Storia della Repubblica di Firenze v. 3/3 - 02

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assalti e tradimenti. — Malatesta in persona fa una mossa
contro al campo Imperiale. — Assalto notturno e sanguinoso
di Stefano Colonna contro al quartiere degli Imperiali a
Sant’Iacopo in Polverosa. Penuria di viveri e di danaro. —
Milizie accresciute, disegni temerari, male intelligenze
con Malatesta. — Il Ferrucci muove da Volterra. S’ammala in
Pisa, indi procede fino a Pescia d’onde per la via dei
monti aveva disegno scendere al soccorso di Firenze. —
Pratiche di Malatesta con l’Orange. — Deliberazione del
Grande Consiglio di dare l’assalto; al che Malatesta e il
Colonna si oppongono. — Intelligenze del Malatesta con
l’Orange: la Signoria invia sul campo Bernardo da
Castiglione, che torna avendo rotta ogni pratica. — In
città i soldati in arme, la gioventù in arme. — Grande
mossa dell’Orange contro al Ferrucci: si scontrano in
Gavinana. [3 agosto]; battaglia lunga e diversa, morte del
Principe. Sopraggiunge il Maramaldo, dal quale è preso e
ucciso il Ferrucci. — In Firenze altri chiedono armi, altri
s’accostano a Malatesta. Egli e il Colonna mandano a fare
accordo col Gonzaga. Zanobi Bartolini. Baccio Valori. Bozza
di Capitoli. — Malatesta propone si accettino; la Signoria
manda invece licenza a lui ed al Colonna. Malatesta ferisce
un Niccolini che gliela aveva recata, e minaccia di fare
entrare i nemici. — Quattrocento giovani e ricchi e uomini
di più sorte si radunano nella piazza di Santo Spirito,
facendo dire alla Signoria che non riconoscono più altri
che Malatesta. — La Signoria manda al campo quattro
ambasciatori per capitolare. Pochi in arme si raccolgono
intorno al Palazzo. — Articoli della Capitolazione [12
agosto].
_Capitolo_ XI. — FINE DELLA REPUBBLICA. [AN. 1530-1532.]
FIRENZE DOPO LA REPUBBLICA 301
Entrano i soldati: Malatesta padrone della città: balzelli,
carestia e morti per tutto lo Stato. — Parlamento in
Piazza, guardata dai soldati; Baccio Valori fa eleggere una
Balía, per cui rimangono con nuovi uomini le antiche forme.
— Avarizia dei Capitani dell’esercito, che non lasciano
entrare i viveri; fame, timori e nuovi carichi sulla parte
vinta. — Grande zuffa degli Italiani del campo contro agli
Spagnoli ed ai Tedeschi: partenza di tutto l’esercito. —
Malatesta, dopo qualche difficoltà col Papa, torna a
Perugia e indi muore. — Ritorno degli usciti. Condanne a
morte, e in grandissimo numero a confine. I beni dati al
Fisco; restituiti ai proprietari i già tolti e le vendite
annullate; riduzione dei frutti del Monte. — Colonie
d’esuli a Venezia e sul fiume Rodano. — Stato miserabile
della Toscana: le città e le minori terre bene inclinate
verso i Medici. — Baccio Valori Governatore in Firenze. —
Non bene contenti i grandi amici e i parenti di Casa
Medici. — Il Cardinale Ippolito. — Ambasceria e discorso di
Palla Rucellai a Carlo V. La Balía conferisce al Duca
Alessandro un alto grado in Firenze. — Lodo pronunziato
dall’Imperatore, che istituisce capo della Repubblica di
Firenze il Duca Alessandro, al quale aveva sposata
Margherita sua figlia naturale. Questi al suo giungere
riceve l’investitura solenne per mano di Antonio
Muscettola, e riceve il giuramento dei Magistrati [6 luglio
1531]. — Pareri presentati al Papa circa il governo di
Firenze. — Ricerca delle armi per tutte le case. — Condanne
ad arbitrio; terrore; sevizie d’un Bargello. — Filippo
Strozzi promotore presso Clemente di un governo assoluto e
del fabbricare in Firenze una fortezza. Clemente risoluto
fare da sè, manda Filippo dei Nerli in Firenze: parole del
Papa. — Comandi del Papa comunicati in Firenze
all’Arcivescovo di Capua ed ai principali cittadini. —
Nuova forma dello Stato, dove il principe era tutto. — [1º
maggio 1532]. L’ultimo Gonfaloniere esce di Palazzo:
Alessandro dei Medici ne piglia il possesso come Duca della
Repubblica fiorentina: cominciò allora il Principato. —
Firenze dopo la Repubblica.
