Storia della Repubblica di Firenze v. 3/3 - 27
Vostre nè il dominio di quelle; et in fine non ne potemo mai cavare
altro, se non che ci rimettessimo liberamente in Sua Beatitudine
etc.
Noi haviamo qua Giovambatista di Lorenzo Strozi et Antonio di
Vectorio Landi, de’ quali continuamente ci serviamo, et di loro
non s’è dato notitia alli signori Octo che per respecto del bando
non vorremo cascassino in contumacia. Piaccia alle S. V. farlo loro
intendere, parendolo.
Sarà di questa apportatore Bartholomeo Marucelli, che di quello che
per noi si mancassi sopplirà. Le Signorie Vostre ce lo rimandino e
accelerinlo, perchè ce ne serviamo.
Postscripta. — Siamo a hore diciassepte, et andati per parlare
con lo illustrissimo signor Principe, trovamo Sua Excellentia, che
cavalcava, et per aspectare che tornassi andamo a trovare messer
Giovannantonio Muciettola, col quale siamo stati in lunghe dispute
per venire a uno modo di conventione, et finalmente nulla si è
facto. È ben vero che ci ha mosso uno certo ragionamento, al quale
sendo stato presente el prefato Bartholomeo Marucelli, ne informerà
le S. V. Et come Sua illustrissima Signoria sia tornata, anderemo
da quella; dove pensiamo che di questo medesimo ragionamento si
habbi a tractare; et se ne ritrarremo cosa che vi si possa prestare
li orecchi, subito per uno di noi ne saranno le Signorie Vostre
raguagliate. Nè altro. Da Figline, a’ dì XXIX di septembre MDXXIX.
Di V. S.
_Servitori_
BERNARDO DA CASTIGLIONE
ROSSO DE’ BUONDELMONTI et
LIONARDO GINORI _oratori_.
XIV.
_Magnifici domini etc._ — Questa mattina per Bartholomeo Marucelli
scrivemo a V. S. quanto sino a quell’hora era seguito, et inoltre
conmectemmo a dicto Bartholomeo, che di bocca dicessi a quelle
più cose. Vostra non haviamo, et di questa sarà apportatore
l’oratore Lionardo Ginori nostro collega, el quale viene per dirvi
certa pratica mossaci da questi Cesarei. V. S. intenderanno et
piglieranno quella deliberatione che iudicheranno sia a benefitio
della ciptà. Noi non haviamo interamente potuto discostarcene
per non rompere il filo et per scoprir meglio le loro voluntà.
Raccomandianci alle Signorie Vostre, quale Dio conservi in felice
stato. Da Figline, a’ dì XXIX di septembre MDXXIX.
Et io, oratore Rosso, me ne verrò domani a cotesta volta; poi che
così le SS. VV. mi commettono.[259]
Di V. S.
_Servitori_
BERNARDO DA CASTIGLIONE et
ROSSO DE’ BUONDELMONTI _oratori_.
XV.
_Alli magnifici Ambasciatori a presso al Papa._
_Magnifici Domini etc._ — Hiersera ci fu mandato dal reverendissimo
Arcivescovo di Capua un piego di vostre lettere, quali andavano
alli Magnifici Dieci; e trovandoci noi qui a negotiare accordi fra
la Santità di Nostro Signore e la nostra Repubblica, le leggemmo
per intendere quello che VV. SS. trattavano di costà con Sua
Beatitudine; e veduto che quelle dicono che Sua Santità ha dato
mandato libero al prefato reverendissimo Arcivescovo, per essere
più facile il negotiare rispetto alla vicinità. A che vi dichiamo
che Sua Signoria reverendissima dice, il suo mandato non si
estendere ad alterare in parte alcuna la Capitolazione fatta fra
Sua Santità e la Maestà Cesarea; il che non è a proposito di Sua
Beatitudine nè della nostra Città; e sarebbe meglio trattare con
Sua Santità. Però confortiamo VV. SS. a fare ogni opera ridurla
costì, che all’arrivar di questa saranno comparsi gli altri Oratori
vostri colleghi e forse la potrebbono disporre.
Noi habbiamo le medesime commessioni che hanno le SS. VV. e
crediamo fare poco frutto. E questo esercito si fa innanzi predando
e bruciando tutto il Paese; il che non passa senza carico di Sua
Beatitudine, essendo sua patria. Le allegate lettere di VV. SS. le
mandammo stamani di buon’hora alli signori Dieci. Nè altro, salvo
che del continuo a VV. SS. ci raccomandiamo. Di Feghine, a’ 30 di
settembre 1529.
Portò il Selbastrella cavallaro del Papa.
Nº V.
(Vedi pag. 291.)
Le cinque Lettere che seguono, scritte da Ferrante Gonzaga al Marchese
di Mantova suo fratello, contengono un ragguaglio circostanziato della
battaglia di Gavinana e della morte del Ferrucci. Le pubblicò il signor
Eugenio Albèri, e noi le riproduciamo con qualche maggiore esattezza
di lezione sopra il codice 595, classe XXV, della Magliabechiana,
già Strozziano, c. 117 e segg. La prima, la terza e la quarta erano
state già riferite dal Varchi; ma due di queste (la prima e la
quarta) mancanti di una parte molto importante, che il grave Storico
dell’assedio credè forse potere omettere come quella che nulla
aggiungeva a dimostrare le intelligenze di Malatesta col campo nemico,
unico fine pel quale egli le produceva. La seconda e la quinta con i
suoi due allegati, mancano affatto nel Varchi: e questi tre ultimi
documenti sono forse i più autentici che ci rimangano intorno agli
estremi momenti del Ferruccio e alla battaglia di Gavinana.
_All’Eccellentissimo Signor Federigo Gonzaga Duca di Mantova_ _don
Ferrante Gonzaga suo fratello._
I.
Per dar parte a V. E. del successo delle cose, di questi giorni
passati nacque un certo maneggio d’accordo, il quale sino a
quest’ora si era ristretto di sorte, che credevamo per cosa certa
che dovessi seguire; del che poi è successo il contrario, ed oggi
la pratica si è rotta in tutto, di sorte che avemo perso ogni
speranza di venire più in futuro a parlamento alcuno d’accordo.
