Storia della Repubblica di Firenze v. 3/3 - 13

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stato eletto pontefice col favore di Cesare; onde questi non poteva
contentarsi con lui dei patti che aveva promessi Adriano, ma intendeva
che la spesa dovesse cadere sopra di lui, come Leone l’aveva da
principio consentita. Stringeva il Papa tanto più arrogantemente quanto
più vedeva questi essere debole per ogni rispetto; ed alla scusa del
vuoto erario, minacciando rispondeva facesse pagare i Fiorentini: il
che era al Papa toccare un tasto molto spiacente. Questi ebbe natura
capace al maneggio di cose dubbie nella città sua, più che al governo
di tanta gran mole qual era il papato; la sua reputazione cadde
quando egli dovette da sè risolvere quelle cose delle quali era stato
ministro sotto al cugino e pareva esserne egli autore. Leone a lui
dava il primo concetto e le ultime risoluzioni; poi, tra incuranza e
accortezza, si nascondeva. Clemente, rimasto senza quella guida, fu
incerto e infelice; quella stessa conoscenza delle cose, che aveva
grandissima, gli era cagione di più intricarsi: in sè medesimo non
fidando, cercò afforzarsi di consiglieri e trovò padroni, i quali,
quando erano discordi tra loro, tiravano il Papa in contrari versi;
ed egli poi credeva migliore il partito che prima era stato condotto
ad abbandonare.[146] Poteva Leone credersi al suo tempo, con l’ampio
Stato e il molto danaro, capace a inclinare le sorti pendenti tra
Francia e Spagna; Clemente invece trovò lo Stato consumato dalle guerre
e dalla smodata prodigalità di Leone; trovò il rispetto al pontificato
distrutto dai vizi e dai disordini dei precedenti regni, l’Italia piena
d’eserciti, e la Cristianità indebolita per la perdita di Rodi e per la
preparazione che faceva il Re de’ Turchi contro all’Ungheria; trovò che
la sètta Luterana aveva già tolto alla Chiesa gran parte d’Allemagna,
e del continuo andava:[147] talchè si può dire, che se Leone moriva
in tempo per il suo nome e pei suoi piaceri, Clemente invece saliva al
regno appunto allora quando le cose tutte volgevano a ruina.
Sgombrata l’Italia il Conestabile di Borbone, a cui doveva essere
prezzo del tradimento un regno in Francia, ebbe permesso da Carlo
V d’invadere con le armi vittoriose la Provenza: egli medesimo e il
Marchese di Pescara conducevano con forte esercito quella impresa, che
da principio fortunata, dovette fermarsi innanzi Marsilia cui avevano
posto assedio. La difendevano, oltre a un nerbo di Francesi, cinque
mila soldati italiani con Renzo da Ceri, intanto che altri italiani
fuorusciti stavano sotto alle bandiere del re Francesco, il quale a
grandi passi discendeva per la liberazione di Marsilia. Ottenne allora
grandissima lode il Marchese di Pescara persuadendo, contro al volere
del Borbone, la ritirata, ed egli stesso poi conducendola per quelli
aspri luoghi delle basse Alpi, dove la molta sua scienza di guerra
salvò l’esercito. Questo usciva dalle Alpi nelle pendici di Lombardia,
il giorno stesso che il re Francesco, tiratosi indietro alla sua volta
e ripigliate le vie solite verso Italia, entrava in Vercelli. Non
s’appartiene all’assunto nostro narrare i fatti per cui si venne a
quella battaglia di Pavia fra tutte celebre pei grandi effetti che ne
seguitarono. Essendo i Francesi entrati in Milano, Antonio da Leyva
si gettò in Pavia tosto assediata dal re Francesco con tutto il fiore
della nobiltà francese e un forte esercito che egli da se stesso ambiva
condurre: andava come ad un tornèo, dispiegando il regio suo grado in
lui congiunto alla prodezza del cavaliero. Incontro aveva la costanza
d’Antonio da Leyva, e intorno era offeso con guerra incessante dalla
perizia del Marchese di Pescara che fu in quei fatti grande capitano.