APPENDICE DI DOCUMENTI.
I. Lettera dei Dieci di Balìa a Guidantonio Vespucci
e Pier Capponi oratori presso il Re di Francia, dei 7
maggio 1494. 343
II. _Litteræ Credititiæ et Mandata quinque Oratorum,
fratris Hieronymi de Savonarola predicatoris,
Tanai Neroli, Pandolfi Rucellarii, Petri Caponii
et Ioannis Cavalcantis, deliberata die_ V _novembris_
MCCCCLXXXXIIII. — _Carolo Regi Gallorum. Mandata
quinque Oratorum ad Carolum Regem Francorum_ 346
III. Trattato segreto di Confederazione tra Leone X e
Carlo V, de’ 17 gennaio 1519.
Capitoli segreti tra Leone X e Francesco I, de’ 20
gennaio 1519 348
IV. Quindici lettere di Rosso Buondelmonti e compagni,
oratori presso al Principe d’Orange; dal 13 al
30 settembre 1529 361
V. Cinque lettere di Ferrante Gonzaga al Marchese di
Mantova suo fratello, date dal Campo Cesareo
sotto Firenze; dal dì 16 luglio al 4 agosto 1530 377
VI. Orazione di Palla Rucellaio recitata nel cospetto
di Carlo V imperatore per nome dell’Eccelsa
Repubblica Fiorentina 385
TAVOLA DEI NOMI E DELLE MATERIE 389


STORIA DELLA REPUBBLICA DI FIRENZE.


LIBRO SESTO.


CAPITOLO I.
IMPRESA DI CARLO VIII IN ITALIA. — RIBELLIONE DI PISA, CACCIATA DE’
MEDICI. [AN. 1492-1495.]

Se vi ebbe mai tempo in cui si veggano ad un tratto mutare aspetto
le umane cose come per iscena di teatro, e nuovi uomini atteggiarsi
diversamente da quei di prima, e un altro ordine prodursi di fatti
e d’idee; tale fu quello al quale è giunta l’Istoria nostra, talchè
gli scrittori sogliono quivi fermare il punto dove si chiude l’età
di mezzo, e ha suo principio la moderna. Composte allora le grandi
nazioni nella unità di monarchie possenti, cominciarono a mescolarsi
tra loro per grandi imprese, cui dava il segno quella di Carlo VIII
per la conquista del Regno di Napoli; i grossi eserciti permanenti e
l’armi da fuoco in mano ai soldati mutavano gli ordini e le condizioni
della guerra; intantochè l’uso già universale della stampa rendeva più
agevoli a tutti gli uomini, e continui tra gente e gente i commerci
del pensiero. In questo anno 1492 del quale scriviamo, Cristoforo
Colombo scuopriva l’America; e poco dopo Vasco di Gama portoghese,
girando l’Affrica, navigò alle Indie: l’Italia ebbe doppia cagione
d’abbassamento dall’essersi ai traffici aperte altre vie da quelle
di prima. In quello stesso 1492, il conquisto di Granata compieva
l’unificazione della Spagna sgombrata dai Mori; ed era compiuta già
quella di Francia. Nell’anno medesimo il pontificato di Alessandro
VI inaugurava quei tristi tempi, di mezzo ai quali uscì la Riforma
protestante che scisse l’Europa, e fu vendetta delle nazioni consumata
col Sacco di Roma e con l’avvilire non che la potenza, ma il genio
stesso e le tradizioni del nome latino.
