse coloro che per essere tenuti
amici dei Medici erano in più tempi stati rinchiusi in vari luoghi,
taluni essendovi da oltre a dieci mesi, dei primi e più nobili della
città. Il Busini, che gli vide uscire, dice che parevano con certi
barboni, romiti allevati nella Falterona; veramente non credo avessero
troppo dolce vita in tutti quei mesi. Furono poi rotte le Stinche,
dov’erano gli ostaggi d’Arezzo e di Pisa. In breve, il grido mediceo di
_Palle_ si cominciò a udire in vari luoghi, e la città mostrava già una
nuova faccia.
I primi giorni era ogni cosa governata da Malatesta; il Palagio fu
serrato, ed i Signori facevano quello che era ordinato da lui: diedero
essi pubblicamente licenza ad ognuno di deporre le armi e di andare
ad attendere alle botteghe e case loro; Malatesta prese a poco a poco
l’ubbidienza di tutti i soldati ch’erano in Firenze; quell’atteggiarsi
da vincitore bastò a mostrarlo anche traditore. Baccio Valori stava
in casa seco, e le parole di ambedue suonavano sempre che volevano
libertà, e che l’Imperatore acconciasse lo Stato egli. Avevano a lui
da principio nominati Ambasciatori che poi non andarono: al Pontefice
fu mandato in poste Bartolommeo Cavalcanti per ottenere che il numero
di cinquanta ostaggi, dato per sicurtà delle paghe, fosse ridotto
a venticinque. Si radunava per l’ultima volta il Gran Consiglio,
da cui fu commesso alla Signoria di nominare cinque cittadini che
provvedessero il Governo di centomila ducati per essere tra sei mesi
rimborsati da cento cittadini, e i cento poi da trecento; questi ultimi
essendo fatti creditori sopra le prime angherie che si porrebbero.
Dovevano i cento e i trecento essere anch’essi nominati dalla Signoria,
come al Pontefice, cioè (scrive il Capello) come al signor Malatesta,
parrà: ed un’altra Provvisione avevano fatta di quaranta mila ducati
per fare subito entrare nella città vettovaglie. Qui era estrema la
carestia; le carni mancavano, delle altre derrate il prezzo eccessivo.
Molti in città e nel distretto furono i morti di fame, di peste e di
stento; per tutto il Dominio i saccheggi e i guasti fatti dai soldati
amici e nemici non lasciarono immune alcun luogo. Ai morti in guerra
si aggiunsero le uccisioni dei contadini; sommava il numero dell’une e
delle altre a molte migliaia, ma troppo incerte sono le cifre che danno
gli storici, le quali noi crediamo inutile registrare.
Ai 20 d’agosto Baccio Valori accordatosi con Malatesta, senza del quale
nulla si faceva, mandò in Piazza quattro bande di soldati Côrsi con
l’arme e fece, preso che ebbero i canti, suonare la campana grossa di
Palazzo a Parlamento. Al quale convennero io non so quanti; che poco
importava, non essendo i Parlamenti per tutto il corso della Repubblica
altro che bugìe di libertà finta a benefizio della forza. La Signoria
scese contro voglia in ringhiera, e con le forme consuete e con le
solite acclamazioni fu eletta una Balìa di dodici cittadini i quali
avessero facoltà quanta l’intero Popolo di Firenze. Allora scoppiava il
grido di Palle Palle; e Baccio Valori con seguito di parenti e amici
dei Medici, a cavallo, andò come trionfalmente alla Nunziata, d’onde,
udito messa, tornò a casa di Malatesta. La Balìa, dopo avere la sera
stessa rimesso i Medici, depose tutta l’antica Signoria, creando al
modo solito per due mesi nuovo Gonfaloniere un Giovanni Corsi venuto
da Roma. Privò delle usate facoltà l’ufizio dei Dieci e mutò quello
degli Otto, nel quale entrarono i più nemici all’antico Stato. Mandava
un bando, che niuno andasse per la città in arme, e niuno potesse
uscire fuori delle porte, essendo queste guardate altresì da soldati,
da famigli de’ nuovi Otto e da birri del Bargello. Uscì poi bando
severissimo, che tutte le armi fossero consegnate; che furono grande
numero, essendo tutta in Firenze la gioventù armata. Posero un altro
accatto, con la dichiarazione che non dovesse cadere sopra gli amici
dei Medici, e che non fosse nè meno di uno scudo per testa, nè più
di cento: andavano gli eletti a ciò casa per casa, e a discrezione
loro imponevano da un fiorino d’oro infino a dodici. Nella Balìa
furono messi Raffaello Girolami e Zanobi Bartolini; che era vecchia
arte, perchè non paresse che il nuovo Stato volesse in tutto disfare
l’antico.[232]
Era inteso per la Capitolazione, che assicurati i Capitani del
pagamento degli ottantamila scudi promessi all’esercito, lascerebbero
entrare in Firenze liberamente la vettovaglia; ma invece l’assedio
continuava peggiore di prima, imperocchè soldati e capitani per
avarizia e per superbia volevano subito essere pagati, e intanto
impedivano l’entrata dei viveri; talchè alla Città stavano innanzi
due pericoli, morirsi di fame e andare a sacco; nè il Papa stesso da
Roma sapeva come provvedere. I cittadini più facoltosi non si ardivano
per anche tornare in Firenze da Lucca o da altri luoghi, dov’erano
fuorusciti. Poi si voleva che tutto il carico venisse a cadere sui
vinti, ma il modo riusciva lento; cosicchè avendo imposto ai più ricchi
tra questi la somma di cinque o settecento o mille scudi, andassero
questi ostaggi nel campo finchè non l’avessero pagata: prima gli
tennero in Palagio chiusi in quelle stanze dalle quali erano usciti i
Palleschi, poi si mandavano all’esercito perchè ivi distribuiti come
prigionieri tra’ Capitani, si riscattassero ciascuno del proprio;
questi anche accettavano in pagamento drappi e oro filato stimati a
vil prezzo. La Balìa inoltre pose un carico ad altri quaranta cittadini
di mille scudi per ognuno, e sempre tra quelli che erano stati dei più
ardenti a voler la guerra.
