Storia della Repubblica di Firenze v. 3/3 - 22

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Allora tornarono in grande numero gli usciti che stavano in Roma o
che per mostrarsi neutrali si erano trattenuti in Lucca o altrove;
e allora si pose mano alle persecuzioni e alle vendette. Ne aveva
già dato il primo segnale Malatesta non appena fermato l’accordo:
imperocchè Frate Benedetto da Foiano che predicando la libertà sapeva
d’avere anche offeso la persona stessa del Papa, essendo fuggito in
quei primi giorni ma poi scoperto da Malatesta, fu da lui mandato
a Roma in dono a Clemente, che lo fece morire per lunghi stenti nel
Castel Sant’Angelo, secondo che scrivono i suoi medesimi partigiani.
I quali è vero che sogliono spesso primi commettere gli atti odiosi,
e poi gettarli addosso ai loro padroni: ma pure nessuno potrebbe
assolvere Papa Clemente, a cui l’uso della potenza e del comando
aveva l’animo indurito; e i lunghi strazi d’irose passioni, e quelli
stessi male compresi della coscienza, si erano tradotti in desiderii
di vendetta nemmeno placati dopo la vittoria. Gli Otto, che avevano
il carico d’inquisire e il diritto di giudicare in cose di Stato,
fecero pigliare Francesco Carducci, Iacopo Gherardi e Bernardo da
Castiglione, e subito poi Luigi Soderini e Giovan Battista Cei; i primi
come autori principali della ribellione e della guerra, gli altri due
per ingiurie pubbliche al Papa ed alla Casa dei Medici: furono tutti
cinque esaminati con la tortura, poi decapitati; il che sarebbe pure
avvenuto a Raffaello Girolami, anch’egli preso e accusato d’avere
impedito gli accordi, se ai preghi di Ferrante Gonzaga non gli fosse
stata mutata la pena in una prigione perpetua nel fondo della Torre di
Pisa dove egli moriva e, come al solito fu detto, di morte affrettata.
Era come si è veduto Commissario in Pisa Pier Adovardo Giachinotti, che
fino all’ultimo non voleva credere alla Capitolazione:[236] mandato a
scambiarlo Luigi Guicciardini, lo fece alla lesta dannare e uccidere.
Tutti questi avrebbono potuto fuggire, ma tale avevano essi una fede
che si credevano coperti, oltrechè dalla Capitolazione, dalla bontà
stessa della causa loro e dal diritto. Nei Medici era entrato per
contrario il sentimento d’essere in Firenze signori legittimi; e quindi
osarono fare condannare a morte come rei quei loro nemici che più
temevano; il che nelle altre mutazioni non si era mai fatto, bastando
allora di togliere ai vinti la patria.
Ma in quanto pure al confinare si andò questa volta più in là che
fosse mai per l’addietro, perchè alla crudele ragione di Stato si
aggiunsero in maggior copia i motivi personali e gli odii privati.
Chiedevano per favore i confinati come si chiede gli uffici,[237] o gli
patteggiavano abbandonandosi l’uno all’altro gli amici e i parenti.
Francesco Guicciardini, tornato da Roma, riusciva fra tutti spietato
in quest’opera del confinare; perchè odiando gli Stati popolari, aveva
egli in mente una sua forma di Governo a cui si credeva spianare la
via: in Firenze lo chiamavano Ser Cerrettieri, che fu il Bargello
del Duca d’Atene. Primi andarono a confine cinquantasei dei più
scoperti in favore della libertà o che avessero insultato il Papa.
Tra i più eminenti erano Iacopo Nardi, Donato Giannotti, Dante da
Castiglione, Anton Francesco degli Albizzi, Silvestro Aldobrandini.
