Storia della Repubblica di Firenze v. 3/3 - 03

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desiderio di gratificarsi i popoli: quindi la sera stessa co’ primari
della città consentì che Pisa fosse libera sotto alla Regia bandiera,
avendo molti cittadini a lui giurato fedeltà; occupava con le armi
sue la fortezza nuova, la vecchia tennero soldati armati in fretta
dai Pisani. I quali frattanto con indicibile allegrezza si diedero
a cancellare da per tutto le armi e a disfare quanti rinvenivano
Marzocchi o altre insegne dei Fiorentini: di questi in Pisa erano
tanti, che nella città deserta si dicevano essere in maggior numero dei
Pisani: uscirono molti sotto la guardia dei Francesi, e i principali
insieme col Re. Nè questi al partire era in sè ben certo qual forma
volesse dare alle cose dei Pisani, tirato, com’era suo costume, da vari
consigli. Aveva in quei moti grande mano Lodovico duca di Milano, il
quale bruciava di voglia d’avere Pisa perchè una volta ella era stata
dei Visconti, che la venderono, e il vedersela torre di mano fu prima
causa dell’alienazione sua dai Francesi.[17]
Il Re da Pisa muoveva tosto verso Firenze, avendo parte delle sue
genti mandato a Siena per altre vie. Ma perchè sapeva essere il popolo
Fiorentino in armi e in fermentazione per la cacciata di Piero,
soprastette a Signa alcuni giorni; e intanto andavano e venivano
ambasciatori della Repubblica, i quali togliendo al Re i sospetti,
regolassero l’ingresso suo nella città e pigliassero sicurezza contro
ai disegni che si agitavano intorno a lui, dei quali era grande il
timore. Imperocchè aveva egli mandato a invitare che tornasse Piero
de’ Medici; non che si fidasse più in lui che nelle inclinazione dei
Fiorentini verso Francia, ma perchè sperava con questa paura condurli
ai patti che a lui piacessero. Piero da Venezia ricusò tornare, per
consiglio (siccome fu detto) di quella Repubblica. A Signa proseguivano
le pratiche ed i festevoli apparecchi; e il Re, avendo detto che si
aggiusterebbe ogni cosa nella _gran villa_, faceva il giorno 17 di
novembre il suo solenne ingresso in Firenze. Ricevuto alla porta dai
Magistrati, venne alla chiesa di Santa Maria del Fiore per un largo
giro, egli tutto armato e con la lancia sulla coscia, sotto a un
baldacchino, che poi finita la cerimonia fu abbandonato alla rapina
della plebe, com’era usanza. Destavano ammirazione grande le ricche
vesti e le armi e le bardature e il portamento dei Baroni e Cavalieri
che in grande numero seguivano il Re: gridava il popolo _Francia,
Francia_. Carlo ebbe alloggio nella Casa dei Medici prestamente
raddobbata: qui furono lunghi e difficili i negoziati, chiedendo i
Francesi prima il dominio della città, dove il Re lasciasse un suo
luogotenente; poi scendendo tortuosamente ad altre intollerabili
pretensioni, secondo che, in mezzo a quel viluppo di cose, l’avarizia
o l’ambizione o la paura gli sollecitavano.[18] Imperocchè è certo
che il popolo aveva paura di loro, ed essi del popolo, in Italia,
ed in Firenze massimamente, dove era una vita del tutto ignota agli
oltramontani, e la potenza di una coltura dai sommi agli infimi
equabilmente diffusa. Poi le vie strette impedivano i soldati, ed
in questi era fama terribile del subitaneo levarsi in arme di tutto
un popolo al suono d’una campana e dell’accorrere dal contado. Certa
zuffa che nel Borgo d’Ognissanti destata per lieve cagione divenne un
tumulto, parve essere indizio di moti più gravi. Ma sopra ogni cosa
potè l’ardimento di Piero Capponi, il quale con gli altri ambasciatori
venuto per conchiudere gli accordi nella presenza del Re, all’udire
certe condizioni esorbitanti che un segretario leggeva, strappatagli
a un tratto di mano la carta, la fece in brani e gettò a terra; al
quale atto il Re gridando: _noi suoneremo le trombe_; replicava Piero,
_e noi le campane_; uscendo impetuosamente co’ suoi compagni dalla