La pratica ebbe principio in questo modo. Un capitano di quelli
della terra, nominato Cencio Guercio amico del signor Pirro da
Castelpiero, venendo a parlamento con alcuno de’ nostri, gli
ricercò che volessero fare intendere da sua parte al signor
Pirro, che volesse venirgli a parlare, e che aveva da dirgli
cose d’importanza. Il quale signor Pirro essendovi andato, con
licenza del signor Principe, trovò costui aver commissione dal
signor Malatesta di procurare col mezzo del signor Pirro, che
’l prefato signor Principe volesse mandare un uomo drento col
quale potesse trattare d’accordo, che sperava che dovesse venire
a qualche buona conclusione. Il signor Principe inteso questo,
fece venire a sè questo Cencio Guercio, dal quale avendo inteso il
medesimo di sopra, lo rimandò drento con ordine di rispondere al
signor Malatesta, che sarebbe stato contento di mandare drento un
uomo che lui ricercava, ogni volta che da Sua Signoria gli fusse
data prima la fede, che il partito di tor drento le Palle fusse
accettato in forma, come stavano prima. Fu risposto dal signor
Malatesta, che S. E. volessi contentarsi di mandar drento la
persona mia, con ordine di parlare a quel popolo nella forma che
da lui mi fusse detto, e con minacciarlo che, se in quel punto non
si fusse ridotto a concordia, che non isperasse più rimedio alcuno
alla sua rovina, atteso che da quel punto innanzi non saria stato
in potere di S. E. il salvarli, nè di tenere i soldati che non
saccheggiassino la terra; con altre cose pensate da lui a proposito
di questo; dando intenzione che, facendo S. E. questo, saria per
seguire l’accordo nel modo che da lui era ricerco, senza però
volere promettere la fede del patto che dal signor Principe fu nel
primo capitolo addimandato, nè dare altra chiarezza dell’esito del
maneggio, che è quanto V. E. intende. Onde, considerato il signor
Principe di quanta importanza saria a S. E. ed a tutto l’esercito
l’avermi mandato per questo maneggio, quando poi non fusse seguìto
l’effetto, si risolvette in questo, di ritornare a rispondergli
con questo argomento: che non era per farlo, se prima Sua Signoria
non gli chiariva il punto di torre drento le Palle; promettendo
che, poichè di questo fosse certificato, in ogn’altra cosa si saria
mostrato tanto favorevole a quella città, quanto per lui si fusse
potuto. E con questa risoluzione avendo mandato drento il signor
Pirro prefato, dopo due giorni, oggi, è ritornato disconcluso in
tutto, che di ciò il signor Malatesta non vuole fare niente, nè
intendere più cosa alcuna in maneggio d’accordo. La qual risposta,
così risoluta e gagliarda, è discrepante molto dall’impressione
e indizio fatto da noi dell’inclinazione di quel popolo a
quest’accordo. Per questo motivo fatto dal signor Malatesta, e per
quello che ci detta la ragione dell’estrema necessità che drento
si pate, la quale nei progressi di questo maneggio avevo scoperta,
per relazione di loro medesimi, essere intollerabile, ci fa
molto maravigliare, e pensare che tal risposta non possa da altro
procedere, che da qualche fresca speranza, che abbiano per transito
di Francia in Italia per loro soccorso; il che essendo così, et
avendone V. E. notizia alcuna, come ragionevolmente deve avere, la
supplico, per quanto gli è cara la mia servitù, a volermene dare
avviso.
P. S. — Mi era scordato di dare notizia a V. E. di certe lettere
che nuovamente sono state intercette di questi signori Fiorentini,
indiritte al Commissario Ferrucci residente in Volterra, per le
quali se li ordinava che con quelle genti che aveva, lasciati 400
fanti per guardia della terra, si spignesse alla volta di Pisa
per il cammino di Livorno, e si unissi con le genti che quivi si
trovavano, lasciate nella terra otto compagnie per guardia; dipoi
tutta la massa, la quale facevano conto che dovesse compire il
numero di 4000 fanti a piedi et a cavallo....[260] dovesse marciare
alla volta di Pistoia e di Prato verso Firenze, con avvertenza
di fare ogni opera se per transito avesse potuto occupare una
di dette terre, e quivi si dovessi fermare con le genti; in caso
che no, seguitassi il cammino alla volta di Fiesole, con disegno
poi di quindi condursi drento Firenze. Il qual disegno apreso
dal Principe, mandò subito a Fabbrizio Maramaldo, il quale si
trovava alloggiato con il suo colonnello per quei luoghi intorno
a Volterra, che fusse avvertito, che quando quella gente uscisse
fuori di là, ei si transferissi subito con quella gente ad
alloggiare a Prato e Pistoia, con disegno poi, quando s’intendesse
venire la massa di verso Pisa, esserli alle spalle con tanto numero
d’altra gente dell’esercito che bastasse ad espugnare quella dei
nemici.
Questa sera, 16 del presente, ha avuto nuova il signor Principe,
che detta gente di Volterra è uscita fuori marciando alla volta
di Pisa, e che il Maramaldo se gli è messo alla coda con animo
di venir seco alle mani, e di romperla prima che sia congiunta
con quella di Pisa. Nondimeno, pensando che tal disegno non possa
riuscire, gli ha mandato ordine che, fatto ch’egli abbia prova
d’impedire l’unione di detta gente, non venendogli fatto, si debba
mettere in Vico Pisano su la fiumara, lontano da Pisa dieci miglia,
dove detta gente bisogna che passi; e quivi, unitamente con il
colonnello del signor Alessandro Vitelli, il quale si trova di
presente alloggiato con quei fanti Spagnuoli ammuttinati che si
trovavano pur quivi intorno, faccia prova di negare loro il passo,
e non potendo, gli sia alle spalle sino che venghino ad incontrare
S. E., la quale ha fatto disegno d’aspettarli in quei confini di
Pistoia con 3000 fanti eletti, 500 cavalli leggieri, e la gente
d’arme, alla quale ha mandato subito ordine che senza indugio debba
andare ad alloggiare a Prato, per togliere detta gente de’ nemici
in mezzo, e rompere loro la testa, come ho speranza che venga
fatto, accadendo che essi seguitino il detto disegno, notato per
lettere intercetto. Di quello che seguirà alla giornata V. E. sarà
di mano in mano ragguagliata.
Sono di poi state intercette altre infinite lettere in cifra
mandate di Francia a Firenze, le quali subito il signor Principe
ha mandate alla Santità di Nostro Signore, non avendo potuto di
quelle ritrarre altro senso, se non che il Cristianissimo doveva
mandare un uomo a quella Signoria per comporre seco loro le cose di
questa città; la qual cosa avendo S. E. mostrato d’avere molto per
male, se n’è risentito qui aspramente con questi agenti del Papa,
dicendo che, quando Sua Santità voglia intendere in questo, faria
un grandissimo torto alla Maestà Cesarea, e mostreria una grande
ingratitudine, che delle fatiche e dispendi di quella volesse ora
dare il tratto ad altri, e che ciò non saria comportato. Per detti
agenti gli è stato risposto, che di ciò S. E. stia sicura, che
il Papa non mancherà di quello che è conveniente al debito verso
l’Imperatore. E questo è quanto mi occorre per notizia di V. E.,
alla quale bacio le mani.
Di sotto Firenze, 16 luglio 1530.
II.
Tutta questa notte siamo stati in aspettazione che gl’inimici
dovessero escire fuori di Firenze per darci un assalto, come fummo
avvisati che si apparecchiavano di fare, per quattro spie uscite
ieri fuori l’una dopo l’altra. Certa cosa è che tutto il dì di ieri
non attesero ad altro che a fare dimostrazione dentro, con dare
l’armi al popolo e le tratte delle munizioni, e andare intorno alla
terra ieri sera con infiniti lumi fuori dell’usato, cose tutte che
ci facevano indizio di quanto riportorno le spie; ma non essendo
poi seguito effetto alcuno di ciò, non sappiamo indovinare a che
fine fussero fatte. Dentro patono all’usato, crescendo ogni dì
tanto la necessità di tutte le cose, che alfine saranno sforzati
a soccombere, e ben presto, poichè da tutte le bande si vedono
derelitti. Da Napoli ci son nuove che il Marchese del Vasto si
trova indisposto, ed il Conte di Nugolara si trovava presso a
morte.
Dal campo sotto Firenze, alli 23 di luglio 1530.
III.