Zanobi Bartolini, per avere prima disertato la parte dei Medici, corse
pericolo anche della vita, ma gli giovò l’essersi poi accostato a
Malatesta, per lui adoperandosi Baccio Valori, natura incerta, che
per amicizia o per danari fu a molti benigno; talchè il Bartolini,
ottenuto allora di andare a Roma, tornò quindi in grazia. Michelangelo
Buonarroti da principio si tenne nascosto, ma fatto poi rassicurare
da Clemente, tornò all’opera delle sepolture nella Sagrestia di San
Lorenzo. In seguito e dentro gli ultimi mesi di quell’anno crebbe
il numero dei confinati fin’oltre a centocinquanta, fermatosi allora
per l’interposizione di Cesare stesso. Durava il confine tre anni la
prima volta, e fu osservato dal maggior numero per la speranza del
ritorno; ma dopo i tre anni, a pochi o a nessuno fu tolto, mutando a
molti i luoghi; i quali variavano, taluni dovendo rimanere in villa,
tra essi non pochi per tutta la vita loro; ma i più condannati a
stare in luoghi insalubri o disagiati e sparsi e lontani, fuori anche
d’Italia; talchè non avendo curato il confine, furono ribelli. I beni
di questi andarono al Fisco; tornarono agli antichi proprietarii i
beni de’ ribelli fatti dal passato Governo, e quelli delle Arti e
degli Spedali o luoghi pubblici e quegli degli ecclesiastici, dovendo
i compratori restituirgli senza compenso alcuno delle somme per essi
pagate. Grande era il bisogno che aveva di danaro il nuovo Stato, per
il che i debitori del Comune furono angariati a pagare subito: coloro
invece che avessero crediti accesi per danni ricevuti o per altro
titolo pertinente alla difesa, perderono il credito essendo notati
come libertini o come Piagnoni. I frutti del Monte furono ridotti ai
due quinti, con la rovina di molte famiglie e di vedove e pupilli che
avevano su quello il loro sostentamento.[238]
Così per gran parte nella città di Firenze mutarono gli uomini,
mutarono le ricchezze; talchè, a guardarla nella istoria pare che a un
tratto la città intera mutasse carattere. Lo stesso avviene a chi oggi
guardi tutta insieme l’istoria d’Italia, nella quale ai tempi oscuri
suol darsi principio dalla caduta di Firenze. Venezia, che essendo
presso che sola rimasta libera, divenne allora più italiana, raccettò
e fece sicuri poi molti degli esuli fiorentini. Abbiamo gli Statuti
d’una Confraternita di questa nazione, fondata prima da coloro che
pei commerci abitavano Venezia, ma poi cresciuta pel grande numero dei
fuorusciti e riformata nel 1556: quel santo vecchio d’Iacopo Nardi era
Governatore della Confraternita e forse autore dei nuovi Statuti.[239]
Di maggior tempo era la colonia dei Fiorentini sulle rive del Rodano,
dove i nuovi esuli trovarono molti antichi avversari della Casa Medici
e altri esuli andati prima che sorgesse questa Casa; non poche famiglie
piantate in Avignone pel soggiorno dei Papi o che in Lione tenevano
banchi e industrie fiorenti, diedero ai loro casati desinenza francese
e vi acquistarono qualche lustro.[240]
Fuori di Firenze non venne fatto al nuovo Stato di usare rigori
perchè in nessun luogo aveva trovato resistenza, salvo in Arezzo,
città dove sono le volontà subite e dove un atto inconsiderato aveva
data occasione ad altri disegni. Dappoichè Arezzo, come dicemmo, si
fu ribellata, un certo da Bivigliano soprannominato il Conte Rosso
la teneva in custodia ed ai voleri del Principe d’Orange, il quale
sperava d’averla in premio delle sue fatiche e farsene un feudo:
questi essendo morto, v’entrarono gli Spagnoli per conto del Papa,
il quale alle suppliche degli Aretini per la indipendenza, rispose
essere egli fiorentino e amare la gloria della sua patria; dipoi
avendo avuto in mano il Conte Rosso, lo fece impiccare in Firenze come
ribelle e traditore. In Pisa non venne certo dal popolo dei Pisani il
breve ostacolo che ivi trovarono il Vitelli e il Maramaldo, ma dalla
virtù di un Capitano Michele da Montopoli che vi restò ucciso. Nelle