sala. Non era già Carlo troppo male inclinato, e avea col Capponi
avuta in Francia dimestichezza; laonde richiamatolo e sorridendogli
familiarmente, quel giorno stesso fu sottoscritto l’accordo, pel
quale Firenze rimase libera e da quella escluso Piero dei Medici: per
le cose della guerra dovevano due ambasciatori seguire il Re, che ne
terrebbe due in Firenze, che intervenissero quando si trattasse cose
che importassero alla Lega; i Fiorentini pagare in sei mesi cento
venti mila fiorini d’oro; le fortezze cedute dal Medici rimanessero ai
Francesi finchè durasse la guerra, e le terre di Lunigiana fossero rese
alla Repubblica: rimanevano in sospeso le cose di Pisa. Fatto l’accordo
e dal Re giurato solennemente nel Duomo, questi che aveva in Firenze
dimorato dieci giorni, progrediva per la via di Siena.[19]
Non si appartiene al nostro assunto raccontare l’impresa di Carlo VIII
in Italia, nè le altre guerre che da questa ebbero causa e principio
infelicissimo: diremo i fatti solo a mostrare come si producessero, e
quali effetti ne seguitassero. Andato il Re a Siena, vi si trattenne
alcun poco e vi lasciò guardia, continuando il cammino direttamente
inverso Roma. Avea Ferdinando duca di Calabria, che tornava di
Romagna, avuta intenzione di fare testa in Viterbo; ma perchè il paese
tumultuava, ed i Colonnesi minacciavano da Ostia e dalle terre ch’erano
loro, indietreggiò fino a Roma, dove il Pontefice lo lasciò entrare,
sebbene con l’animo incerto e agitato da varie paure, massimamente
poi da quella che volesse Carlo insieme ai Prelati che lo seguitavano
promuovere nella Chiesa una riforma; pensiero a lui molto terribile.
Cercava pertanto rassicurarsi per via di negoziati, che furono lunghi
mentre avanzavano i Francesi; i quali essendo per un primo accordo
entrati in Roma mentre ne usciva il Duca di Calabria, si chiuse il
Papa in Castel Sant’Angelo; e i negoziati continuavano, infinchè
avendo conchiusa una lega col Re, lo accolse molto solennemente in San
Pietro, da lui ricevendo le dimostrazioni consuete. Ferdinando tornato
in Napoli, trovò gli animi in fermento per la memoria delle crudeltà
d’Alfonso e degli inganni da lui consigliati al padre suo, come teneasi
da molti: nè bastò ad Alfonso che gli avanzi della fazione Angioina
fossero distrutti, mostrandosi i popoli per odio di lui disposti
ad accogliere i Francesi: ond’egli agitato da questi terrori e dai
tormenti della coscienza, i quali abbatterono quell’animo tanto superbo
e feroce, non trovava requie nè il dì nè la notte, appresentandosegli
nel sonno le ombre di quei signori morti, e il popolo concitato che
cercasse il suo supplizio; fuggiva pertanto come forsennato dallo
spavento, e ricoverandosi con pochi legni in Sicilia, cedeva la corona
a Ferdinando: questi con l’esercito si raccoglieva in San Germano,
sperando vietare il passo ai nemici. Ma già i soldati impauriti e i
Capitani per salvare gli Stati propri, vacillavano di fede e d’animo; e
dietro alle spalle era il Reame in grandissima sollevazione. Levatisi
quindi vergognosamente da San Germano, si ridussero in Capua; nè in
questa potè fermarsi il nuovo Re, perchè Giovan Giacomo Trivulzio,
che aveva la guardia di quella città, facea con iniquo tradimento
segreto accordo co’ Francesi, ai quali rimase poi sempre fedele. Lo
stesso Virginio Orsini, che tanto fu innalzato dagli Aragonesi, mandava
prima agli stipendi di Carlo il figlio suo, e quindi da Nola chiedeva
ritrarsi con le sue genti. Così da tutti abbandonato il giovane Re,
avendo prima radunati sulla piazza del Castelnuovo, abitazione reale,
quanti potè dei Napoletani, gli discioglieva da ogni giuramento,
bruciava o affondava le galere che erano nel Porto perchè non venissero
in mano ai nemici, si opponeva con animo regio alla irrompente cupidità
o all’iniqua levità degli uomini che tutto sperano dalle cose nuove, ed
egli con la famiglia sua passava nell’isola d’Ischia. Carlo entrava in
Napoli a’ 21 di febbraio 1495.