La città essendo fortificata contro ogni assalto, durò l’assedio
quattro mesi, nè parve al Re di sua dignità levarlo quando il Pescara
gli si voltò addosso rinforzato da più migliaia di Tedeschi discesi
allora dalla Germania. Francesco si era fortificato dentro al Parco
di Mirabello, luogo da caccia degli Sforza, quando ai 24 di febbraio
del 1525 il Pescara avendo rotti a forza i muri del Parco, si fece
là dentro orrenda battaglia e strage grandissima, dove perirono molti
principi e signori e capitani dei più rinomati nelle armi di Francia;
il Re, combattendo in mezzo a’ suoi, cadde prigioniero. Gli Spagnoli
col ricco bottino si compensarono delle paghe ad essi mancate per
tutto l’assedio: il Re condotto nella fortezza di Pizzighettone, fu ivi
ritenuto con grande ossequio e buona guardia.
Io non so quale fosse maggiore ed all’Italia più nociva, se la
debolezza prodotta in essa dai vizi antichi, o la presente ignavia
dei consigli; prudenza ultima che, prostrando gli animi, rende
impossibili i rimedi. La Francia si era più risentita che abbattuta
per la sconfitta e la prigionia del Re: la governava allora una
donna di stirpe italiana, Luisa di Savoia, madre di Francesco; e
perchè i popoli anelavano ad una riscossa, faceva istanze ai Principi
dell’Italia per averli uniti seco in un grande sforzo ch’entrambi
salvasse. Agli eserciti Spagnoli mancava il danaro, se non lo traessero
dai luoghi stessi e da quei Principi astretti a comprarsi per tale
modo una trista vita; non erano ancora usciti d’Italia poche migliaia
di Francesi mandati prima contro a Napoli sotto al Duca d’Albania
con le amicizie di Casa Orsina; i Veneziani, sebbene prudenti per
animo e per necessità, faceano pratiche presso al Pontefice perchè si
unisse a loro cercando un riscatto per via d’una lega comune d’Italia.
Clemente, legato dalla sua propria irresolutezza, metteva indugi.
Lo avrebbe chiamato ai forti consigli la molta ampiezza dello Stato
che egli possedeva tra suo e della Chiesa dal Po fino al Tronto e al
Garigliano; lo rattenevano il poco fidarsi dei Veneziani che al maggior
uopo non lo abbandonassero, e l’erario della Chiesa vuoto, e i popoli
stanchi e male affetti. Ma venne a rompere le dubbiezze un uomo che
molto sopra lui poteva. Fra Niccolò Schomberg, arcivescovo di Capua,
tedesco ma stato frate di San Marco nei tempi del Savonarola. Tornato
da Cesare, persuase al Papa la conclusione d’un trattato di Lega, nel
quale venivano inchiusi i Fiorentini e la Casa Medici, con lo sborso
di centomila ducati rimasti indietro dai pagamenti a cui si erano
obbligati. Del che in Firenze fu qualche rumore; e perchè nell’Arte
della Mercanzia taluni dei Consoli facevano segno di resistenza, ne
furono cinque privati d’ufficio, o come tuttora dicevano, ammoniti e
messi a confino dentro al contado.[148] I Fiorentini, di cuore più che
mai francesi, senza gridare avrebbero pagato quando fosse per unirsi
a loro: ed è anche poi vero che i Francesi per tutta Italia destavano
sdegni subiti, ma il mescolarsi con essi aveva le agevolezze sue, che
mai non furono co’ Tedeschi nè con gli Spagnoli. Rubavano, e il tolto
poi si godevano co’ derubati; da noi pigliavano le mode, il lusso e
molte colture della vita; Francesco I chiamava in Francia gli Artisti
italiani e gli teneva in grande onore. Ma per contrario gli Spagnoli
sapevano meglio dare fiducia di sè stessi ai Principi e agli uomini
che s’intendevano di governo, perchè avendo essi maggior sodezza
di consigli, avveniva che nel trattare con loro si andasse con più
sicurezza.