altre Provincie, le terre minori quasi da per tutto avevano accolto i
Commissari pontifici per affezione al nome dei Medici. La dominazione
d’un popolo libero è sempre dura sopra le terre suddite, perchè fu
prodotta dagli odii scambievoli e ha più moltiplici le oppressioni:
ma un Principe guarda più all’intero Stato, dove a lui giova che sia
eguaglianza. Inoltre i popoli del dominio, soliti a portare il peso
e il danno delle tante mutazioni e delle guerre, senza il beneficio
della libertà, desideravano un governo che sopra ogni cosa cercasse la
quiete. Grande era il bisogno che ne avevano le città smunte e vessate
dal succedersi delle soldatesche; tra le altre Volterra, presso che
deserta. I campi rimasti senza cultura e senza braccia soffersero
anche dalla intemperie delle stagioni, le quali andarono contrarie due
anni; alle miserie della fame si aggiunsero i morbi. Un Magistrato che
si chiamò dell’Abbondanza, fu istituito a provvedere d’allora in poi
affinchè i viveri non mancassero per tutto lo Stato.
Baccio Valori col grado di Commissario generale aveva il governo della
città e da principio la mente del Papa; era venuto a risiedere in casa
Medici, dove tutte le faccende facevano capo, ivi radunandosi un nuovo
Magistrato degli Otto di Pratica, dove Clemente aveva posto i suoi
più stretti e confidenti. Questa come reggia era guardata da soldati
tedeschi, i quali per maggior sicurezza occupavano anche la chiesa
vicina di San Giovannino: il Commissario quando usciva fuori aveva una
guardia. Anche il Palagio pubblico era ben guardato da’ Tedeschi per
impedire ogni tumulto popolare, e perchè dalla Signoria non si pensasse
nè praticasse alcuna cosa contro al Governo, dovendo questa essere ivi
a ornamento e per apparenza. La Balìa, che era prima di dodici, fu
accresciuta in più tempi, nominando essa medesima Aggiunti o Arroti
che si accostarono ben tosto ai centocinquanta, dalla confermazione
dei quali avevano forza tutte le leggi; e queste da essi erano
ratificate sulla parola d’un Cancelliere che le poneva loro innanzi. Il
Cancelliere Francesco Campana, letterato di qualche nome, scriveva poi
nel libro chiamato il _Cronista di Palazzo_, quello che più occorresse
o che piacesse ai reggitori. Si fece ancora uno squittinio, al quale
avendo chiamato un numero di dugento, lasciarono imborsare tutti quei
nomi che tra essi avendo vinto il partito, potessero quindi essere
estratti agli uffici di dentro e di fuori, eccetto però a quelli di
più importanza che si davano a mano e a piacimento del Papa e di chi
per la Casa dei Medici teneva il grado in Firenze.[241] Tali ordini
soddisfacevano bene all’ambizione di molti cittadini minori, ma non
empievano l’ingordigia di pochi maggiori.
Oltre al Guicciardini erano in Firenze, venuti da Roma, i due altri
capi di parte Medicea, Roberto Acciaioli e Francesco Vettori: di
questi tre, nessuno era interamente devoto a Clemente, nè a lui bene
accetto, vagheggiando essi un governo d’ottimati piuttosto che il
regno d’un Giovane spurio a cui dovessero ubbidire. Già si adontavano
di sottostare a Baccio Valori e del recare che egli faceva tutta la
somma dei negozi in Casa i Medici, levando credito al Palagio. Questi
dissidii erano in Firenze, e altri disgusti incontrava il Papa dentro
alla stessa sua famiglia, dove il vecchio Iacopo Salviati difendeva le
forme libere nella patria sua; e quanto madonna Clarice tenesse a vile
quei due intrusi Giovani, si è già veduto. Il loro figlio Giovanni e
gli altri due Cardinali Ridolfi e Cibo, nati anch’essi da una figlia di
Lorenzo, si mostrarono poi sempre poco aderenti al principato. Era un
altro parente stretto di Casa Medici, Filippo Strozzi, amico incerto e
al Papa sospetto, ma che per sè amando le ricchezze e i piaceri della
vita e le culture d’un felice ingegno, voleva piuttosto avere amici che
partigiani e godersi gli splendori di un alto grado senza i pericoli;
nè quanto a sè, avrebbe mai altro cercato.