Ma tosto s’avviddero i Francesi quanto poco fondamento avesse la troppo
facile conquista. Più attendevano a godersela che a darle fermezza,
insolentivano con la presunzione cresciuta in essi per l’altrui viltà;
il Re, intento ai suoi piaceri, non badava nè a fare giustizia nè
a mettere ordine nel governo: bentosto il falso amore dei popoli si
mutò in odio contro allo straniero. E intanto i Principi, non d’Italia
solamente ma d’oltremonte, si commovevano, quelli impauriti e questi
sollevati a nuovi pensieri dall’essersi accorti, l’Italia essere un
paese che in sè medesimo non aveva la propria difesa. Lodovico Sforza,
poichè ebbe veduto procedere innanzi rapidamente i Francesi, e che
gli ostacoli da lui sperati all’impresa loro cadevano tosto, entrò in
discorsi col Senato Veneziano, uscito al fine dalla ponderata inerzia
sua, e col Pontefice già disposto a entrare in quella Lega; la quale
però non ebbe effetto sin ch’ell’era di soli italiani: ma fu in Venezia
per ambasciatori solennemente conchiusa nel mese d’aprile, essendovi
entrato Massimiliano imperatore, allora col titolo di re de’ Romani,
e Ferdinando e Isabella che insieme tenevano il regno di Spagna.
Questi più volonterosi degli altri avevano mandata una loro armata in
Sicilia, di là preparandosi a portare la guerra in Calabria. Non era in
Italia più da soprastare pei Francesi dopo una Lega tanto formidabile;
e divenendo pericoloso l’indugio, il Re con la maggior parte
dell’esercito partiva da Napoli dopo tre mesi dacchè vi era entrato,
lasciati a guardia del Reame sotto Gilberto di Montpensier parte degli
Svizzeri e dei Francesi, e cinquecento uomini d’arme italiani che aveva
egli a soldo. Traversò Roma, donde il Papa ed il Collegio de’ Cardinali
si erano ritratti in Orvieto; e in Siena fermatosi alcuni giorni, senza
toccare Firenze, per la via più breve s’incamminò a Pisa.[20]
Le cose di questa città procedevano allora in tal modo; le dubbie
parole del Re ai Fiorentini e la grande propensione dei Capitani
francesi davano animo ai Pisani, che usciti al tutto dall’antica
suggezione, intendevano a fortificare di genti e d’armi lo Stato
loro, avendo a sè amiche le due città vicine di Siena e di Lucca,
e giovandosi del favore e degli aiuti che ad essi dava, benchè in
segreto, lo Sforza, ma scopertamente in nome proprio i Genovesi:
attendevano anche a liberare tutto il contado; e già cominciavano le
offese quando in Roma, essendo al Re venuti ambasciatori delle due
città nemiche, mandava questi il Cardinale di San Malò suo principale
ministro a comporre, come si diceva, le cose di Pisa; il quale avuto
con tale esca il rimanente dei danari al Re promessi dai Fiorentini,
e andato a Pisa, nulla fece, dando così ai Pisani del loro proposito
maggior conferma. Non è da dire se queste cose dispiacessero a Firenze,
dov’era grandissimo sospetto del Re che nel ritorno conduceva seco
Piero de’ Medici, e non si spiegava quanto alla via che piglierebbe per
traversare la Toscana.[21] Si aggiungeva che i Senesi aveano in quel
tempo fatto ribellare Montepulciano; talchè la Repubblica scoperta da
più lati e minacciata, si diede a mettere in città soldati rafforzando
le difese, intantochè a Poggibonsi gli mandavano per la seconda volta
ambasciatore il Savonarola, che bene accolto, ne riportava benigne