Le guerre d’Italia diedero cagione allo incontrarsi la prima volta
insieme Francesi, Spagnuoli, Tedeschi; e l’antica terra fu il campo di
quelle battaglie dalle quali usciva l’Europa moderna. Fino alla prova
di quelle guerre l’Italia tenevasi (nè senza ragione) in più alto
grado delle altre genti: discesero queste, e ritrovandola disarmata,
divisa, impotente; allora pigliarono maggiore fiducia di sè medesime,
e si rallegrarono: ma nell’Italia cessò ad un tratto la vita esultante
degli ultimi anni; falliva il pensiero nutrito più secoli, le arti
politiche si vedeano fatte ludibrio a sè stesse. Fra queste ruine
Firenze rinvenne la popolare libertà sua e fiorì per uomini rimasti
famosi; felice a confronto delle altre Provincie, finchè tutto il peso
delle armi straniere non cadde sovr’essa per quivi estinguere la vita
d’Italia.
In quella sorta di potenza che per sessant’anni i Medici tennero
nella Repubblica di Firenze, questo era di debole, che nulla avendo
in sè di legale, dipendeva tutta dalle qualità dell’uomo cui era duopo
mantenersela ogni giorno con arti minute: per il difetto di queste cose
il figlio di Cosimo era stato a grande repentaglio di vedersi tôrre
di mano lo Stato; e come il figlio di Lorenzo lo perdesse, bentosto
vedremo. Piero dei Medici, valente del corpo, aveva dura la fibra,
l’animo leggero, scarso l’ingegno e presontuoso, il consiglio subitaneo
e temerario: toccava appena ventidue anni quando suo padre moriva.
Ebbe a maestro il Poliziano e da lui buona coltura di lettere; ciò non
ostante alla madre sua, specchiata donna, non piaceva tenersi per casa
quest’uomo d’animo poco buono e di costumi non pari all’ingegno.[1]
Gaj e fastosi erano quegli anni, e al giovane Piero sopra ogni cosa
piaceva mostrarsi eccellente negli esercizi del corpo: era vissuto fino
allora come figlio di principe, e quando i più qualificati cittadini
vennero ad offrirgli, com’era consueto, il grado del padre, si tenne
egli subito naturalmente Principe, non pensando nè quali fatiche avesse
a Lorenzo costato fermare io direi quasi uomo per uomo i cittadini
nell’ubbidienza sua, nè come i tempi ora volgessero a Casa Medici
più difficili e a tutta Italia pericolosi. Le ragioni commerciali di
quella famiglia erano si può dire in fallimento, e tutto l’ingegno e
le seduzioni di Lorenzo appena bastavano ad abbagliare siffattamente
gli occhi dei più spensierati che non vedessero divorate per lui solo,
non che molta parte del pubblico erario, le stesse private ricchezze
e le doti fidate nei Monti di credito alla università dei cittadini,
finchè la Repubblica fu libera di sè stessa. Molti che avevano temuto
Lorenzo o che erano da lui tenuti a bada con gli onori e con gli
adescamenti dei quali era maestro, disprezzavano la inesperienza, o
erano offesi dalla superbia di Piero. Questi volentieri si ristringeva
coi più servili che l’odio pubblico non temessero. Primo tra questi
era un ser Piero Dovizzi, fratello maggiore di più anni a quel Bernardo
da Bibbiena, che poi fu Cardinale e chiaro per franco ingegno. Quegli
era stato sotto a Lorenzo grande strumento al fare danari; ma Piero
gli messe in mano ogni cosa, e tirò alla Cancelleria di casa sua tutte
le faccende che prima solevano stare negli Otto della Pratica.[2]
Erano in Firenze due molto ricchi e gentili giovani di Casa Medici,
Lorenzo e Giovanni, del ramo che discendeva dal fratello del vecchio
Cosimo. Giovanni una sera a un ballo di donne essendo venuto con
Piero a contesa per giovanili rivalità e forse per altri sospetti,
ebbe da lui una ceffata; del che risentitosi, fu egli insieme col
fratello suo messo in custodia, e forse avrebbe corso pericolo della