Ier mattina uscì di Firenze un Bino Signorello, parente del signor
Malatesta, sotto pretesto di volere andare a Perugia, e per il
transito si lasciò uscire di bocca parole che furono principio
al maneggio d’accordo; e dopo molte pratiche fatte, essendo
intrattenuta la cosa fin ad oggi, fu concluso che il prefato Bino
scrivesse al signor Malatesta avere operato col Principe, che l’uno
e l’altro di loro s’avessero ad abboccare insieme in certo luogo
fuori delle mura poco lontano dalla terra, e così fu fatto. Questa
sera s’aspettava il trombetta fuori colla risposta del signor
Malatesta, se si contentava di questa conclusione, o sì o no, il
qual trombetta non è venuto. Oggi abbiamo avviso da Napoli, che
il Conte di Nugolara per grazia di Dio è fuori di pericolo, e che
presto egli è per ricuperare la sanità. Del signor Marchese dicono
che il male sarà un poco lungo.
Di sotto Firenze, alli 25 luglio 1530.
IV.
In questo mezzo è successo, che avanti ieri fu al signor Principe
quel Cencio Guercio mandato dal signor Malatesta Baglioni, il quale
altre volte è usato uscire fuori per queste pratiche d’accordo,
ed ha fatto intendere a S. E, che il signor Malatesta era tornato
a ricercare quel che altre volte era stato per lui ricercato, di
mandare la persona mia a parlare a quelli eccelsi Signori nella
forma che di quivi mi fussi ordinato, promettendo, in luogo di
quella condizione che domandava S. E. (di prometterli che il punto
di tor drento le Palle sarebbe accettato), una delle cose seguenti;
o che essi Signori di buona voglia accetterebbono le Palle, o
che uscirebbe di Firenze esso con tutta la gente da guerra, che
sariano in numero di 5000 uomini. Fu a questa risposta detto che
si contenteria di farlo, e tornato drento con tal conchiusione
el prefato Guercio, mandò S. E. un trombetta a domandare il
salvocondotto a quelli Signori per la mia sicurtà; li quali (come
coloro che di tal materia non avevano notizia alcuna) risposero
che prima che concedessero detto salvocondotto, volevano mandar
fuori un loro cittadino per intendere quello che S. E. intendeva
fare proporre a quella città; ed essendo stato concesso detto
salvocondotto, con consulta e licenza del signor Malatesta, uscì
fuori detto cittadino nominato Bernardo da Castiglione. Al quale
fatto intendere S. E. che l’intenzione di voler mandare non
era altro che per volere esortare quel popolo a volere ridursi
all’accordo, prima che il volerlo vedere rovinare in tutto; fu in
questa sentenza da lui dichiarato e risposto apertamente, che se
questo accordo seguisse, di venire a condizione alcuna d’accettare
drento le Palle, non ne parlasse più oltre, perchè quella città
aveva determinato non volere di ciò intendere parola; ma in ogni
altra cosa che si fusse addomandata a servizio dell’Imperatore,
si disporrebbono di buonissima voglia; e senz’altra conclusione
ritornato drento, non s’è di poi inteso altro. Stassi aspettando
che risolva il signor Malatesta, parendo già si sia legato, per
quello che ho detto di sopra, di quanto è passato per il detto
Cencio col signor Principe.
Partito il presente cittadino dal campo, poco di poi vennero
avvisi che il Commissario Ferrucci era uscito con la gente di
Pisa e marciava verso Pescia, e che drento in Firenze si faceva
apparecchio d’uscir fuori ad assalire il campo con tutta la forza
di quella città. Per il che S. E. concluse d’andare in persona
contra il Ferruccio, e lasciare il contrasto a me con quelli della
terra; ed essi quello partito iersera con mille lanzichenech,
mille spagnuoli, e altri tanti italiani. Restai io qui, dove tutta
la notte siamo stati in espettazione che detti nemici dovessero
uscire, e mai è uscito uomo. Questa notte il signor Principe ha
rimandato mille spagnuoli a tempo, con avviso, che gli pare avere
gente a bastanza con quelli di Fabbrizio Maramaldo, per combattere
detto Ferruccio; il quale dicono avere circa 4000 fanti e 300
cavalli leggieri, e che marcia verso la Valle di Nievole. Di quello
succederà ne darò avviso a V. E.
Data nel campo Cesareo sotto Firenze, 2 agosto 1530.
V.
L’E. V. intenderà quello che nelle qui allegate[261] si contiene,
le quali ho intrattenute fino a quest’ora per potere dare notizia
dell’esercito di questo Ferruccio; del quale questa mattina avemmo
avviso essere stato alle mani con li nostri, in un castello
non molto lontano da Pistoia, detto Cavinana; il quale essendo
parimente occupato dall’una parte e l’altra, durò la pugna ivi
dalle 19 ore fino passate le 22; e dopo molto contrasto fatto
quivi, con poco vantaggio d’alcuna delle parti, essendo ridotta
la pugna fuori della terra, quivi li nostri restorno in breve
superiori, fatto tanta strage delli nemici che pochi restorno che
non fossero morti o prigioni, fra’ quali fu il signor Giovanpaolo
da Ceri, il signor Amico d’Arsoli; il commessario Ferruccio fu
morto. Ma per grande che questa vittoria sia stata (importando
indubitatamente il fine dell’impresa), ha recato più cordoglio
che allegrezza, per la perdita del signor Principe, il quale per
aversi voluto trovare ne’ primi combattimenti restò morto; cosa
che universalmente a tutto questo esercito è dispiaciuta molto;
specialmente a me per aver perduto un buon amico e signore, e tanto
servitore quant’era a S. M., e non meno buon fratello di V. E.,
alla quale non dubito che a essa ancora ne peserà per tutti questi
rispetti. Di quello che seguirà da qui innanzi farò che quella sarà
avvisata, restando a me il carico di questo esercito, pure per
ordine del prefato signor Principe quando partì di qua. Si manda
il presente gentiluomo a S. M., che provveda di detto esercito come
gli pare.
Del campo Cesareo sotto Firenze, 5 agosto 1530.
6 agosto 1530.
Questa è per darvi avviso della fazione fatta per il Ferruccio
contro al Principe d’Oranges, Fabbrizio Maramaldo e Alessandro
Vitelli, e tutta la fazione Panciatica, cioè la città e la montagna
di Pistoia, et un numero di circa sette o otto mila fanti e 1500
cavalli; e quelli del capitano Ferruccio non aggiungnevono a 3000
fanti e 400 cavalli. E’ partirono di Pisa il dì primo d’agosto e
arrivorno al Ponte a Squarciabocconi, e dipoi a Collodi e Medicina
e Calamecca, et a dì 3 detto partitisi, arrivorno a San Marcello
e presonlo per forza ed abbrucioronlo, e dimororno lì circa
un’ora e mezzo e non più, non pensando che tanti eserciti fossero
loro contro, per non avere gente a piè e non stimare il nemico,
credendo fosse solo Fabbrizio Maramaldo e Alessandro Vitelli e la
parte Panciatica. Et in quello stante arrivò il Principe con li
cavalli, e prese Cavinana e abbruciolla. Inteso che ebbe questo il
Ferruccio, messe in battaglia tutti i suoi a 7 per fila et andò
alla volta di Cavinana, e giunto lì, gagliardamente si affrontò
smontando a piè con l’arme bianca indosso e una stradiotta in mano,
combattendo valorosamente, et il Principe, il medesimo; entrorno
drento per forza, ma furno ributtati due o tre volte. Dipoi mille
lanzichenech, che erano fuori di Cavinana in sul monte, e quelli
di Fabbrizio nel fiume, i quali lanzichenech dettono per fianco
alla coda di quelli del Ferruccio, e subito li roppono e ne feciono
assai prigioni, quelli del Maramaldo e lanzichenech n’ammazzorno
assai. Vero è che il Ferruccio roppe tutti i cavalli del Principe.