parole. Ma quanto a Pisa le incertezze duravano sempre, anche dopo
esservi entrato il Re, perchè i consigli erano divisi, potendo in
alcuni l’idea d’un diritto che stava pei Fiorentini, e l’oro sparso
da questi in Corte, ma nel maggior numero quel sentimento che è molto
vivo nei Francesi di farsi liberatori degli oppressi: muovevano Carlo
i pianti delle donne e dei fanciulli che udiva sotto alla sua casa, e
le supplicazioni delle più belle tra le Pisane che si raccoglievano a
mesto ballo intorno a lui.[22] Partiva da Pisa contuttociò in fretta
per la imminente guerra, nulla ivi mutando e con le solite promesse
ambigue alle due parti.[23]
Di già si formava innanzi a lui nelle gole dell’Appennino l’esercito
della Lega per chiuderne il passo: erano i Francesi in numero forse
meno che di ventimila, il Re avendone separate alcune squadre per
la conquista di Genova che i Fieschi e gli altri fuorusciti a lui
promettevano, ma inutilmente, come avean fatto con gli Aragonesi:
quindi traversava Pontremoli che si rese a patti, ma una vendetta
dei suoi soldati lo mandò a sacco e a filo di spada. Giunto il Re a
Fornovo sul fiume Taro, si trovò a fronte l’esercito veneziano che si
ordinava, e non molta parte di quello del Duca di Milano che aveva in
casa un’altra guerra, come bentosto diremo: insieme superavano di gran
lunga il numero dei Francesi. Era il 6 luglio quando i due eserciti
sul greto del fiume vennero a battaglia fiera e memorabile, sebbene
fosse di breve durata; un solo urto della cavalleria francese avendo
sbaragliati gli Italiani che attorno a quel punto già erano vincitori,
e che non seppero poi rannodarsi, massimamente perchè gli Stradioti,
milizie greche o albanesi al servigio dei Veneziani, veduto i bagagli
del Re abbandonati, uscirono dalla mischia per darsi al saccheggio. Il
Re combattendo animosamente corse due volte pericolo d’esser preso;
Francesco Gonzaga capitano dei Veneziani condusse quanto era in lui
virtuosamente la battaglia: ma la vittoria fu pei Francesi, che si
apersero la via con perdita assai minore di quella dei nemici. Non
osarono però assalirli di nuovo nel campo dove si erano raccolti; nè
dall’altra parte il conte Niccola Orsini di Pitigliano potè ai suoi
persuadere di tornare indietro contro ai Francesi disordinati, e
restaurare la battaglia. Il Re non senza difficoltà grande pervenne
in Asti dopo alcuni giorni. Questa città, era di pertinenza del Duca
d’Orléans, rimasta a lui dalla eredità di Valentina Visconti ava sua:
credeasi per questa avere un titolo su tutto il ducato di Milano, che
fino d’allora ambiva togliere allo Sforza; ed essendo lasciato dal Re
ivi a guardare la Lombardia, occupò Novara per sorpresa, e vi si era
fortificato. Lodovico Sforza, quando si fu riavuto dal primo spavento
ch’era sempre in lui grandissimo, arruolò in grande numero soldati
Tedeschi e Svizzeri, buoni a resistere ai Francesi più che non fossero
gli Italiani. Fu l’assedio lungo e vario di casi, avendo Carlo cercato
da Asti di liberare l’Orléans; crudele la guerra, la fame in Novara
miserabile oltre ogni dire. Già da Fornovo, Carlo aveva mandato il
Comines a trattare della pace separatamente con Lodovico, la quale ebbe
finalmente conclusione ai 10 di ottobre; e sciolto l’assedio, il re