vita: ma infine Piero si contentava di una sentenza che gli mandava a
confine nelle loro ville, contenuto dal favore che ad essi mostrava
il popolo di Firenze.[3] Tale fu Piero, secondo i fatti mostrarono
e tutti concordemente giudicarono gli scrittori. Non erano spente
in lui però le tradizioni della famiglia, per le quali aveano fermo
i Medici d’essere in fatto principi, ma con le apparenze di uomini
privati; sapeano gli umori della città, e aborrivano sopra ogni cosa
dall’ingerirsi di signorie baronali. Quando una volta il re Alfonso
offriva donare a Piero alcuni Stati nel Reame, il che era farlo suo
feudatario; questi rendeva umili grazie, ma rifiutava d’accettare
il dono perchè non voleva _essere Barone_; usando parole che hanno
del risentito, e in lui mostrerebbero nobiltà d’animo degna forse
d’accoppiarsi a mente più salda, o a meno avversa fortuna.[4]
Al di fuori l’equilibrio tra’ potentati d’Italia riusciva ogni giorno
più difficile a mantenere. Svolgeasi il disegno che di lunga mano
aveva covato Lodovico Sforza detto il Moro d’usurpare il Ducato di
Milano, del quale era egli reggente in nome dell’infelice suo nipote
Giovanni Galeazzo; ma questo essendo marito a una figlia di Alfonso
duca di Calabria, tutti si aspettavano che ne uscirebbe una guerra
tra’ due potentati, massime che il vecchio re Ferrando di Napoli male
poteva opporsi con la prudenza agli ardimenti del figlio. Al che
si aggiunse più grave caso, che tre mesi dopo la morte di Lorenzo,
al papa Innocenzio VIII, che soleva molto a lui essere deferente,
era succeduto col nome di Alessandro VI Roderigo Borgia spagnuolo e
nipote di Callisto III; per il che avendo egli vissuto nel Cardinalato
trentacinque anni, aveva potuto con l’ingegno, ch’era in lui molto,
studiare le vie, oltre all’avere acquistate ricchezze grandissime.
Divenne il papato d’Alessandro VI come una leggenda di delitti e di
nefandezze, nè crediamo noi che i fatti spacciati sul conto di lui e
della famiglia Borgia siano tutti veri, ma tutti parvero cosa naturale
in chi mostrava non essere frenato nè dalla coscienza nè dalla vergogna
dove il suo utile apparisse. Il vecchio Ferrando di Napoli, udita la
creazione d’Alessandro, disse; quel Papa sarebbe ruina d’Italia.[5]
Lodovico il Moro, anch’egli tenendo pericolosa l’elevazione di un uomo
tale, ebbe un bel pensiero: voleva che tutti gli Ambasciatori dei
Principi italiani andassero insieme a fare omaggio, com’era usanza,
al nuovo Pontefice, e che uno facesse l’orazione in nome di tutti: ma
il disegno fu sventato per l’opera (dissero) di Piero de’ Medici, da
un lato istigato dai principi Aragonesi di Napoli cui molto aderiva,
dall’altro bramoso di non confondersi egli, ch’era tra gli Ambasciatori
di Firenze, con gli altri d’Italia, e fare spiccare meglio da sè solo
la magnificenza delle sue livree. Un altro fatto, sebbene anch’esso di
poco momento, servì ad accrescere i sospetti. Si era da principio molto
accostato Alessandro VI ai principi Aragonesi, cercando inalzare uno
dei figli suoi col matrimonio di una bastarda di Alfonso; ma perchè la
pratica allora si ruppe e il Papa mostrava altri disegni, si pensò il
Re porgli sul collo come una briglia col fare che Virginio Orsini, a
lui devoto, comprasse da Franceschetto Cibo alcune piccole castella che
Innocenzio VIII gli aveva donate vicine a Roma; il re Ferrando sborsò i
denari, ed il contratto si fece per l’intromessa di Piero dei Medici,
parente stretto e grande amico dell’Orsini. I quali indizi, comunque
piccoli, bastarono alla sagacità di Lodovico perchè egli scorgesse
come all’occorrenza Toscana e Napoli si volgerebbero contro a lui: nè
si fidava in certa lega stretta da lui col Papa e co’ Veneziani; ma