E morì il Principe et il Ferruccio. Il signor Paolo è prigione
del signor Alessandro Vitelli, et il capitano Cattivanza è ferito
d’una archibugiata in una gamba, ed è prigione con di molti altri
capitani e uomini da bene. Et è stato ammazzato Pier Antonio Tonti
da Pistoia e molt’altri, e fattine prigioni assai della fazione
Cancelliera. Intendesi che il Ferruccio aveva cento trombe di fuoco
lavorato; ma tanto fu la cosa presta che non le poterono adoperare,
perchè erano sui muli ne’ corbelli, e le mozzore legate.
Lucca, 4 agosto 1530.
Prima vi sarà pervenuto agli orrecchi, come il Ferruccio, domenica
notte a tre ore, partì di Pisa con 3000 fanti e 300 cavalli e 12
moschetti e vettovaglia per tre giorni, e 4 muli carichi di polvere
e tre some o quattro di scale, e benissimo in ordine. Il giorno
seguente si avvicinò la sera a Pescia, a due miglia, dove mandò a
domandare passo e vettovaglie, il che gli fu denegato; e la notte
andò ad alloggiare ad un castello de’ Lucchesi detto Medicina,
e di là si partì l’altra mattina per la via del monte, che potea
condursi al Montale et ancora a Vernio, per passare in Mugello.
Questi imperiali, subito che ebbono notizia della sua uscita,
ciascuno fece l’uffizio suo. Il signor Principe dal campo venne a
Pistoia con 2000 fanti e 1000 cavalli, così Fabbrizio Maramaldo,
Alessandro Vitelli ed il conte Pier Maria di San Secondo, che in
tutto si trovorno gl’imperiali 7000 fanti ridotti in Pistoia; e si
deliberorno d’andare ad impedirli la via, e gli messono alla coda
il Bracciolino con mille fanti. E ieri, ad ore 19, il Principe
dette drento, dov’egli restò morto e la sua banda quasi rovinata,
insieme con la cavalleria. E dipoi si mosse Fabbrizio insieme con
gli altri, i quali messono in rotta il Ferruccio e le sue genti,
la maggiore parte delle quali è destrutta. E Fabbrizio di sua
mano ammazzò il Ferruccio, che avevono a saldare insieme qualche
conto vecchio. Il signor Gio. Paolo e Cattivanza prigioni; et
insomma quello che mancassi, i villani faranno adesso loro offizio.
Pare a questi uomini savi, che a Firenze abbino ad avere così
grandissimo dispiacere della morte del Principe come della rovina
delle genti loro e del Ferruccio; perchè, come sapete, il Principe
aveva la pratica dell’accordo, che ad esso saria stato facile cosa
conchiuderlo in breve tempo.
Nº VI.
(Vedi pag. 319.)
ORAZIONE DI PALLA RUCELLAIO RECITATA NEL COSPETTO DI CARLO V IMPERATORE
PER NOME DELL’ECCELSA REPUBBLICA FIORENTINA.
(Codice nº 102, manoscritto appresso di noi.)
Per vetustus mos fuit apud Maiores nostros Florentinos, Carole
Caesar Imperator Auguste, summos atque optimos Imperatores et
colere semper et summopere venerari. Quod si quis unquam magnus
Rex fuit, si quis virtute praeditus Imperator, ea claritudo est
parentum avorum proavorum maiorumque tuorum, qui omnes aut Reges
maximi aut Imperatores optimi fuerunt, is splendor celsitudinis
tuae, ea perspicua argumenta divini favoris fidem omnibus
facientia, te a deo optimo maximo electum ac de coelo missum ad
resarciendas labentis orbis terrarum ruinas, ut nemini dubium
sit Florentinum Senatum in te colendo numquam pro more suo agere
posse, numquam animo ac voluntati suae satisfacturum. Accedunt
ingentia beneficia peculiariter in Civitatem Civesque nostros
collata atque eos Cives dicimus qui se ac patriam suam in tutelam
tuam collocarant, qui sine te, invictissime Imperator Carole,
salvi esse non poterant: quibus tu post annuam obsidionem, post
multos bellorum casus, post indignam fortissimorum tuorum Ducum
in ipsa victoria caedem, patriam, parentes, liberos vitam denique
ipsam restituisti. Ob haec igitur et alia multa a te accepta
beneficia quae sigillatim explicare hujus loci ac temporis non
est, acturi gratias Florentini Senatus nomine Celsitudini tuae,
Carole Caesar Imperator Auguste; si pro immortalibus in patriam
nostram meritis parum cumulate munus nostrum impleverimus,
quaesumus obtestamurque Celsitudinem tuam, ne solum imbecillitati
ingenii nostri, quod pertenue esse cognoscimus et dolemus, verum
multo magis magnitudini beneficiorum tuorum tribuendum putes.
Quid nam sapientius aut rebus christianis armorum ac temporum
iniuria afflictis conducibilius salubriusque excogitari poterit,
quam illud divinum consilium, quo nobis Christianis omnibus
consuluisti. Nam post plurimas insignesque de hostibus tuis
victorias quibus tu numquam animo elatior factus, Italiae pacem
et Principum Christianorum concordiam totis viribus procurasti;
cum omnis adhuc Italia armorum terrore quateretur, neque ullus
calamitatum finis appareret, consociatis repente Consiliis cum
Clemente VII Pontifice Maximo, utroque foedere, ac renovata
amicitia, inita et cum eo affinitate, ex Hyspania in Italiam
navigasti: quo eodem tempore compositis rebus cum Francisco
Gallorum Duce in Cameracensi conventu per illas numquam satis
laudatas heroinas quae ambae in Coelum receptae tum praeclari
facinoris nunc debitam mercedem recipiunt; Ianuam appulsus nihil
animo potius habuisti quam reliquas Civitates et Principes Italiae
pacatissimos reddere. Ad quam rem perficiendam cum Pontificis
Maximi praesentia multum conferre visa esset, protinus relicta
urbe Bononiam accessit exardens desiderio videndi Celsitudinem
tuam, teque in tuo optimo proposito, nullo sane negocio confirmans,
magnamque oneris huiusmodi partem in se suscipiens, primum sacris
Imperii insignibus voluit exornare, imposita Augusto capiti tuo
sacratissimis suis manibus aurea corona. Sequuta est interea
Viennensis obsidionis solutio faedaque Turcarum strages et turpis
fuga potiusquam discessus, quae victoria opportune divinitus tibi
a Deo optimo maximo concessa, Venetos statim Pontifice Maximo,
tuaeque Caesareae Maiestati coniunctissimos fecit. Receptus est
etiam in tutelam et amicitiam tuam Franciscus Sforzia Insubrum Dux
magna cum spe et populorum illorum letitia quod essent in pace
et ocio rebus suis aliquando facituri. Reliqui erant Florentini
apud quos pauci factiosi et scelerati parricidae aliquorum
animos fictis vaticiniis superstitionibusque imbuerant quasi
popularis status in ea Civitate superis gratissimus esset, alios
opifices ac mechanicos artifices fecem impiam plebis Florentinae
collatis Magistratibus ipsisque insolitis honoribus illexerant,
altro, se non che ci rimettessimo liberamente in Sua Beatitudine
etc.