Carlo VIII tornava in Francia.[24]
Mentre accadevano queste cose, i popoli delle provincie napoletane si
levavano per Ferdinando. Gaeta, che fu prima ad insorgere ne soffriva
pena crudele, i Francesi avendo fatta dei paesani orribile strage. Ma
le ribellioni moltiplicavano da per tutto; le quali a viepiù eccitare
ed a farsi un piede sulle coste dell’Adriatico, il Senato di Venezia
aveva mandato Antonio Grimani con ventiquattro galere; cui essendosi
unito con altre poche Federigo d’Aragona fratello d’Alfonso, occuparono
Monopoli in Puglia, che dagli Stradioti fu messo a sacco. Frattanto il
giovane Ferdinando passato in Sicilia, scendeva da Messina in Reggio
con gli Spagnuoli, pochi e poco buoni, ma condotti da quel Consalvo
di Cordova, a cui rimase nella posterità il nome di Gran Capitano che
aveva dal grado. Questi allora costretto dall’appassionata volontà
del Re ad avanzare fino a Seminara, ed ivi incontrato il d’Aubigny che
teneva la Calabria nel nome di Francia, furono sconfitti. Ferdinando,
tornato in Sicilia, formò un ardito e savio divisamento: avendo
raccolte quante navi potè rinvenire (ed erano ottanta male armate
e senza numero bastante di marinari), entrò con esse nel golfo di
Salerno, certo di empirle degli uomini che accorrerebbero a lui da
ogni parte. Nè s’ingannava, poichè essendosi accostato a Napoli,
vi entrava chiamato dal popolo in arme, che in città e fuori avendo
assaliti i Francesi sosteneva lungo e animoso combattimento: ciò fu
ai 7 luglio, giorno susseguente a quello del Taro. Giungeva notizia
d’altre città che si liberavano; e dentro a Napoli essendo i Francesi
chiusi nei Castelli, il Montpensier per inopia di vettovaglia era sul
punto di capitolare, quando altre schiere Francesi muovendo di Puglia
rinfrescarono la guerra intorno a Napoli.
Qui, anticipando i tempi, diremo come variamente si combattesse in
più parti del Reame, i Veneziani avendo al Re mandato il Marchese di
Mantova e seco una grossa schiera di soldati, a patto che Ferdinando
cedesse loro sull’Adriatico cinque delle città principali che
gli avrebbero fatti padroni di quel mare fin dove il suo nome si
tramuta in quello di Ionio. Fu lunga e aspra guerra, le due parti
contendendosi il grosso provento della dogana di Manfredonia su’
bestiami che in grandissimo numero dalla pianura di Puglia risalivano
ai monti d’Abruzzo. Una grossa mano di Tedeschi ai soldi di Ferdinando
resisterono fino a che tutti non fossero uccisi: gli Orsini e i Vitelli
si posero al soldo dei Francesi, i Colonna stando per Ferdinando,
contro al quale insieme raccolti facevano testa gli antichi Baroni
angiovini: e il Montpensier accorreva per dare forza ai suoi, quando
per mancanza di soldo essendo abbandonato dagli Svizzeri, dovette
chiudersi in Atella di Basilicata; ma crescendo le diserzioni e la
fame, e avendo Consalvo di Cordova con la prima e migliore tra le
grandi vittorie sue rotti a Laino i Baroni che andavano al soccorso
d’Atella, s’arrenderono i Francesi a patti, e la guerra cessava:
tornarono al Re le fortezze presso che tutte, ed i Baroni a lui
facevano ubbidienza: le ultime reliquie dell’esercito francese, ridotte
a numero piccolissimo nelle micidiali paludi di Baja, ottennero grazia
di tornare in Francia.[25]


CAPITOLO II.