era di quelle che tra’ Principi d’Italia un giorno faceva ed un altro
disfaceva, e i tempi frattanto divenivano più grossi.[6]
Lodovico allora, che aveva l’ingegno sottile e pronto alle cupidità
vicine quanto era l’animo troppo angusto ai vasti pensieri che in sè
comprendono l’avvenire, si volse a chiamare in Italia Carlo VIII re
di Francia. Aveva questi ereditato le ragioni sul regno di Napoli
dei Duchi d’Angiò; ma insieme aveva sotto alla corona sua non più
quella Francia debole e divisa che per gran tempo era stata, ma intera
dentro a quei confini che essa ha da natura, così già essendo il
più possente tra gli Stati che avesse l’Europa. Lorenzo de’ Medici,
veduta ch’egli ebbe con l’annessione della Brettagna compita essere
quella unione, aveva predetto i mali che verrebbero all’Italia dai Re
francesi. Ma Carlo esultava in quella grandezza giovanilmente, e con
lui molti di quella nazione fra tutte guerriera, ma poco considerata:
lo Stato nuovo per anche non aveva bene composte le forze sue, mancava
il danaro; e Carlo, smanioso d’acquistare gloria, non era capace
a condurre sè medesimo, non che un reame di quella mole e una tale
impresa. Facea Lodovico prima tentare segretamente l’animo suo e de’
suoi ministri, uomini nuovi e molto cedevoli a private cupidigie.
Mandava dipoi con ambasciata solenne Carlo da Barbiano conte di
Belgioioso che offrisse al Re per la riconquista del reame di Napoli
tutte le forze di Lombardia: già erano ai fianchi del giovane Carlo
eccitatori all’impresa i Principi di Salerno e di Bisignano, ambo
di Casa Sanseverina, fiera nemica degli Aragonesi. Ma in Francia gli
uomini di maggior prudenza, nè al Re si fidavano nè a’ suoi consiglieri
nè alle forze stesse del reame per anche immature: facile il vincere,
dicevano, pericoloso il rimanere nei luoghi occupati; degli Italiani le
armi disprezzavano, le arti temevano. Carlo stesso vacillava, com’era
proprio della natura sua; ma sempre poi la temerità vincendo in lui
la prudenza, si era pacificato con tutti i Principi a lui vicini, a
quello di Spagna cedendo la provincia del Rossiglione, perchè da niuno
dei grandi potentati fosse impedito quel suo disegno che vaneggiando
si allargava da Napoli fino alla cacciata dei Turchi e alla corona
del greco Impero. Da tali stimoli agitato, ordinava s’accogliessero da
tutta la Francia le armi in Lione, dove il Re stesso poneva stanza nei
primi mesi del fatale anno 1494.[7]
All’appressarsi di tali eventi, che ciascuno in sè presentiva dovere
essere formidabili, grande fu in Italia il moto degli animi, nei
Principi incerto ed instabile il consiglio. Piero dei Medici agli
oratori venuti in nome del Re di Francia perchè la Repubblica si
dichiarasse per lui, rispose ambiguo tra le inclinazioni dei Fiorentini
amici antichi di quella Casa, e le sue proprie che s’era legato con
tutto l’animo agli Aragonesi. Questa città, che i suoi commerci e
i capitali avea in gran parte fuori di casa, era costretta in ogni
guerra temere per sè; in Francia avevano banchi fiorentissimi, ne
avevano a Napoli: i due Re minacciavano rappresaglie; ed infine
Piero avendo mostrato apertamente l’inclinazione sua verso la parte
degli Aragonesi, Carlo scacciò di Lione i soli ministri del Banco dei
Medici, così mostrando di riconoscere l’ingiuria da lui e porlo in
odio ai Fiorentini.[8] Già erano appresso al Re ambasciatori di questa
Repubblica; uno dei quali Piero Capponi, bramoso in segreto della
caduta di Piero dei Medici, aggravava le commissioni perchè il Re più
s’inasprisse contro a lui, secondo parve a Filippo de Comines scrittore
insigne di questi fatti.[9] Degli altri Principi, Venezia se ne