Per questi modi avevano prima l’avo Ferdinando e ora Carlo V fondato
in Italia la signoria spagnola. Spiegava il giovane Imperatore di
tanti Stati una prudenza e un’arte consumata nel governare la guerra
in Italia e la politica, per via di ministri e di generali spagnoli e
stranieri. Ma la fortuna gli era stata oggi sì larga da soverchiare
nel vincitore le forze dell’animo; la prigionia del suo rivale gli
fu tal dono, che a rispondervi non bastavano gli accorgimenti che
bene stanno nei casi ordinari. Usò egli male quella sua vittoria,
che a lui fruttava una sequela di lunghe guerre e spendere tutta
la vita sua per mantenere quello che il caso di Pavia gli aveva già
dato: se avesse avuto la forza d’alzarsi ad un atto generoso, avrebbe
egli vinto davvero e ad un tratto Francesco I ed i suoi Francesi. Ma
protestando non rallegrarsi della vittoria se non al fine di tutte
volgere contro al Turco le armi cristiane pacificate, chiedeva la
Provenza e la Borgogna, Provincie grandi e nobilissime, come taglia
per la liberazione della persona del Re: se si fosse contentato d’una
forte somma di danaro, che a lui mancò sempre, e della cessione di
qualche fortezza o di un confine controverso, la Francia con gioia
pagava il riscatto. Francesco intanto, contro al volere del Pescara e
del Borbone, quasi di furto era per mare condotto in Ispagna dal vicerè
Lannoy che aveva il segreto del suo Signore. Chiuso nel castello di
Madrid, non fu da Carlo mai visitato, infinchè il tedio della prigionia
non ebbe ridotto quella gioventù impaziente di Francesco in tale stato
di languore che venne a Carlo grande paura non morisse; il ch’era
lasciarsi fuggire il pegno di mano. D’allora in poi adoperando seco
le seduzioni dell’amorevolezza, condusse quell’animo leggero e molle
fino alla conchiusione di un trattato pel quale Francesco dava l’Italia
a Carlo V, e si obbligava alla cessione della Borgogna pel solo fine
d’ottenere egli la libertà della persona sua, con che però andassero
in Ispagna prigioni in sua vece due suoi figli. Lo scambio avvenne a’
18 marzo 1526: Francesco tornò allegro ai piaceri della sua Corte, ma
d’allora in poi avendo perduto insieme col fiore della giovinezza prima
le gioie superbe dei combattimenti, non ebbe più altro che il fasto
dei vizi, e fu re povero di consigli e senza fede; perdè in Pavia per
questo modo anche l’onore.
Quell’anno che scorse durante la prigionia di Francesco I fu in Italia
senza guerre. Ma intanto l’imperatore Carlo V non ratificava la Lega
col Papa, tenendo parte delle sue genti a vivere sulle terre della
Chiesa, poichè non bastavano i campi Lombardi alla sempre avida penuria
degli Spagnoli; e crudelissimo fra tutti Antonio da Leyva spremeva
danari dalla città di Milano con ogni maniera d’estorsioni.[149] Il
duca Francesco Maria Sforza, chiuso nel Castello, aveva intorno come un
assedio di soldati dell’Imperatore, il quale alzando già l’animo alla
signoria d’Italia, disegnava levarsi d’intorno quell’ombra di Duca. Ma
ecco formarsi nel nome di questo un fino disegno: ne fu inventore il
suo principal ministro Girolamo Morone, ingegno grandissimo di uomo
politico, per quello che i tempi allora ne davano; il che vuol dire
ardito e scaltro ma senza fede, macchinatore da un giorno all’altro
di vari disegni, pronto a voltarsi dovunque il caso e la fortuna lo
attirasse, rendendosi accetto al nuovo padrone col farsi egli stesso
accusatore dei tradimenti che aveva orditi il giorno innanzi. Doveva
una Lega sottrarre l’Italia al giogo spagnolo; vi entravano Francia,
Venezia e il Papa: i modi già fermi, le parti assegnate. Ma il forte
stava nell’ottenere che il Marchese di Pescara consentisse, alzando
bandiera di ribellione a Carlo V, farsi re in Napoli che egli avrebbe
conquistata con le armi comuni. Svelava il Morone a lui quel disegno;
ma qui l’istoria si aggira tra inestricabili incertezze, non essendo
ben chiaro se l’ambizione tentasse il Pescara, o se da principio
volesse mandare innanzi le pratiche infinchè non ne avesse tutte in
mano le fila, o se piuttosto non si tenesse aperte due vie, non bene
sapendo chi poi da ultimo avrebbe tradito. S’appigliò infine a quel
partito che al suo nome era il più onorato e che dalla moglie Vittoria
Colonna gli era come imposto con alte parole: ma pure seguendo la
trista usanza di quei tempi, avendo in Novara chiamato il Morone, lo
dava in mano d’Antonio da Leyva. L’Italia non ebbe salute da quegli
uomini: il Pescara, già infermo, moriva tuttora giovane poco tempo
dopo; divenne il Morone, di prigioniero, ministro e guida e caldo amico
degli Imperiali.