NUOVA FORMA DI REPUBBLICA. — FRA GIROLAMO SAVONAROLA. [AN. 1495-1498.]

Poichè fu partito da Firenze Carlo Ottavo, la città libera da ogni
servitù si trovò addosso vario e molteplice e mal definito il peso
della insolita libertà. Nel giorno stesso in cui si erano fuggiti
Piero de’ Medici e i fratelli suoi, i loro contrari correndo alla
facile e pronta opera dell’abbattere, aveano abolito l’ufficio degli
_Otto_ e l’ordine dei _Settanta_ ed il Consiglio del _Cento_, nei
quali pareva che stesse la forza del caduto Governo, e avevano rivocati
dall’esiglio quanti erano stati banditi dal 1434 in poi come avversi
a parte Medicea. Sarebbono cominciate le vendette, ed un esattore
di gravezze odiato dall’infima plebe fu tratto a morte; ma gli altri
più invisi, per l’interposta di savi uomini, ebbero campo di fuggire.
Quando poi si venne a ordinare il nuovo Governo, non seppero altro da
principio che tornare sulle antiche orme, e decretarono si facesse un
generale squittinio di tutti coloro tra’ quali dovrebbonsi tirare a
sorte i magistrati; e per il primo anno, finchè lo squittinio non fosse
compiuto, gli uffici si dessero a mano da Venti Accoppiatori, nome di
già usato nel maneggio delle elezioni. Risuscitarono anche l’ufficio
dei _Dieci_, che prima si chiamavano di Balía ed ora di Libertà e Pace,
sebbene attendessero alla guerra: quindi si fecero anche gli _Otto_.
Ma i _Venti_ che in fatto venivano ad essere padroni della città, non
però avevano in sè nemmeno quella potenza che si appartiene ad una
fazione: insieme ad uomini di gran conto, v’erano di quelli che in
qualunque modo si trovarono a galla in quel giorno o seppero imporsi
alla città sopraffatta; scarso il numero di coloro che ai Medici
avessero in qualcosa resistito; taluni ve n’era persino dei loro più
sviscerati che ora si mostravano, come avvien sempre, i più zelanti.
Quindi erano varie e male accorte le scelte; non potean fare senza
coloro nei quali da tanti anni era la scuola delle pubbliche faccende,
nè avrebbero voluto, temendo le vecchie passioni dei ritornati, o il
nuovo scatenarsi di gente avida e corrotta: tra questi timori spesso
eleggevano agli uffici uomini inetti a camminare per le vie scabre
della libertà, e non di rado la Signoria usciva fuori per pochi voti,
essendo divisi gli animi e le voglie ed il pensare degli Accoppiatori.
Ma intanto al di sopra delle private insufficienze e delle passioni,
si alzavano quelli antichi spiriti popolari che a un tratto risorti,
a sè cercavano una forma: quella delle Arti avea perduto la virtù
sua, ed oggi l’ammirazione degli uomini si voltava alla Repubblica
di Venezia. Conoscevano essere fondata sul vero quella sovranità che
ivi risedeva nel Maggior Consiglio, dove i nobili rappresentavano i
cittadini qualificati: poteva dirsi che il governo di Venezia per tale
rispetto fosse un governo popolare. A questo miravano astrattamente i
voti dei più assennati, sebbene gli ambiziosi lo avversassero e i più
veggenti poco ne sperassero; ma quella sola via possibile si trovava
essere anche la migliore, ed il sentire del maggior numero spingeva a
tal fine. Poichè non avevano come a Venezia la nobiltà che segnasse
il grado, erano costretti cercare per la formazione del Generale
Consiglio quelli tra’ beneficiati o aggravezzati che avessero essi o
il padre, o l’avo, o il bisavo loro, seduto nei tre maggiori uffici:
questo era in Firenze il solo titolo d’aristocrazia, dentro alla
quale si raccoglievano uomini di varie qualità e colore, andando sino
alle famiglie di quelli che avevano tenuto lo Stato avanti al 1434.