Noi haviamo qua Giovambatista di Lorenzo Strozi et Antonio di
Vectorio Landi, de’ quali continuamente ci serviamo, et di loro
non s’è dato notitia alli signori Octo che per respecto del bando
non vorremo cascassino in contumacia. Piaccia alle S. V. farlo loro
intendere, parendolo.
Sarà di questa apportatore Bartholomeo Marucelli, che di quello che
per noi si mancassi sopplirà. Le Signorie Vostre ce lo rimandino e
accelerinlo, perchè ce ne serviamo.
Postscripta. — Siamo a hore diciassepte, et andati per parlare
con lo illustrissimo signor Principe, trovamo Sua Excellentia, che
cavalcava, et per aspectare che tornassi andamo a trovare messer
Giovannantonio Muciettola, col quale siamo stati in lunghe dispute
per venire a uno modo di conventione, et finalmente nulla si è
facto. È ben vero che ci ha mosso uno certo ragionamento, al quale
sendo stato presente el prefato Bartholomeo Marucelli, ne informerà
le S. V. Et come Sua illustrissima Signoria sia tornata, anderemo
da quella; dove pensiamo che di questo medesimo ragionamento si
habbi a tractare; et se ne ritrarremo cosa che vi si possa prestare
li orecchi, subito per uno di noi ne saranno le Signorie Vostre
raguagliate. Nè altro. Da Figline, a’ dì XXIX di septembre MDXXIX.
Di V. S.
_Servitori_
BERNARDO DA CASTIGLIONE
ROSSO DE’ BUONDELMONTI et
LIONARDO GINORI _oratori_.
XIV.
_Magnifici domini etc._ — Questa mattina per Bartholomeo Marucelli
scrivemo a V. S. quanto sino a quell’hora era seguito, et inoltre
conmectemmo a dicto Bartholomeo, che di bocca dicessi a quelle
più cose. Vostra non haviamo, et di questa sarà apportatore
l’oratore Lionardo Ginori nostro collega, el quale viene per dirvi
certa pratica mossaci da questi Cesarei. V. S. intenderanno et
piglieranno quella deliberatione che iudicheranno sia a benefitio
della ciptà. Noi non haviamo interamente potuto discostarcene
per non rompere il filo et per scoprir meglio le loro voluntà.
Raccomandianci alle Signorie Vostre, quale Dio conservi in felice
stato. Da Figline, a’ dì XXIX di septembre MDXXIX.
Et io, oratore Rosso, me ne verrò domani a cotesta volta; poi che
così le SS. VV. mi commettono.[259]
Di V. S.
_Servitori_
BERNARDO DA CASTIGLIONE et
ROSSO DE’ BUONDELMONTI _oratori_.
XV.
_Alli magnifici Ambasciatori a presso al Papa._
_Magnifici Domini etc._ — Hiersera ci fu mandato dal reverendissimo
Arcivescovo di Capua un piego di vostre lettere, quali andavano
alli Magnifici Dieci; e trovandoci noi qui a negotiare accordi fra
la Santità di Nostro Signore e la nostra Repubblica, le leggemmo
per intendere quello che VV. SS. trattavano di costà con Sua
Beatitudine; e veduto che quelle dicono che Sua Santità ha dato
mandato libero al prefato reverendissimo Arcivescovo, per essere
più facile il negotiare rispetto alla vicinità. A che vi dichiamo
che Sua Signoria reverendissima dice, il suo mandato non si
estendere ad alterare in parte alcuna la Capitolazione fatta fra
Sua Santità e la Maestà Cesarea; il che non è a proposito di Sua
Beatitudine nè della nostra Città; e sarebbe meglio trattare con
Sua Santità. Però confortiamo VV. SS. a fare ogni opera ridurla
costì, che all’arrivar di questa saranno comparsi gli altri Oratori
vostri colleghi e forse la potrebbono disporre.
Noi habbiamo le medesime commessioni che hanno le SS. VV. e
crediamo fare poco frutto. E questo esercito si fa innanzi predando
e bruciando tutto il Paese; il che non passa senza carico di Sua
Beatitudine, essendo sua patria. Le allegate lettere di VV. SS. le
mandammo stamani di buon’hora alli signori Dieci. Nè altro, salvo
che del continuo a VV. SS. ci raccomandiamo. Di Feghine, a’ 30 di
settembre 1529.
Portò il Selbastrella cavallaro del Papa.
Nº V.
(Vedi pag. 291.)
Le cinque Lettere che seguono, scritte da Ferrante Gonzaga al Marchese
di Mantova suo fratello, contengono un ragguaglio circostanziato della
battaglia di Gavinana e della morte del Ferrucci. Le pubblicò il signor
Eugenio Albèri, e noi le riproduciamo con qualche maggiore esattezza
di lezione sopra il codice 595, classe XXV, della Magliabechiana,
già Strozziano, c. 117 e segg. La prima, la terza e la quarta erano
state già riferite dal Varchi; ma due di queste (la prima e la
quarta) mancanti di una parte molto importante, che il grave Storico
dell’assedio credè forse potere omettere come quella che nulla
aggiungeva a dimostrare le intelligenze di Malatesta col campo nemico,
unico fine pel quale egli le produceva. La seconda e la quinta con i
suoi due allegati, mancano affatto nel Varchi: e questi tre ultimi
documenti sono forse i più autentici che ci rimangano intorno agli
estremi momenti del Ferruccio e alla battaglia di Gavinana.
_All’Eccellentissimo Signor Federigo Gonzaga Duca di Mantova_ _don
Ferrante Gonzaga suo fratello._
I.
Per dar parte a V. E. del successo delle cose, di questi giorni
passati nacque un certo maneggio d’accordo, il quale sino a
quest’ora si era ristretto di sorte, che credevamo per cosa certa
che dovessi seguire; del che poi è successo il contrario, ed oggi
la pratica si è rotta in tutto, di sorte che avemo perso ogni
speranza di venire più in futuro a parlamento alcuno d’accordo.