Francesco I, quando per la libertà sua cedeva una parte della Francia,
donava quello che suo non era; ed un’Assemblea di Grandi del regno,
da lui radunata nella città di Cognac, annullava quella capitolazione
che egli in Madrid avea sottoscritta: si tornò in guerra, ed una
Lega fu tosto conchiusa tra ’l Papa, il Re, i Veneziani e il Duca di
Milano, ai quali si offriva il Re d’Inghilterra prestare soccorso.
Aveva Francesco promesso mandare un esercito in Lombardia, che mai
non venne; già le fortezze di tutto il Ducato erano in mano degli
Imperiali sotto la condotta d’Antonio da Leyva e di Alfonso D’Avalos
marchese del Vasto cugino al Pescara; il duca Francesco Maria Sforza
era chiuso nel Castello di Milano, e la città spesso in ribellione
contro agli Spagnoli che la trattavano crudelmente. Dalla parte della
Lega comandavano alle genti pontificie Guido Rangone, alle fiorentine
Vitello Vitelli; Giovanni dei Medici era capitano generale delle
fanterie italiane, Francesco Guicciardini luogotenente del Papa con
autorità presso che assoluta. L’esercito Veneziano, cui era commesso
fare l’impresa di Milano sotto al comando del Duca d’Urbino, procedeva
con tali cautele che apparivano soverchie, sebbene consuete a quel
Capitano, e già da più anni alla Repubblica di Venezia. La Francia,
che si era obbligata per la Lega a fare a sue spese scendere Svizzeri
in Italia, non pagò il danaro; e quell’aiuto sempre aspettato non
giunse mai. Lo Sforza, costretto dalla lunga fame, cedeva il Castello;
nè il Duca d’Urbino fece mossa per soccorrerlo, nè altra impresa che
l’espugnazione di Cremona. Invano era egli sollecitato di assalire
Genova per terra, contro alla quale muoveano le navi di Francia con
Pietro Navarro, e quelle del Papa che Andrea Doria conduceva, e quelle
dei Veneziani; ma non bastava l’assalto dal mare, e già si sapeva che
il vicerè Lannoy salpava dalla Spagna con molte navi. Questi però,
nel passare dinanzi a Genova per andare a Napoli, non avrebbe osato
impegnarsi contro a tale armata e a capitani tanto eccellenti; i quali
essendo usciti fuori ad infestare la sua via, gli presero alcune navi
della retroguardia e gli arrecarono molti danni prima ch’egli giungesse
a Gaeta dov’era diretto.[150]
Il Papa intanto non si teneva bene sicuro quanto alle cose di Roma
stessa e di Firenze; gli dava sospetto l’avere tramezzo alle due parti
del suo dominio la città di Siena che allora viveva nella ubbidienza
degli Spagnoli: mandava soldati in compagnia di fuorusciti, che ne
mutassero il governo; ma erano delle novelle Ordinanze, e per la viltà
loro falliva il disegno. Volle anche il Papa assicurarsi nella città
di Firenze contro ai nemici di fuori e di dentro, fortificando alcuni