Col fine dell’anno 1530 parve a Clemente che la Città, quasi rinnovata,
fosse ridotta in termini da non si potere muovere altrimenti; al quale
effetto era stata seco tutta la parte Medicea. Rimaneva ora che egli
si spiegasse quanto alla forma da dare al Governo intorno a che aveva
tutti quei mesi tenuto chiuso il volere suo, meno fidando negli altrui
pareri e più sicuro dei suoi propositi dacchè a lui erano entrati
nell’animo più forti passioni. Della famiglia sua non diede licenza
ad alcuno di andare a Firenze; la piccola Caterina ordinò subito
che gli fosse mandata in Roma; il che lungamente aveva desiderato,
e già pensando come avviarla a sorti maggiori. I grandi amici della
sua Casa, nei quali pareva da principio che stesse il governo, col
trarre a sè gli odii avevano fatta la parte loro; non rimaneva oggi
che dare ad essi un premio e fare che si allontanassero da Firenze.
Ebbe il Guicciardini la luogotenenza di Bologna, e Baccio Valori andò
presidente della Romagna; i quali gradi tennero entrambi per tutta la
vita di Papa Clemente. Mandò in Firenze come suo rappresentante lo
Schomberg, Arcivescovo di Capua, tedesco a lui tutto devoto e senza
passioni nè ambizioni cittadine, sebbene pratico di Firenze fino da
quando il Savonarola lo aveva vestito frate in San Marco, e grato
abbastanza perchè facile alle udienze, diligentissimo nel curare le
private faccende e nel fare che tutti avessero eguale giustizia. In
questo mentre giunse ad un tratto il Cardinale Ippolito dei Medici,
partito da Roma senza saputa del Papa. Non si poteva egli dar pace
di avere scambiato con un cappello di cardinale il principato, al
quale si era creduto prescelto; e venne a tentare se una qualche
dimostrazione di cittadini fermasse in quelle dubbiezze l’animo di
Clemente. Ma questi subito mandò dietro al giovane incauto Baccio
Valori che gli tolse ogni speranza, nè alcuno in Firenze per lui si
era mosso: quell’atto però fu contro ad Ippolito principio degli odii
implacabili che lo perderono, essendo egli più atto a destare gli
altrui sospetti che a stare in guardia dalle insidie. Ma come quegli
che era liberalissimo e di dolce indole e leggiera, si contentò quando
per la morte di Pompeo Colonna potè avere dal Papa il vicecancellierato
ed altri molto ricchi benefizi.[242]
Era da un pezzo scaduto il termine dei quattro mesi dentro ai
quali, secondo l’accordo, doveva l’Imperatore pronunziare il Lodo
intorno al Governo della città di Firenze: nè forse il Papa lo aveva
sollecitato, non volendo egli che il suo diritto paresse muoversi da
una Capitolazione, ma invece che fosse chiesto Alessandro per signore
con voto solenne dalla città istessa. La Balìa frattanto fece una
provvisione per la quale aggregò a sè il Duca Alessandro de’ Medici,
che avesse inoltre la facoltà di risedere con il grado di Proposto
in tutti i Magistrati, compreso quello dei Priori: in quel partito,
nel numero di ottantaquattro cittadini radunati, furono dodici fave
bianche del no. In seguito, per deliberazione degli Otto di Pratica,
fu assegnato al Duca un Piatto di ventimila ducati l’anno, avendo egli
ai suoi ordini e a suo carico i soldati di Alessandro Vitelli e di
Rodolfo Baglioni figlio di Malatesta, i quali avevano la guardia della
città.[243]
Nel mese di maggio 1531 Carlo V pubblicò il Lodo che dava lo Stato di
Firenze ad Alessandro dei Medici allora Duca di Città di Penne, al
quale aveva sposata per quando fosse fuori della pubertà Margherita
sua figlia naturale: la data era del 27 ottobre 1530, perchè fosse
dentro ai quattro mesi, termine assegnato dalla Capitolazione, a cui