La pratica ebbe principio in questo modo. Un capitano di quelli
della terra, nominato Cencio Guercio amico del signor Pirro da
Castelpiero, venendo a parlamento con alcuno de’ nostri, gli
ricercò che volessero fare intendere da sua parte al signor
Pirro, che volesse venirgli a parlare, e che aveva da dirgli
cose d’importanza. Il quale signor Pirro essendovi andato, con
licenza del signor Principe, trovò costui aver commissione dal
signor Malatesta di procurare col mezzo del signor Pirro, che
’l prefato signor Principe volesse mandare un uomo drento col
quale potesse trattare d’accordo, che sperava che dovesse venire
a qualche buona conclusione. Il signor Principe inteso questo,
fece venire a sè questo Cencio Guercio, dal quale avendo inteso il
medesimo di sopra, lo rimandò drento con ordine di rispondere al
signor Malatesta, che sarebbe stato contento di mandare drento un
uomo che lui ricercava, ogni volta che da Sua Signoria gli fusse
data prima la fede, che il partito di tor drento le Palle fusse
accettato in forma, come stavano prima. Fu risposto dal signor
Malatesta, che S. E. volessi contentarsi di mandar drento la
persona mia, con ordine di parlare a quel popolo nella forma che
da lui mi fusse detto, e con minacciarlo che, se in quel punto non
si fusse ridotto a concordia, che non isperasse più rimedio alcuno
alla sua rovina, atteso che da quel punto innanzi non saria stato
in potere di S. E. il salvarli, nè di tenere i soldati che non
saccheggiassino la terra; con altre cose pensate da lui a proposito
di questo; dando intenzione che, facendo S. E. questo, saria per
seguire l’accordo nel modo che da lui era ricerco, senza però
volere promettere la fede del patto che dal signor Principe fu nel
primo capitolo addimandato, nè dare altra chiarezza dell’esito del
maneggio, che è quanto V. E. intende. Onde, considerato il signor
Principe di quanta importanza saria a S. E. ed a tutto l’esercito
l’avermi mandato per questo maneggio, quando poi non fusse seguìto
l’effetto, si risolvette in questo, di ritornare a rispondergli
con questo argomento: che non era per farlo, se prima Sua Signoria
non gli chiariva il punto di torre drento le Palle; promettendo
che, poichè di questo fosse certificato, in ogn’altra cosa si saria
mostrato tanto favorevole a quella città, quanto per lui si fusse
potuto. E con questa risoluzione avendo mandato drento il signor
Pirro prefato, dopo due giorni, oggi, è ritornato disconcluso in
tutto, che di ciò il signor Malatesta non vuole fare niente, nè
intendere più cosa alcuna in maneggio d’accordo. La qual risposta,
così risoluta e gagliarda, è discrepante molto dall’impressione
e indizio fatto da noi dell’inclinazione di quel popolo a
quest’accordo. Per questo motivo fatto dal signor Malatesta, e per
quello che ci detta la ragione dell’estrema necessità che drento
si pate, la quale nei progressi di questo maneggio avevo scoperta,
per relazione di loro medesimi, essere intollerabile, ci fa
molto maravigliare, e pensare che tal risposta non possa da altro
procedere, che da qualche fresca speranza, che abbiano per transito
di Francia in Italia per loro soccorso; il che essendo così, et
avendone V. E. notizia alcuna, come ragionevolmente deve avere, la
supplico, per quanto gli è cara la mia servitù, a volermene dare
avviso.
P. S. — Mi era scordato di dare notizia a V. E. di certe lettere
che nuovamente sono state intercette di questi signori Fiorentini,
indiritte al Commissario Ferrucci residente in Volterra, per le
quali se li ordinava che con quelle genti che aveva, lasciati 400
fanti per guardia della terra, si spignesse alla volta di Pisa
per il cammino di Livorno, e si unissi con le genti che quivi si
trovavano, lasciate nella terra otto compagnie per guardia; dipoi
tutta la massa, la quale facevano conto che dovesse compire il
numero di 4000 fanti a piedi et a cavallo....[260] dovesse marciare
alla volta di Pistoia e di Prato verso Firenze, con avvertenza
di fare ogni opera se per transito avesse potuto occupare una
di dette terre, e quivi si dovessi fermare con le genti; in caso
che no, seguitassi il cammino alla volta di Fiesole, con disegno
poi di quindi condursi drento Firenze. Il qual disegno apreso
dal Principe, mandò subito a Fabbrizio Maramaldo, il quale si
trovava alloggiato con il suo colonnello per quei luoghi intorno
a Volterra, che fusse avvertito, che quando quella gente uscisse
fuori di là, ei si transferissi subito con quella gente ad
alloggiare a Prato e Pistoia, con disegno poi, quando s’intendesse
venire la massa di verso Pisa, esserli alle spalle con tanto numero
d’altra gente dell’esercito che bastasse ad espugnare quella dei
nemici.
Questa sera, 16 del presente, ha avuto nuova il signor Principe,
che detta gente di Volterra è uscita fuori marciando alla volta
di Pisa, e che il Maramaldo se gli è messo alla coda con animo
di venir seco alle mani, e di romperla prima che sia congiunta
con quella di Pisa. Nondimeno, pensando che tal disegno non possa
riuscire, gli ha mandato ordine che, fatto ch’egli abbia prova
d’impedire l’unione di detta gente, non venendogli fatto, si debba
mettere in Vico Pisano su la fiumara, lontano da Pisa dieci miglia,
dove detta gente bisogna che passi; e quivi, unitamente con il
colonnello del signor Alessandro Vitelli, il quale si trova di
presente alloggiato con quei fanti Spagnuoli ammuttinati che si
trovavano pur quivi intorno, faccia prova di negare loro il passo,
e non potendo, gli sia alle spalle sino che venghino ad incontrare
S. E., la quale ha fatto disegno d’aspettarli in quei confini di
Pistoia con 3000 fanti eletti, 500 cavalli leggieri, e la gente
d’arme, alla quale ha mandato subito ordine che senza indugio debba
andare ad alloggiare a Prato, per togliere detta gente de’ nemici
in mezzo, e rompere loro la testa, come ho speranza che venga
fatto, accadendo che essi seguitino il detto disegno, notato per
lettere intercetto. Di quello che seguirà alla giornata V. E. sarà
di mano in mano ragguagliata.
Sono di poi state intercette altre infinite lettere in cifra
mandate di Francia a Firenze, le quali subito il signor Principe
ha mandate alla Santità di Nostro Signore, non avendo potuto di
quelle ritrarre altro senso, se non che il Cristianissimo doveva
mandare un uomo a quella Signoria per comporre seco loro le cose di
questa città; la qual cosa avendo S. E. mostrato d’avere molto per
male, se n’è risentito qui aspramente con questi agenti del Papa,
dicendo che, quando Sua Santità voglia intendere in questo, faria
un grandissimo torto alla Maestà Cesarea, e mostreria una grande
ingratitudine, che delle fatiche e dispendi di quella volesse ora
dare il tratto ad altri, e che ciò non saria comportato. Per detti
agenti gli è stato risposto, che di ciò S. E. stia sicura, che
il Papa non mancherà di quello che è conveniente al debito verso
l’Imperatore. E questo è quanto mi occorre per notizia di V. E.,
alla quale bacio le mani.
Di sotto Firenze, 16 luglio 1530.
II.
Tutta questa notte siamo stati in aspettazione che gl’inimici
dovessero escire fuori di Firenze per darci un assalto, come fummo
avvisati che si apparecchiavano di fare, per quattro spie uscite
ieri fuori l’una dopo l’altra. Certa cosa è che tutto il dì di ieri
non attesero ad altro che a fare dimostrazione dentro, con dare
l’armi al popolo e le tratte delle munizioni, e andare intorno alla
terra ieri sera con infiniti lumi fuori dell’usato, cose tutte che
ci facevano indizio di quanto riportorno le spie; ma non essendo
poi seguito effetto alcuno di ciò, non sappiamo indovinare a che
fine fussero fatte. Dentro patono all’usato, crescendo ogni dì
tanto la necessità di tutte le cose, che alfine saranno sforzati
a soccombere, e ben presto, poichè da tutte le bande si vedono
derelitti. Da Napoli ci son nuove che il Marchese del Vasto si
trova indisposto, ed il Conte di Nugolara si trovava presso a
morte.