luoghi del contado e tutto il giro delle mura dal lato d’oltrarno, con
l’aggiungervi baluardi che andassero dalla porta San Miniato su nel
Poggio di Giramonte. Condusse i lavori Antonio da San Gallo, insigne
architetto, ma sotto alla direzione del Navarro chiamato a tal fine,
uomo di molta scienza ed invenzione, che aveva può dirsi creata l’arte
delle mine, dalla quale ottenne effetti mirabili; per suo consiglio
furono abbattute le altissime torri che erano a Firenze come una
ghirlanda, e n’ebbe il popolo forte sdegno.[151]
Era in Italia per Carlo V Ugo di Moncada, il quale adopratosi molto a
dissolvere quella Lega, perchè trovò saldo essere quella volta l’animo
di Clemente, dopo avere usato in Roma superbi dispregi, pigliò altre
vie. Si vantava egli essere discepolo del Valentino, e ordì una trama
con la famiglia dei Colonna, i quali potenti intorno a Roma di castelli
e di vassalli, si armarono: il Papa s’armò anch’egli, ma Vespasiano
di quella famiglia, molto in favore presso Clemente, lo condusse ad un
trattato per cui promettevano i Colonna ritrarsi nelle altre loro terre
fuori dello Stato della Chiesa: il Papa licenziò i soldati. Quando ecco
una notte, Pompeo cardinale ed altri Colonna e lo stesso Vespasiano
con alcune migliaia d’armati tornati indietro, entrano per la porta di
San Giovanni Laterano, e traversate quelle parti deserte di Roma si
raccolgono al palazzo dei Colonna, donde continuarono per le vie più
abitate della città; nè il popolo si mosse. Diritto andarono al Palazzo
del Vaticano, donde il Papa si era fuggito in Castel Sant’Angelo;
e allora quelle orde, per tre ore abbandonatesi al saccheggio del
tempio stesso di San Pietro e degli appartamenti pontificali, rapivano
i mobili più preziosi, i vasi e gli ornamenti sacri, spogliavano
all’intorno le abitazioni dei Cardinali; finchè dai cannoni di Castel
Sant’Angelo furono costretti raccogliersi carichi di bottino alle
case dei Colonna. La notte medesima in Castel Sant’Angelo Clemente
sottoscriveva un accordo col Moncada, per cui s’obbligava a richiamare
i soldati della Chiesa di qua dal Po, e le navi d’Andrea Doria
dall’assedio di Genova, dare assoluzione ai Colonna e ostaggi di sua
famiglia nelle mani degli Spagnoli. Per quell’accordo svanirono i sogni
ambiziosi di Pompeo, al quale il Moncada avea fatto balenare dinanzi
agli occhi la deposizione di Clemente e forse il papato: al Papa stesso
era un preludio vergognoso di giorno più tristo.
Appena fu principiato ad eseguire quell’accordo che si chiamò Lega,
tutti furono addosso a Clemente mostrando a lui ch’egli sarebbe
l’uomo il più vituperato che fosse al mondo se lo avesse mantenuto.