si riferisce l’atto imperiale, riconoscendo Ferrante Gonzaga avere
in quella tenuto le parti dello stesso Imperatore. Il quale altresì
richiama quello che fu da lui promesso al Pontefice nello accordo di
Barcellona; e quindi statuisce che in avvenire i Magistrati della
Repubblica sieno eletti ed istituiti nel modo stesso come solevano
prima che fosse da Firenze cacciata la Famiglia dei Medici; che il
Duca stesso ed i successori suoi per linea primogenita mascolina
in perpetuo, ed estinta questa, altri della Famiglia dei Medici,
nell’ordine istesso, abbiano facoltà e obbligo d’intervenire in quei
magistrati, talchè la forma sia di Repubblica della quale il detto
Alessandro dei Medici debba esser capo, mantenitore e protettore.
Annunzia Carlo essere egli venuto in Italia col fine di restituire ad
essa la pace, rialzare i diritti manomessi dell’Impero, e togliere
di mano alle plebi la cosa pubblica perchè fosse governata da
uomini nobili e più degni. Ma in quella scrittura la forma è sempre
di una concessione, talchè pei Curiali tedeschi ha essa il titolo
d’Investitura data di proprio moto e con la pienezza della imperiale
potestà. Le stesse differenze tra la sostanza e la forma abbiamo
scôrto nei Trattati che la Repubblica fiorentina ebbe con l’Imperatore
Carlo IV e poi con Roberto, e ultimamente con Massimiliano, e che non
avevano avuto altro effetto che lo sborso di poche migliaia di ducati
a quei Cesari bisognosi; ma sempre portavano titolo di Privilegi
pei quali in perpetuo i Magistrati della Repubblica erano dichiarati
vicari imperiali. Di queste finzioni legali in Italia erano solite di
appagarsi le imperiali Cancellerie fino dalla pace di Costanza, e come
allora i Potestà, così erano quindi eletti dal popolo i Magistrati
a governare sovranamente senza ingerenza nè saputa dell’Imperatore.
Medesimamente il Duca Alessandro, eletto una volta, trasmetteva la
sovranità nei discendenti suoi e in tutta la Casa dei Medici, non era
feudatario dell’Impero, nè ad esso legato per titolo alcuno. Questo
era il vero, e per tal modo si reggevano d’allora in poi generalmente
gli Stati d’Italia in faccia all’Impero, sebbene libertà o principati,
stando alle formule imperiali, non fossero altro che privilegi o
concessioni da perdersi per fellonia, e muniti di penalità contro a chi
negasse di riconoscerli e prestare a quelli ubbidienza.[244]
Nei giorni istessi il Duca Alessandro, con licenza dell’Imperatore,
lasciata la Corte, venne in Italia lentamente, e si trattenne in Pisa
ed in Prato avanti di fare l’entrata in Firenze. Quivi giunse quasi
ad un tempo Giovanni Antonio Muscettola, oratore Cesareo in Roma e
portatore dell’imperiale rescritto: alla solenne promulgazione del
quale essendosi prima fermato il giorno e la cerimonia, si radunava
la Signoria il dì 6 luglio 1531 nella Sala che poi fu chiamata dei
Dugento, dove entrati il Duca, il Muscettola e il Nunzio del Papa
andarono a sedersi, avendo in mezzo il Gonfaloniere, dai due lati i
Priori e tutti a destra e a sinistra poi gli altri Magistrati. Parlò il
Muscettola, richiamando le colpe commesse dalla Repubblica fiorentina
contro l’imperiale Maestà, che irata giustamente contro alla città di
Firenze avrebbe ad essa dato condegno gastigo, se la Santità del Papa,
interponendosi, non avesse placato l’animo dell’Imperatore infino al
punto di ottenere per la patria sua non che il perdono di Cesare, ogni
più eccelso favore. Letta quindi la Bolla o Breve, così lo chiamavano,
baciò l’imperiale Sigillo d’oro, il quale poi fu fatto girare fra tutti
i Magistrati che nel modo stesso giurarono obbedienza a quel decreto.