stava chiusa nella fiducia della potenza sua; l’inerzia piaceva a una
Repubblica d’ottimati, molti dei quali non voleano credere alla discesa
di Carlo VIII.[10] Papa Alessandro, seguendo le sue private passioni,
aveva più volte nel corso di pochi mesi mutato amicizie; stringevasi
infine con Alfonso che era succeduto nella corona al vecchio
Ferdinando, e che mandava buon numero di soldati a cacciare dalla rôcca
d’Ostia il fiero ed al Papa nemicissimo Giuliano della Rovere cardinale
di San Pietro in Vincula; il quale fuggitosi per mare una notte, si
recò a Vienna nel Delfinato, dov’era già il Re con tutto l’esercito.
Grandi erano intanto gli apparecchi d’Alfonso, il quale sapendo le
guerre di Napoli doversi vincere fuori del Reame, aveva mandato per
mare il fratello Federigo con forte armata contro a Genova, sperando
con l’aiuto de’ fuorusciti ribellarla dalla signoria di Lodovico: ma
la spedizione mosse troppo tardi, e questi inviativi da Milano soldati
in gran fretta contenne Genova, e indi con l’aiuto di Luigi duca
d’Orléans, cugino del Re, battute le forze nemiche a Rapallo, costrinse
Federigo con tutte le navi a ricovrarsi nel porto di Livorno, aperto
a lui dall’amicizia di Piero dei Medici. Da un’altra parte muoveva
il giovane Ferdinando duca di Calabria con buono esercito inverso
Romagna, sperando procedere insino a Parma, città male affetta ai Duchi
di Milano, e che gli avrebbe aperto l’entrata nel cuore di Lombardia.
Ma convenivagli amicarsi prima quei Signorotti della Romagna; al che
fu ostacolo principale Caterina Sforza che in nome del piccolo figlio
teneva Forlì. A questo modo le due imprese, le quali dovevano cuoprire
il Reame, del pari fallivano; e Carlo, cedendo ai nuovi stimoli che
egli ebbe dall’impetuoso Cardinale, e valicate pel Monginevra le Alpi,
giungeva in Asti ai 9 settembre.[11]
Aveva seco oltre a dugento gentiluomini della guardia sua, mille
seicento lance composte, tra uomini d’arme, arcieri e valletti,
di sei cavalli ciascuna; cui s’aggiungevano, con sempre incerta
numerazione, ottomila fanti guasconi con archibuso e spada a due
mani; dodicimila balestrieri di altre parti della Francia, e ottomila
Svizzeri con picche e alabarde: fu creduto che attraversassero la
Toscana sessantamila soldati francesi.[12] Grande era il numero delle
artiglierie, tali che Italia non aveva mai veduto le somiglianti;
perchè le antiche bombarde per la pesantezza loro, e per essere le
palle di pietra, si trascinavano lentamente tirate da buoi, ed era il
piantarle lungo e difficile, ed i colpi di ciascuna molto radi; laddove
i Francesi avendo i cannoni loro più spediti, gli tiravano a cavalli
e gli piantavano e muovevano facilmente, essendone oltreciò i colpi
assai più frequenti e gli effetti più gagliardi. Ma troppo inferiori
in Italia erano per valore e fede i soldati, mercenari essi ed i
condottieri loro, che per guadagno, mutando spesso padroni, tutti gli
frodavano e poi gli tradivano: in Francia invece le milizie pagate dal
Re si componevano di gentili uomini, che oltre agli stimoli dell’onore
aveano certezza, con mostrarsi valorosi, di avanzare nei gradi, i
quali salivano infino a quello di capitano; le compagnie inoltre non si
rinnovavano a capriccio, nè si mutavano per diserzioni e arruolamenti,
ma erano d’uomini per lo più della provincia stessa insieme avvezzi a
combattere e a emularsi: il che si vuol dire anche dei fanti, che nelle
battaglie tenevano il fermo, laddove in Italia si sbandavano al primo
scontro: così la milizia, che era qui un mestiere, in Francia tenevasi
il più decoroso degli uffici. Scendevano lieti in paese dovizioso, di
dolce clima e di dolce vivere, al mondo famoso, da dover essere onorata
preda.