E da Firenze gli Otto di Pratica, che avevano il pondo di tutto il
governo, mandarono Francesco Vettori molto suo confidente a dirgli che
male poteano reggere la città.[152] Fu molto lungo l’andare e venire
tra ’l Papa e il Moncada, che romperla seco apertamente non voleva;
e già il luogotenente Guicciardini era venuto indietro fino a Parma;
e il Duca d’Urbino, che volentieri si riposava, standosi in Mantova
non faceva nulla. Giovanni de’ Medici solo continuava quant’era in
lui la guerra per fato d’Italia. Imperocchè in quei giorni stessi
Alfonso da Este, per la promessa di riavere Modena e Reggio, s’era
accordato con l’Imperatore, non che si volesse troppo dimostrare, ma
intanto aveva mandato al campo degli Spagnoli quattro falconetti, che
a loro furono troppo grande aiuto. Giovanni de’ Medici non lo sapeva,
e nella credenza che i nemici non avessero artiglierie combattendo
presso a Borgoforte, si avanzò troppo sino a che la palla d’uno di
quei falconetti non lo feriva in una gamba, la quale convenne gli
fosse tagliata; ed egli moriva in Mantova dopo quattro giorni. Grande
uomo di guerra, che non avendo ancora ventinove anni, già si mostrava
oltrechè prode sopra ogni altro soldato d’Italia, capace a condurre
qualunque esercito: combatteva per allora con quelle sue Bande, che
dopo lui tennero il colore nero e il nome onorato. Pareva egli mettere
l’anima sua nelle battaglie: della sconfitta di Pavia fu creduto essere
stata causa non ultima che Giovanni vi mancasse, perchè ferito poco
innanzi, aveva dovuto farsi trasportare fuori del campo. Il Machiavelli
scrivendo al Guicciardini consigliava bene Clemente, facesse al signor
Giovanni rizzare una bandiera di ventura per fare guerra dove gli
venisse meglio:[153] era un partito capace a salvare (se modo v’era)
l’Italia e Roma. Dalla moglie Maria Salviati, figlia d’una figlia di
Lorenzo de’ Medici, lasciava Giovanni un fanciullo di sette anni, di
nome Cosimo, che in Toscana fu primo Granduca.
Allora senz’altro le bande fatali dei Lanzichenecchi varcarono il Po,
cui agognavano da gran tempo. Ne aveva condotti un qualche numero di
Germania il Contestabile di Borbone insieme a un soccorso di soldati
dell’Impero, e fecero molto in quelle fazioni che ebbero termine a
Pavia. Poi si disciolsero mentre i Turchi devastavano l’Ungheria,
dove fu morto in grande battaglia l’ultimo Re della stirpe nazionale
di Santo Stefano. Ma Solimano, dopo avere conquistata Buda, tornava
indietro all’improvviso; il che diede agio all’arciduca Ferdinando di
aggiungere alla Casa d’Austria il regno d’Ungheria, com’egli aveva già
per la moglie quello di Boemia. Quando la guerra in Italia si raccese,
il vecchio Giorgio Frunsdberg, uomo principale tra’ Lanzichenecchi,
fattane in Trento una chiamata, ne raccolse intorno a sè quattordici
mila, i quali formarono un corpo franco, senz’altro soldo che di uno
scudo pagato una volta, ma in Italia tirati dalla sete delle rapine
e dei piaceri. Si componevano di borghesi delle città e di quella
nobiltà inferiore che viveva nei Castelli co’ suoi vassalli e dipendeva
direttamente dall’Impero; dura e fiera gente a cui la guerra era ogni
cosa, e dove Lutero trovò la sua forza: l’Italia odiavano d’odio
antico, e Roma odiavano come Luterani. Giorgio Frundsberg andava
innanzi co’ suoi minacciando la vita stessa del Papa; nè avrebbero
disdegnato di saccheggiare Firenze co’ ricchi suoi drappi di seta e
il molto oro dei suoi mercanti e col grande nome che aveva nel mondo
questa città. Molto si temeva che i Lanzichenecchi volessero per
la via di Pontremoli entrare in Toscana; ma indugiarono lungamente,
devastando le provincie di Modena e Parma, senza fare imprese dove
la fatica fosse troppa rispetto al guadagno. Aspettavano il Borbone
che a loro si unisse con gli Spagnoli ch’erano in Milano; ma questi
negavano ostinatamente di abbandonare il grasso vivere che ivi facevano
con l’oppressione esorbitante dei poveri cittadini, e non si mossero
finchè il Leyva con altre estorsioni e più inique non avesse spremuto