Il Gonfaloniere Benedetto Buondelmonti rispondeva al Commissario
parole di grazie mescolate con lacrime d’allegrezza, come quegli che
tutto devoto ai Medici usciva dalla torre di Volterra dove il Governo
popolare lo aveva rinchiuso. In mezzo a questi non tutti sinceri
tripudii si trovò pronto sotto alle finestre del Palagio un altro
popolo a gridare _Palle Palle, viva i Medici, viva il Duca_. Questi,
tornato alle sue case, fu visitato nel giorno istesso dalla Signoria;
nel quale atto d’ossequio era l’abbandono dell’autorità sovrana la
quale spettava a quel Magistrato. Il Duca però con l’andare tratto
tratto a sedere in mezzo ad esso manteneva quelle apparenze di libertà
che l’imperiale Rescritto aveva espressamente confermate, ma che non
potevano, come ingannevoli e contradittorie, a lungo durare.[245]
Andavano quindi a Carlo V, che dimorava allora in Brusselles,
ambasciatori per la città di Firenze Palla Rucellai e Francesco
Valori, il primo dei quali orando in latino dinanzi all’Imperatore,
disse: eglino essere inviati a lui dal Senato della Città loro a
rendere grazie per gli innumerevoli beneficii da lui recati alla città
istessa, come sempre per l’addietro aveva essa avuto in costume verso
i di lui predecessori. Averla egli tolta dalle mani di artefici e di
uomini di bassa lega e scellerati, avere ai Nobili restituito il grado
e gli averi, e ai buoni la patria, ponendo questa sotto al Governo
di quei più degni ed onorati, nei quali è giusto che risieda e sia
mantenuto. Rendeva grazie all’Imperatore sopra ogni cosa dell’aver
egli costituito il Duca Alessandro, Genero suo, perchè avesse questi e
in perpetuo i successori suoi il sommo grado e la tutela della città,
_come lo avevano avuto i suoi maggiori_. Non accennò alla Capitolazione
tenendosi cauto nel tempo medesimo di non riconoscere un diritto
dell’Impero sulla città di Firenze. Lodò a cielo Carlo V per la pace
fatta co’ Veneziani e con lo Sforza, e per l’assetto dato all’Italia
da lui rialzata e ordinata quando era essa in fondo d’ogni miseria.
Ma fin dal principio della orazione il Rucellai richiama sempre le
antiche usanze, facendo a Carlo intendere che la Signoria del Duca non
dovesse portare alla distruzione delle antiche immunità, che il Lodo
stesso dell’Imperatore voleva mantenute.[246] Questo era il concetto
di Palla Rucellai, e tale sarebbe stato il desiderio di molti. In
quanto a lui quando ebbe veduto farsi Alessandro, principe assoluto,
e dopo chiamarsi un altro Principe nello stesso modo, contrastò solo e
virilmente con atti magnanimi alla più accorta politica d’altri, per sè
dichiarando che non voleva più nella Repubblica nè duchi, nè principi,
nè signori.