Per entrarvi era necessario avere compiti ventinove anni, ed essere
netti di specchio: il numero incerto variava, essendo da principio di
ottocento, e poi volendosi che fosse composto di sopra mille cittadini.
A questo Consiglio si apparteneva l’autorità del fare leggi e la
elezione a tutti gli uffici, pe’ quali traevasi a sorte un certo numero
di proponenti, e i nominati da questi doveano poi essere approvati
nel Consiglio per la metà almeno dei voti più uno: perchè le prime
nominazioni fossero migliori, si dava un certo premio a chi avesse
proposto uomini che indi pe’ voti fossero vinti. Questo Consiglio
era il sovrano, come a Venezia, della città: spettava quindi a lui di
eleggere ottanta uomini da quarant’anni in su, che si scambiassero di
sei in sei mesi, potendo essere indefinitamente raffermati; l’ufficio
de’ quali fosse consigliare la Signoria ed eleggere gli Ambasciatori
e Commissari; le provvisioni vinte dai Signori e Collegi passassero
per le mani di questo Senato, per quindi avere la finale perfezione
nel Consiglio Grande. Avevano prima lasciato ai Venti l’elezione della
Signoria; ma questi essendo venuti a disciogliersi, andava pur essa nel
Consiglio Grande.[26]
Questa nuova forma di Repubblica, a tutti ignota e a molti spiacente,
fu accettata per la grandissima autorità di cui godeva allora in
Firenze Fra Girolamo Savonarola. Questi nato in Ferrara l’anno 1452,
vestiva in Bologna l’abito dei Domenicani riformati essendo nell’anno
suo ventitreesimo; e forse avendo un poco assaggiato le tempeste della
vita secolare; ma perch’egli s’era fuggito dal padre occultamente,
scusavasi a lui del fatto proposito, al quale gli erano stati motivi,
«la grande miseria del mondo, l’iniquità degli uomini che più non si
trova chi faccia bene;» ond’egli soleva dire con Virgilio: _heu fuge
crudeles terras, fuge litus avarum_: «e questo perchè io non potea
patire la gran malitia dei ciechati popoli d’Italia e tanto più quanto
i’ vedea le virtù essere spente al fondo, e i vizii sollevati; questa
era la maggior passione che io potessi avere in questo mondo.[27]»
Per la qual cosa pregava Dio che gli mostrasse la via d’uscire _da
questo fango_; e Dio l’aveva ora a lui mostrata degnandosi farlo
_suo militante cavaliero_. In questa lettera pare a noi che sia già
tutto intero il Savonarola. Vestiva quell’abito per farsi riformatore
religioso, riformatore dei costumi e della disciplina; appassionato,
ardito e ripieno della coscienza di sè stesso.
Aveva di lettere buona tintura: della filosofia sapeva molto, ed in
questa la precisione del suo linguaggio, l’elevatezza dei pensieri e
la franchezza dei giudizi, mostrano ch’egli avrebbe potuto esercitare
in Italia un apostolato di alte dottrine, se le tranquille meditazioni
dell’ingegno in lui non erano impedite dal cuore bollente e non di
rado anche dai sogni della fantasia. Ma innanzi tutto il Savonarola
era uomo religioso, mistico a un tempo e moralista: la scienza sua era
la Bibbia, dalla quale uscivano come da fonte viva e perenne i molti
suoi scritti editi e inediti intesi a dichiarare le Sacre Scritture, o
applicarle ad uso ascetico e morale. Il suo predicare tutto era nutrito
di bibliche ricordanze: pare a me che nella povertà nostra sia egli il
solo predicatore che noi possiamo ammirare anche oggi, tanto egli si
mostra efficace non per arte tribunizia e non per impeti inconsulti, ma
grave, ordinato, potente di quella che a lui era sola scienza; severo
altamente e ad un tempo familiare tra quanti mai fossero oratori,
l’indole sua ed i propositi a lui insegnando un certo suo fare per cui
sembra volgersi parlando agli ascoltatori suoi, uomo per uomo, e ad
ognuno era come se dicesse particolarmente a lui medesimo.