danari, dei quali potessero i soldati contentarsi. Tedeschi e Spagnoli
si univano allora di qua dal Po sotto al Borbone, ma era incerto da
quale parte anderebbe à volgersi la tempesta. Bene potevano a stornarla
bastare le forze che aveva il Papa in Lombardia, perchè oltre ai
soldati suoi propri e che erano condotti da Guido Rangone, combattevano
per la Lega gli uomini d’arme francesi e svizzeri, i quali ubbidivano
al Marchese di Saluzzo; e il Duca d’Urbino con tutto l’esercito
dei Veneziani. Francesco Guicciardini luogotenente generale aveva
ottenuto che i due primi passassero il Po; e da Bologna, dove si era
trasferito, sollecitava con lunghe istanze il Duca d’Urbino si unisse
con gli altri alla difesa del Papa; ma il Duca aveva un suo disegno
di cauta lentezza, dal quale in nessun modo si voleva dipartire:
un altro pericolo aveva frattanto commosso l’animo di Clemente. Gli
Spagnoli che abbiamo veduti passare dinanzi a Genova col Signore di
Lannoy, discesi al porto di Santo Stefano in Toscana, potevano tosto
condursi a Roma, dove le difese erano scarse, poichè un assalto dal
Papa tentato sul Reame finiva col guasto dei luoghi forti e delle ville
dei Colonnesi. Clemente allora, com’era consueto, si diede a cercare
accordi, ai quali trovò inclinato il Vicerè per le istruzioni che seco
aveva recato di Spagna, di non procedere troppo innanzi contro al Papa,
nè troppo commettersi al Borbone ed ai Tedeschi, i quali facevano le
cose di proprio loro capo, senza molto dipendere dall’Imperatore. Il
Vicerè della persona sua veniva in Roma ed a Firenze, donde era bisogno
cavare il danaro che al Papa mancava: non era questi solito abusare
le cose sacre, quanto Leone ed altri avevano fatto, nè mai si ridusse
a creare Cardinali per moneta, sebbene potesse averne oltre a cento
mila ducati; gli stava appresso Matteo Giberti vescovo di Verona,
uomo da bene, da lui molto amato. L’accordo si fece, ma perchè avesse
esecuzione bisognava fermare il Borbone, al quale i danari sempre
erano pochi, per la grande voglia che avevano egli ed i suoi soldati
d’andare innanzi. Il Guicciardini scriveva in Roma, che senza un forte
provvedimento _sarebbero stati una mattina presi nel letto_: il Papa
invece fidandosi, licenziava in quelli estremi Renzo da Ceri e le Bande
Nere chiamate alla guardia di Roma stessa; e il Borbone procedeva, e
traversati gli Appennini era entrato in Toscana. Guido Rangone e il
Marchese di Saluzzo e il Duca d’Urbino lo seguitavano disuniti fra
loro e lontani. I nemici erano in Val d’Arno, entrativi dalla parte
d’Arezzo, e guastavano il paese; ma intorno a Firenze giungevano in
tempo i soldati della Lega: la città fu salva, ma poi vedremo da quale
tumulto fosse agitata. Prometteva il Duca d’Urbino al Guicciardini
pigliare un qualche forte alloggiamento quanto più potesse accosto ai
nemici, donde vessare quelle sbandate soldatesche, tanto da impedire
ad esse il raccogliersi e andare innanzi; ma nulla fece allora nè poi:
e il Borbone, camminando spedito senza artiglierie, apparve a’ 4 di
maggio 1527 su’ prati di Roma da quella parte che è tra ’l Gianicolo e
San Pietro.[154]
Ai 5 il Borbone ordinò le genti sue, e la mattina del 6 appresentò la
battaglia dove il Borgo non aveva muro continuo, ma ben vi era fatto
qualche riparo di terra. Sul primo mattino la nebbia era grande, la
quale impediva ai difensori dirizzare le artiglierie; dentro erano
poche milizie di conto e servitori armati del Papa e dei Cardinali,
ma combatterono gagliardamente e al primo assalto ributtarono i
nemici. Voleva il Borbone fargli tornare ai ripari, e andando innanzi
agli altri fu morto da un colpo d’archibuso: il traditore non giunse
al premio del suo delitto. La mischia divenne più fiera e confusa;
il Cardinale dei Pucci, vecchio e debole, stette sempre in mezzo,
confortando i difensori e ingiuriando di parole gli avversari, finchè
mezzo morto non fu tirato nel Castello, dove il Papa si era fuggito a
gran fatica nel corridore; e vi si ridussero molti Signori e Cardinali.