Dal campo sotto Firenze, alli 23 di luglio 1530.
III.
Ier mattina uscì di Firenze un Bino Signorello, parente del signor
Malatesta, sotto pretesto di volere andare a Perugia, e per il
transito si lasciò uscire di bocca parole che furono principio
al maneggio d’accordo; e dopo molte pratiche fatte, essendo
intrattenuta la cosa fin ad oggi, fu concluso che il prefato Bino
scrivesse al signor Malatesta avere operato col Principe, che l’uno
e l’altro di loro s’avessero ad abboccare insieme in certo luogo
fuori delle mura poco lontano dalla terra, e così fu fatto. Questa
sera s’aspettava il trombetta fuori colla risposta del signor
Malatesta, se si contentava di questa conclusione, o sì o no, il
qual trombetta non è venuto. Oggi abbiamo avviso da Napoli, che
il Conte di Nugolara per grazia di Dio è fuori di pericolo, e che
presto egli è per ricuperare la sanità. Del signor Marchese dicono
che il male sarà un poco lungo.
Di sotto Firenze, alli 25 luglio 1530.
IV.
In questo mezzo è successo, che avanti ieri fu al signor Principe
quel Cencio Guercio mandato dal signor Malatesta Baglioni, il quale
altre volte è usato uscire fuori per queste pratiche d’accordo,
ed ha fatto intendere a S. E, che il signor Malatesta era tornato
a ricercare quel che altre volte era stato per lui ricercato, di
mandare la persona mia a parlare a quelli eccelsi Signori nella
forma che di quivi mi fussi ordinato, promettendo, in luogo di
quella condizione che domandava S. E. (di prometterli che il punto
di tor drento le Palle sarebbe accettato), una delle cose seguenti;
o che essi Signori di buona voglia accetterebbono le Palle, o
che uscirebbe di Firenze esso con tutta la gente da guerra, che
sariano in numero di 5000 uomini. Fu a questa risposta detto che
si contenteria di farlo, e tornato drento con tal conchiusione
el prefato Guercio, mandò S. E. un trombetta a domandare il
salvocondotto a quelli Signori per la mia sicurtà; li quali (come
coloro che di tal materia non avevano notizia alcuna) risposero
che prima che concedessero detto salvocondotto, volevano mandar
fuori un loro cittadino per intendere quello che S. E. intendeva
fare proporre a quella città; ed essendo stato concesso detto
salvocondotto, con consulta e licenza del signor Malatesta, uscì
fuori detto cittadino nominato Bernardo da Castiglione. Al quale
fatto intendere S. E. che l’intenzione di voler mandare non
era altro che per volere esortare quel popolo a volere ridursi
all’accordo, prima che il volerlo vedere rovinare in tutto; fu in
questa sentenza da lui dichiarato e risposto apertamente, che se
questo accordo seguisse, di venire a condizione alcuna d’accettare
drento le Palle, non ne parlasse più oltre, perchè quella città
aveva determinato non volere di ciò intendere parola; ma in ogni
altra cosa che si fusse addomandata a servizio dell’Imperatore,
si disporrebbono di buonissima voglia; e senz’altra conclusione
ritornato drento, non s’è di poi inteso altro. Stassi aspettando
che risolva il signor Malatesta, parendo già si sia legato, per
quello che ho detto di sopra, di quanto è passato per il detto
Cencio col signor Principe.
Partito il presente cittadino dal campo, poco di poi vennero
avvisi che il Commissario Ferrucci era uscito con la gente di
Pisa e marciava verso Pescia, e che drento in Firenze si faceva
apparecchio d’uscir fuori ad assalire il campo con tutta la forza
di quella città. Per il che S. E. concluse d’andare in persona
contra il Ferruccio, e lasciare il contrasto a me con quelli della
terra; ed essi quello partito iersera con mille lanzichenech,
mille spagnuoli, e altri tanti italiani. Restai io qui, dove tutta
la notte siamo stati in espettazione che detti nemici dovessero
uscire, e mai è uscito uomo. Questa notte il signor Principe ha
rimandato mille spagnuoli a tempo, con avviso, che gli pare avere
gente a bastanza con quelli di Fabbrizio Maramaldo, per combattere
detto Ferruccio; il quale dicono avere circa 4000 fanti e 300
cavalli leggieri, e che marcia verso la Valle di Nievole. Di quello
succederà ne darò avviso a V. E.
Data nel campo Cesareo sotto Firenze, 2 agosto 1530.
V.
L’E. V. intenderà quello che nelle qui allegate[261] si contiene,
le quali ho intrattenute fino a quest’ora per potere dare notizia
dell’esercito di questo Ferruccio; del quale questa mattina avemmo
avviso essere stato alle mani con li nostri, in un castello
non molto lontano da Pistoia, detto Cavinana; il quale essendo
parimente occupato dall’una parte e l’altra, durò la pugna ivi
dalle 19 ore fino passate le 22; e dopo molto contrasto fatto
quivi, con poco vantaggio d’alcuna delle parti, essendo ridotta
la pugna fuori della terra, quivi li nostri restorno in breve
superiori, fatto tanta strage delli nemici che pochi restorno che
non fossero morti o prigioni, fra’ quali fu il signor Giovanpaolo
da Ceri, il signor Amico d’Arsoli; il commessario Ferruccio fu
morto. Ma per grande che questa vittoria sia stata (importando
indubitatamente il fine dell’impresa), ha recato più cordoglio
che allegrezza, per la perdita del signor Principe, il quale per
aversi voluto trovare ne’ primi combattimenti restò morto; cosa
che universalmente a tutto questo esercito è dispiaciuta molto;
specialmente a me per aver perduto un buon amico e signore, e tanto
servitore quant’era a S. M., e non meno buon fratello di V. E.,
alla quale non dubito che a essa ancora ne peserà per tutti questi
rispetti. Di quello che seguirà da qui innanzi farò che quella sarà
avvisata, restando a me il carico di questo esercito, pure per
ordine del prefato signor Principe quando partì di qua. Si manda
il presente gentiluomo a S. M., che provveda di detto esercito come
gli pare.
Del campo Cesareo sotto Firenze, 5 agosto 1530.
6 agosto 1530.
Questa è per darvi avviso della fazione fatta per il Ferruccio
contro al Principe d’Oranges, Fabbrizio Maramaldo e Alessandro
Vitelli, e tutta la fazione Panciatica, cioè la città e la montagna
di Pistoia, et un numero di circa sette o otto mila fanti e 1500
cavalli; e quelli del capitano Ferruccio non aggiungnevono a 3000
fanti e 400 cavalli. E’ partirono di Pisa il dì primo d’agosto e
arrivorno al Ponte a Squarciabocconi, e dipoi a Collodi e Medicina
e Calamecca, et a dì 3 detto partitisi, arrivorno a San Marcello
e presonlo per forza ed abbrucioronlo, e dimororno lì circa
un’ora e mezzo e non più, non pensando che tanti eserciti fossero
loro contro, per non avere gente a piè e non stimare il nemico,
credendo fosse solo Fabbrizio Maramaldo e Alessandro Vitelli e la
parte Panciatica. Et in quello stante arrivò il Principe con li
cavalli, e prese Cavinana e abbruciolla. Inteso che ebbe questo il
Ferruccio, messe in battaglia tutti i suoi a 7 per fila et andò
alla volta di Cavinana, e giunto lì, gagliardamente si affrontò
smontando a piè con l’arme bianca indosso e una stradiotta in mano,
combattendo valorosamente, et il Principe, il medesimo; entrorno
drento per forza, ma furno ributtati due o tre volte. Dipoi mille
lanzichenech, che erano fuori di Cavinana in sul monte, e quelli
di Fabbrizio nel fiume, i quali lanzichenech dettono per fianco
alla coda di quelli del Ferruccio, e subito li roppono e ne feciono
assai prigioni, quelli del Maramaldo e lanzichenech n’ammazzorno
assai. Vero è che il Ferruccio roppe tutti i cavalli del Principe.