In Asti veniva Lodovico Sforza con la moglie Beatrice d’Este e
splendido accompagnamento di dame e signori: grandi le onoranze, ma
sospetti rinascenti sempre rendevano Carlo dubbioso al muoversi,
perchè a ogni passo temeva una frode. Nè senza motivo, Lodovico
tenendo in riserva già l’altro disegno, quello di chiudere in Italia
l’oste francese ed opprimerla, nè avendo cessato mai dal praticare
segretamente con Piero de’ Medici, di cui fu detto che lo avesse
denunziato a Carlo.[13] Il quale in Asti côlto dal vaiuolo, dovè
indugiare più settimane; dipoi visitata in Casale la Reggente del
marchesato di Monferrato, che gli imprestò gioie da farne denari,
venne il Re a Pavia, dov’era tenuto sotto la guardia dello zio il
duca Giovanni Galeazzo cugino del Re per esser nati da due sorelle
della casa di Savoia. Lodovico avrebbe voluto nascondere a Carlo quel
misero giovane infermo e insidiato dalle male arti dello zio, e chiuso,
perchè fosse obliato, in quel castello insieme alla moglie Isabella
d’Aragona figlia d’Alfonso, e ad un bambino di pochi anni. Andava
Carlo a visitare il cugino giacente nel letto, cui non disse altro che
poche parole di conforto, essendo presente Lodovico; quando entrava
Isabella che gettandosi a’ piedi del Re, bella, infelice ed animosa,
gli raccomandava il padre e il fratello e la casa d’Aragona: ma Carlo
rispose, ch’era troppo tardi; e si levò tosto commosso, e impacciato,
dal tristo colloquio. Venne a Piacenza, dove allo Sforza giunse avviso
della morte del nipote, che tutti crederono da lui medesimo affrettata;
ond’egli recatosi a Milano, e quasi cedesse alle preghiere di molti,
pigliava il governo in proprio suo nome, sebbene tenesse nascosta per
allora l’investitura che già con danari aveva ottenuta da Massimiliano
imperatore.[14]
Carlo da Piacenza muoveva diritto alla volta di Toscana per la via di
Pontremoli, ed aveva campeggiando in Lunigiana prese alcune castella
suddite o raccomandate ai Fiorentini e saccheggiato Fivizzano. Per
il che in Firenze dai governatori dello Stato si cominciò a temere, e
dalla parte avversa a questo si cominciò a sperare ed a sparlare senza
rispetto di Piero de’ Medici. Il quale cercando provvedere alla difesa,
quando si venne in Firenze a fare danaro trovò inaspettata difficoltà
nell’universale, e duri e male disposti allo spendere gli amici più
facoltosi a cui ne aveva fatta richiesta. Onde egli senza fare altra
prova sulla fede dei cittadini, e male imitando l’esempio del padre
quando si recò a Napoli, prese consiglio di andare al Re e rimettersi
nelle sue braccia lasciando la Lega degli Aragonesi con le condizioni
migliori d’accordo, che a lui fossero possibili. Uscì di Firenze
subitamente una sera con pochi amici, e venuto al Re, gli offriva
quasi che spontaneamente Sarzana e Pietrasanta, luoghi ben muniti,
poi Mutrone e Ripafratta ed altri castelli, egli come libero padrone
e senza averne autorità dalla Signoria. A queste cose non è da dire se
gli animi si alterassero in Firenze, di già sollevati per la partenza
di Piero. Nelle Pratiche e nello stesso ufficio dei Settanta dove Casa