Ma invece Clemente VII indugiava sempre aspettando gli fosse chiesto
quel ch’egli bramava, fare Alessandro signore libero in Firenze. Con
questo pensiero aveva cercato il parere degli uomini più eminenti;
ma era una scherma nella quale essi con fargli paura diversamente
s’ingegnavano di condurlo ad una forma di governo misto, dove un
consiglio di pochi Ottimati, sostegno al Duca, potesse anche servirgli
di freno. «Abbiamo per inimico un popolo intero,» scriveva Francesco
Guicciardini; ed il Vettori afferma che «al nuovo Stato erano avversi
da non potersi mai conciliare, novanta su cento dei giovani usati con
le armi indosso a essere padroni della città, e in casa comandare
al padre ed a tutti e avere licenza d’ogni cosa: poi v’erano gli
uomini avvezzi a sedere nel Gran Consiglio, e a’ quali pareva troppo
bella cosa disporre col loro voto dei sommi magistrati: vi erano gli
ambiziosi di tutti i colori, i quali vorrebbero i primi gradi, nè si
poteva tanto in là fidarsene. In tale città più non valevano i modi
usati da Cosimo e da Lorenzo, perchè essi poterono tirare su uomini
nuovi che gli aiutassero a conservare lo Stato; ma oggi il Gran
Consiglio era la città intera, contro alla quale la parte dei Medici
non può difendersi, una volta che il Papa sia costretto dai patti a
serbare questo nome vano di libertà. Quindi se alcuni magistrati hanno
a restare, è necessario tôrre via quelli ai quali l’universale era
più solito ubbidire, com’è in primo luogo la Signoria: questa sopra
ogni cosa bisognerebbe levare di Palazzo, e con essa anche le campane
per disusarne il popolo affatto. Poi tenere una buona guardia e bene
pagata, benchè altri dicesse più che una guardia d’armati valere un
Bargello; poi levare le armi ai cittadini e _non lasciarle portare a
persona, ma ridurre gli uomini alle arti ed ai piaceri; e Lorenzo non
studiò in altro_. Questi fu maestro anche nell’artifizio di maneggiare
gli squittinii, i quali (se dovessero continuare) bisognerebbe affidare
ad uomini segreti, che non la guardassero per il sottile; ma, chiunque
avesse vinto il partito, non imborsassero se non quelli i quali giovano
allo Stato: lasciando però qualche speranza al maggior numero che senza
questo non pagherebbero le imposizioni.» Ma tutto ciò non bastava,
se non si aggravasse la mano sopra altri sospetti, massime dei più
giovani; il che andando contro alle intenzioni di Carlo V, Roberto
Acciaioli consiglia che il Papa, scrivendo in Corte ad Alessandro,
faccia motto di congiure che si tramassero in Firenze, perchè la
notizia spargendosi preparasse l’animo di Cesare a tali violenze.
Intanto però non mancare mai di camminare destramente al fine ultimo,
che è _d’impoverire chi ci può far male, ed a chi non è dei nostri
non fossi fatto beneficio alcuno, eccetto quelli sono necessari per
trarre da loro più utile e più frutto si potesse: avendo rispetto però
a tenere la Città viva per potersene servire e che le industrie non
si allontanassero_. Questi consigli sono di Francesco Guicciardini,
il quale poi sempre cerca di legare a Casa Medici alcuni uomini e
famiglie tanto strettamente che _lei senza loro, nè loro senza lei, non
possino vivere_: al che gioverebbe rendergli odiosi all’universale con
le Provvisioni, le quali fossero a pro loro aggravio pubblico. Luigi,
fratello di Francesco, con l’andare in tutto ai versi del Papa, cercava
riscattarsi dell’essergli dispiaciuto nel 1527.[247]
Poteva Clemente andare al suo fine se il Duca recasse una imperiale
investitura; ma scrive il Vettori non l’otterrebbe, «perchè
l’Imperatore è uomo giusto, e nella Capitolazione che fece Don Ferrando
con la città, promise conservare la libertà.» Aggiunge poi, che «il
Papa ne sarebbe biasimato da tutti gli uomini, e soprastandoli un
Concilio, non credo fossi a proposito di Sua Santità incorrere in
questa nota; perchè quello è seguito insino al presente si può molto
ben difendere e scusare per molte ragioni, ma il pigliarne il titolo
non si potrebbe escusare.[248]» Nè il Papa stesso avrebbe gradito che
in mano sua il Principato di Firenze divenisse un Feudo imperiale; ma
col pigliare sopra di sè tutto il carico della mancata fede sapeva bene
d’andare a genio di Carlo V, e ciò gli bastava. Quanto a uno Stato dove
gli Ottimati avessero parte, niun altro poteva essere più odioso nè in
sè più discorde; nulla in Firenze lo preparava; ed è un governo fra
tutti difficile a congegnare, laddove invece ai popoli stanchi degli
eccessi popolari è ovvio passare sotto al principato di un uomo solo.