Fu preso il Borgo, dove i soldati non trovando molto da rubare dopo
il sacco che avevano fatto quivi e in palazzo i Colonnesi, andarono
per la via di Trastevere, benchè rimasti senza capo, ma uniti alla
preda; e perchè ai ponti non era guardia, entrarono nella parte di Roma
abitata e ricca. «Ammazzarono chi vollero; predarono le piccole case,
le mediocri, le botteghe, i palazzi, i monasteri d’uomini e donne, le
chiese: feciono prigioni tutti gli uomini e donne ed insino ai piccoli
fanciulli, non avendo rispetto a età, nè a sacramenti, nè a cosa
alcuna. L’uccisione non fu molta, perchè rari uccidono quelli che non
si vogliono difendere; ma la preda fu inestimabile di danari contanti,
di gioie, d’oro e d’argento lavorato, di vestiti, d’arazzi, paramenti
di case, mercanzie d’ogni sorte; ed oltre a tutte queste cose, le
taglie che montarono tanti danari, che chi lo scrivesse sarebbe tenuto
mentitore. Ma chi discorrerà per quanti anni era durato a venirvi
del continuo danari di tutta la cristianità, e la maggior parte
d’essi restava; chi considererà i cardinali, i vescovi, i prelati,
gli ufficiali che erano in Roma; chi penserà quanti ricchi mercanti
forestieri, quanti romani, i quali vendevano tutte le loro entrate
care, ed affittavano le loro case a gran pregio nè pagavano alcuna
tassa o gabella; chi si metterà innanzi agli occhi gli artigiani,
il popolo minuto, le meretrici; giudicherà che mai per tempo alcuno
andassi città a sacco di quelle che s’abbi memoria, donde si dovesse
trarre maggiore preda.[155]» Alle rapine si aggiungeva lo scherno;
prelati seminudi condotti per Roma o esposti all’insulto nei quartieri
dei soldati. Era una vendetta covata nei secoli, e Roma e l’Italia in
quel giorno ebbero punizione: le ingiustizie d’allora in poi mutarono
sede, avendo sostegno da una forza più ordinata, ma insieme più dura e
più materiale. Il sacco più giorni continuato cessava, quando il Papa
ebbe consentito rimanere prigioniero degl’Imperiali con asprissime
condizioni: lo Stato intero della Chiesa venne a dissolversi, quello di
Firenze già era caduto di mano a Clemente.


CAPITOLO VII.
NICCOLÒ MACHIAVELLI — FRANCESCO GUICCIARDINI MICHELANGELO BUONARROTI.
DESCRIZIONE DELLA CITTÀ E STATO DI FIRENZE.

Pochi giorni dopo a che erano avvenuti questi fatti, moriva Niccolò
Machiavelli. «L’universale per conto del suo Principe l’odiava: ai
ricchi pareva che quel libro fosse stato un documento da insegnare al
duca Lorenzo tor loro tutta la roba, e a’ poveri tutta la libertà. Ai
Piagnoni pareva ch’ei fosse eretico, ai buoni disonesto, ai tristi
più tristo o più valente di loro; talchè ognuno l’odiava.» Queste
cose scrive del Machiavelli Giovan Battista Busini. E il Varchi dice
di Niccolò, che «se all’intelligenza che in lui era de’ governi degli
Stati ed alla pratica delle cose del mondo, avesse la gravità della
vita e la sincerità de’ costumi aggiunto, si poteva per mio giudicio
piuttosto con gli antichi ingegni paragonare, che preferire ai
moderni.» Dal Cerretani suo contemporaneo è detto «uomo da servir bene
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