Medici aveva i suoi più sviscerati, non mancavano parole di fiero
concetto, ma spesso timidamente proferite, e poi annacquate, perchè
dopo sessant’anni la dominazione di quella famiglia si era in Firenze
connaturata. I più disposti a cose nuove facevano capo a Piero Capponi,
e fra tutti si metteva innanzi un messer Luca Corsini, il quale una
notte andò per suonare a martello la campana grossa; ma ritenuto, non
potè suonare che due o tre tocchi, dal che la città fu più che mai
turbata e confusa. In Palagio avevano co’ modi regolari eletta una
Ambasceria di cinque cittadini che andassero a Carlo, dei quali era
primo Fra Girolamo Savonarola. Si appresentarono questi al Re, ma senza
venire a sorta alcuna di conclusione.[15]
Piero de’ Medici in quel mezzo tornava in Firenze, e aveva dato
ordine a Paolo Orsino, che era agli stipendi della Repubblica e suo
congiunto, di fare soldati nel contado e riunirli seco in città; donde
gli avversari suoi si risolverono infine a mostrarsi. La maggior parte
della Signoria s’era volta contra a Piero; Iacopo de’ Nerli, armato
con altri che lo seguitavano, venne in Palagio, e fattolo serrare,
stava a guardia della porta. Era la mattina de’ 9 novembre, e Piero
co’ suoi staffieri e gran numero d’armati, armato anch’egli, ma sotto
il mantello, venne al Palagio, dove trovò la porta chiusa, e fugli
risposto che se voleva entrare entrasse solo e per lo sportello.
S’avvide allora che avea perduto lo Stato, e tornò a casa; dove
bentosto udì che il popolo si levava; ed essendogli da un mazziere
della Signoria notificato il bando di rubello, montò a cavallo e
prese la via di Bologna. Il Cardinale Giovanni suo fratello, ch’era in
Firenze, avea tentato venire in Piazza con seguito d’armati; ma visto
che il popolo moltiplicava, se ne fuggì anch’egli vestito da frate per
la stessa via, e seco Giuliano minore fratello, e degli amici della
famiglia taluni che erano dei più odiati. La splendida e ornata magione
di Cosimo e di Lorenzo andava a sacco; involate a questa molte ricche
suppellettili e preziosità dell’arte, e libri e anticaglie. Correva
la plebe alle case d’altri dei più noti partigiani, ma uomini savi
raffrenarono il tumulto; e intanto i Signori chiamato il popolo in
Piazza, annunziarono essere abolito l’ufficio degli Otto di Pratica,
e l’ordine dei Settanta, dov’era la forza di parte Medicea, e tolto il
corso ai quattrini bianchi che erano stati mezzo a rincarare il prezzo
del sale. Francesco Valori, che tornava da Pisa, perch’era tenuto uomo
netto che ai Medici aveva resistito, fu ricevuto con sommo gaudio ed in
Palagio portato di peso sopra le spalle dei cittadini.[16]
Il giorno stesso in cui Firenze recuperava la libertà, perdeva Pisa.
Quivi era entrato il Re con l’esercito suo che sfilava alla volta
del Reame; e andato al Duomo ad offerire, uomini del popolo e donne
e fanciulli gli si fecero incontro al ritorno, e gridando Libertà,
chiedevano uscire di sotto al giogo dei Fiorentini. Pigliarono animo
vedendo benigna la faccia del Re, o fosse in lui compassione, o
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