Fin da principio della sua predicazione fu riprenditore franco dei vizi
del Clero e più che mai di quelli più in alto locati; con quest’animo
era entrato in convento, ed era questa la sua milizia; tanto più acerbo
e veemente quanto più crescesse in lui l’alterezza di sè medesimo: non
poteva un forte sentire in cose di religione andare disgiunto dalle
acri riprensioni, nè vivere senza quella brama di riforme che tutti i
migliori aveano comune. In lui era fede che Dio vorrebbe torre via le
brutture della sua Chiesa e gastigare quelli che n’erano autori. Per
questa fede le sue parole pigliarono tosto affermazione di profezia,
nella quale tanto più s’incaloriva quanto più i tempi ingrossavano:
già un terrore cupo regnava negli animi degli Italiani ed agitava gli
uomini religiosi dopo ai principii del papato d’Alessandro VI e pe’
disegni di Carlo VIII. Gli eventi sembrarono verificare le profezie;
dipoi la guerra che a lui era mossa dai politici del Clero, e d’altra
parte l’assenso fanatico dei suoi più devoti, facevano che egli
ardente di fede, ma con l’animo in tempesta, cercasse rifugio a sè
medesimo nella sicurezza dell’uomo ispirato, allora sentendosi potente
a quella opera cui Dio lo chiamava. In fine a questa vedeva in mente
il sacrifizio della vita sua, non la grandezza; e se le passioni sue
e le altrui lo fecero qualche volta minore a sè stesso, nessuno lo
accusi d’artifizi calcolati. Abbattere il male con la potenza della
parola, ciò solo voleva, non alzare in contro all’altare profanato un
suo altare; ma co’ soli uomini corrotti e malvagi avendo battaglia,
non mai si trova ch’egli cercasse d’alterare in nulla non che le
dottrine ma nemmeno gli ordini della gerarchia. L’intera sua vita
e l’esame ch’ebbero i libri suoi da chi più l’odiava, fanno di ciò
fede certissima; era egli uomo essenzialmente italiano, e la natura
e le tradizioni nostre negano a noi la facoltà e la voglia d’alzare
i trovati del nostro intelletto fuori del sentire universale, di
confidarsi troppo in una dottrina da noi vista nascere, e d’inventare
noi stessi una forma per quindi adorarla.
Da più anni era il Savonarola venuto a Firenze nel convento di San
Marco, e predicava con grande fama di santità e dottrina, minacciando
flagelli grandissimi e tribolazioni; tantochè Lorenzo de’ Medici, al
quale lo stato presente pareva essere molto buono, lo fece ammonire che
parlasse poco _de futuris_.[28] Nell’intervallo era dimorato qualche
tempo in Brescia, la Provincia di Lombardia facendo allora tutt’uno
con quella di Toscana, finchè lo stesso frate Girolamo non ottenne da
Papa Alessandro che la Congregazione dei Frati Predicatori di Toscana
si reggesse come Provincia da sè; la quale cosa lo fermò in Firenze.
Si diede allora tutto alla riforma del Convento del quale fu Priore.
Ai Domenicani stretti era vietato il possedere, ma da un cinquant’anni
trascorsa la disciplina, avevano terre e case di molta rendita: il
Savonarola in poco tempo vendè ogni cosa; ma tanta era la devozione che
per lui ne venne al Convento da bastare a un numero sempre crescente
di Frati; i quali di cinquanta ch’erano prima, si moltiplicarono fin
oltre a dugento. Aveva comprato la Casa in Via della Sapienza, dove per
lascito di Niccolò da Uzzano dovea risiedere lo Studio, e che venne
unita a San Marco per via d’un passare sotterraneo a traverso la via
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