Avvenne allora che nel Campo nascesse una zuffa tra Spagnoli e
Italiani, cresciuta bentosto in una vera battaglia, nella quale dalle
due parti morì grande numero: l’odio era nel fondo dei cuori degli
Italiani, che troppe avevano ingiurie da vendicare e ai quali doveva
cadere sul capo la stessa vittoria. Ma Ferrante Gonzaga che vedeva gli
Spagnoli avere la peggio, e che ad ogni modo voleva finirla, chiamò
i Tedeschi in aiuto agli uomini della nazione del suo Signore, e
quelli vi andarono di grande animo: in breve ora Tedeschi e Spagnoli
con la superiorità del numero assaltarono il campo degli Italiani, e
postili in fuga li saccheggiarono. Malatesta e Baccio Valori vedevano
dalle mura e dagli orti dove insieme alloggiavano quello spettacolo;
onde fatto mettere in armi tutti i soldati, si trova che avessero
prurito di fare dar dentro anch’essi, e rompere tutto il campo degli
stranieri: se non che Baccio Valori si oppose, pensando che la rovina
di quell’esercito sarebbe rovina dello Stato dei Medici. Quindi i
Colonnelli degli Italiani, passato Arno, si ritrassero sotto i monti di
Fiesole dove erano alloggiati gli Spagnoli chiamati Bisogni; i quali
senza aspettargli si ricovrarono al campo dei loro. Il che portò che
gli Italiani lasciassero entrare tutti i viveri che da quella parte
venivano dentro nella città affamata, e furono essi i più facili a
pigliare il pagamento e i primi che licenziati si dipartissero.[233]
Per gli articoli dell’accordo, Malatesta doveva rimanere con tremila
fanti due mesi alla guardia della città ed a sicurezza degli impegni
presi da ambe le parti. Il Papa gli aveva con due Brevi reso grazie
dell’operato da lui a conservazione della Città e a proprio benefizio
del Papa istesso, che gli mandava uomini a trattare intorno alcune
difficoltà insorte. Ma tosto di poi gli fece sapere essere sua mente
che egli sgombrasse con tutte le sue genti la città due giorni dopo
a che fosse partito l’esercito dei Tedeschi e degli Spagnoli, che
il Commissario Baccio Valori confidava saldare al più presto. Il che
non piacendo a Malatesta, scrisse una lettera a Clemente, nella quale
mostrava il pericolo di lasciare senza guardia la città prima che i
soldati stranieri, sempre avidi del sacco e male ubbidienti ai loro
capi, si fossero allontanati; e che fuori anche di questo potevano
gli Italiani rimasti, per essere pagati ultimi, unirsi al Maramaldo
che intanto disertava le terre vicine guardando a Firenze. Per questi
motivi pregava volesse la Sua Santità lasciarlo in Firenze tutto il
tempo dei due mesi che era stabilito per sicurezza di tutte le cose
convenute, nonostante che egli Malatesta, quanto a sè, non bramasse
altro che andarsi a riposare nella città sua e quivi attendere a
guarirsi. Ma il Papa gli fece di nuovo significare che vuotasse la
città; per il che ai 12 di settembre (Stefano Colonna già essendosi
prima tornato in Francia) Malatesta si partiva co’ suoi Perugini,
portando seco molto danaro per il lauto trattamento che la Città gli
aveva fatto, e alcuni cannoni avuti in dono dal nuovo Stato. In Perugia
era nelle sue mani tutta la potenza dei Baglioni; ma il Papa frattanto
aveva mandato legato in quella città il Cardinale Ippolito dei Medici,
il quale attendendo ivi a esercitare la potestà pontificia, Malatesta
così male affetto com’era del corpo e dell’animo si viveva in una sua
villa, nella quale moriva negli ultimi giorni del seguente anno. Aveva
mandato per le Città e nelle Corti chi lo scusasse o si chiamasse anche
pronto a difenderlo con la spada in mano dalla taccia di traditore:
della quale chi volesse interamente purgarlo dovrebbe mostrare che sia
lecito a chi ha giurato e sempre fa mostra di difendere una parte,
servire a quell’altra.[234] Prima che egli avesse lasciato Firenze,
convenne pagare in fretta i suoi Côrsi: ma intanto gli eserciti si
allontanavano, e Baccio Valori fece venire nella città il Conte di
Lodrone con duemila Lanzi che ivi fecero buona guardia.[235]
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