Queste cose Clemente sapeva; i principi hanno sui loro ministri questo
vantaggio, che posti al centro, distendono sopra le cose all’intorno
più ampio lo sguardo e in sè più sicuro, perchè sempre vôlto a un solo
pensiero. Sapeva poi che i Fiorentini poco erano atti a mantenere i
forti propositi incontro agli agii d’una vita ornata e tranquilla,[249]
e che un Medici con le cittadine tradizioni della Casa aveva in sè
forza bastante a penetrare, quasi uomo per uomo, dentro a questo popolo
per discioglierlo e farne sua cosa. Per queste ragioni deliberò il
Papa d’imporre egli stesso quella forma di governo che dare voleva alla
città di Firenze.
Ma prima importava bene assicurarsi d’averla spogliata di tutte le
armi, delle quali per l’innanzi non era casa che non fosse piena; al
quale effetto erano usciti ripetutamente bandi severissimi, e le armi
consegnate furono senza numero. Ma perchè dalle spie, che erano a ogni
passo, fu rapportato che molti avevano nascosto in luoghi occultissimi
i migliori giachi, o altre più care armature, andavano i birri a
cercare nelle case insino a quelle dei più dichiarati amici dei Medici,
e ivi facevano da padroni: materia di colpa erano gli stessi arnesi
domestici, quando potessero divenire armi da offendere; avendone ad
alcuni gettate la notte per le buche delle cantine, entravano il giorno
dopo e gli accusavano. Le condanne andavano fino all’essere posti
in fondo di Torre a carcere perpetua, finoattantochè poi per grazia
del Principe n’erano liberati. Donde era grandissimo nella città il
terrore: comandava le esecuzioni un ser Maurizio da Milano, cancelliere
degli Otto, e usava tanta asprezza di parole e tanta crudeltà di fatti
nell’esaminare e nel dare i martori, e così brusca cera aveva, che solo
il vederlo metteva spavento, nè chi per le vie lo riscontrasse aveva
più bene quel giorno.[250] Vi era poi la forza dei soldati, i quali in
mano di Alessandro Vitelli pronti ad ogni cosa, tenevano questa come
una città nemica, ma bene costretta in sè a ricevere ogni forma che il
Papa volesse.
Stavano in Roma, con molti altri affezionati della Casa Medici, Iacopo
Salviati, parente del Papa, e Benedetto Buondelmonti ambasciatore
fiorentino: vi andò, chiamato, Filippo Strozzi; e questi e i due
Cardinali Salviati e Ridolfi quella vernata si ritrovavano a ristretto
quasi ogni sera in camera del Papa a ragionare sulla forma da dare
al Governo; tra’ quali Filippo metteva innanzi l’assoluto principato,
solo capace a rassicurare la Casa dei Medici ed i più scoperti amici
di essa, dicendo essere da levare la Signoria di Palazzo e tutti gli
ordini civili ed insegne pubbliche, dove potessero in tempi pericolosi
ricorrere e avere autorità i malcontenti; essere ancora più onesta
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