E morì il Principe et il Ferruccio. Il signor Paolo è prigione
del signor Alessandro Vitelli, et il capitano Cattivanza è ferito
d’una archibugiata in una gamba, ed è prigione con di molti altri
capitani e uomini da bene. Et è stato ammazzato Pier Antonio Tonti
da Pistoia e molt’altri, e fattine prigioni assai della fazione
Cancelliera. Intendesi che il Ferruccio aveva cento trombe di fuoco
lavorato; ma tanto fu la cosa presta che non le poterono adoperare,
perchè erano sui muli ne’ corbelli, e le mozzore legate.
Lucca, 4 agosto 1530.
Prima vi sarà pervenuto agli orrecchi, come il Ferruccio, domenica
notte a tre ore, partì di Pisa con 3000 fanti e 300 cavalli e 12
moschetti e vettovaglia per tre giorni, e 4 muli carichi di polvere
e tre some o quattro di scale, e benissimo in ordine. Il giorno
seguente si avvicinò la sera a Pescia, a due miglia, dove mandò a
domandare passo e vettovaglie, il che gli fu denegato; e la notte
andò ad alloggiare ad un castello de’ Lucchesi detto Medicina,
e di là si partì l’altra mattina per la via del monte, che potea
condursi al Montale et ancora a Vernio, per passare in Mugello.
Questi imperiali, subito che ebbono notizia della sua uscita,
ciascuno fece l’uffizio suo. Il signor Principe dal campo venne a
Pistoia con 2000 fanti e 1000 cavalli, così Fabbrizio Maramaldo,
Alessandro Vitelli ed il conte Pier Maria di San Secondo, che in
tutto si trovorno gl’imperiali 7000 fanti ridotti in Pistoia; e si
deliberorno d’andare ad impedirli la via, e gli messono alla coda
il Bracciolino con mille fanti. E ieri, ad ore 19, il Principe
dette drento, dov’egli restò morto e la sua banda quasi rovinata,
insieme con la cavalleria. E dipoi si mosse Fabbrizio insieme con
gli altri, i quali messono in rotta il Ferruccio e le sue genti,
la maggiore parte delle quali è destrutta. E Fabbrizio di sua
mano ammazzò il Ferruccio, che avevono a saldare insieme qualche
conto vecchio. Il signor Gio. Paolo e Cattivanza prigioni; et
insomma quello che mancassi, i villani faranno adesso loro offizio.
Pare a questi uomini savi, che a Firenze abbino ad avere così
grandissimo dispiacere della morte del Principe come della rovina
delle genti loro e del Ferruccio; perchè, come sapete, il Principe
aveva la pratica dell’accordo, che ad esso saria stato facile cosa
conchiuderlo in breve tempo.
Nº VI.
(Vedi pag. 319.)
ORAZIONE DI PALLA RUCELLAIO RECITATA NEL COSPETTO DI CARLO V IMPERATORE
PER NOME DELL’ECCELSA REPUBBLICA FIORENTINA.
(Codice nº 102, manoscritto appresso di noi.)
Per vetustus mos fuit apud Maiores nostros Florentinos, Carole
Caesar Imperator Auguste, summos atque optimos Imperatores et
colere semper et summopere venerari. Quod si quis unquam magnus
Rex fuit, si quis virtute praeditus Imperator, ea claritudo est
parentum avorum proavorum maiorumque tuorum, qui omnes aut Reges
maximi aut Imperatores optimi fuerunt, is splendor celsitudinis
tuae, ea perspicua argumenta divini favoris fidem omnibus
facientia, te a deo optimo maximo electum ac de coelo missum ad
resarciendas labentis orbis terrarum ruinas, ut nemini dubium
sit Florentinum Senatum in te colendo numquam pro more suo agere
posse, numquam animo ac voluntati suae satisfacturum. Accedunt
ingentia beneficia peculiariter in Civitatem Civesque nostros
collata atque eos Cives dicimus qui se ac patriam suam in tutelam
tuam collocarant, qui sine te, invictissime Imperator Carole,
salvi esse non poterant: quibus tu post annuam obsidionem, post
multos bellorum casus, post indignam fortissimorum tuorum Ducum
in ipsa victoria caedem, patriam, parentes, liberos vitam denique
ipsam restituisti. Ob haec igitur et alia multa a te accepta
beneficia quae sigillatim explicare hujus loci ac temporis non
est, acturi gratias Florentini Senatus nomine Celsitudini tuae,
Carole Caesar Imperator Auguste; si pro immortalibus in patriam
nostram meritis parum cumulate munus nostrum impleverimus,
quaesumus obtestamurque Celsitudinem tuam, ne solum imbecillitati
ingenii nostri, quod pertenue esse cognoscimus et dolemus, verum
multo magis magnitudini beneficiorum tuorum tribuendum putes.
Quid nam sapientius aut rebus christianis armorum ac temporum
iniuria afflictis conducibilius salubriusque excogitari poterit,
quam illud divinum consilium, quo nobis Christianis omnibus
consuluisti. Nam post plurimas insignesque de hostibus tuis
victorias quibus tu numquam animo elatior factus, Italiae pacem
et Principum Christianorum concordiam totis viribus procurasti;
cum omnis adhuc Italia armorum terrore quateretur, neque ullus
calamitatum finis appareret, consociatis repente Consiliis cum
Clemente VII Pontifice Maximo, utroque foedere, ac renovata
amicitia, inita et cum eo affinitate, ex Hyspania in Italiam
navigasti: quo eodem tempore compositis rebus cum Francisco
Gallorum Duce in Cameracensi conventu per illas numquam satis
laudatas heroinas quae ambae in Coelum receptae tum praeclari
facinoris nunc debitam mercedem recipiunt; Ianuam appulsus nihil
animo potius habuisti quam reliquas Civitates et Principes Italiae
pacatissimos reddere. Ad quam rem perficiendam cum Pontificis
Maximi praesentia multum conferre visa esset, protinus relicta
urbe Bononiam accessit exardens desiderio videndi Celsitudinem
tuam, teque in tuo optimo proposito, nullo sane negocio confirmans,
magnamque oneris huiusmodi partem in se suscipiens, primum sacris
Imperii insignibus voluit exornare, imposita Augusto capiti tuo
sacratissimis suis manibus aurea corona. Sequuta est interea
Viennensis obsidionis solutio faedaque Turcarum strages et turpis
fuga potiusquam discessus, quae victoria opportune divinitus tibi
a Deo optimo maximo concessa, Venetos statim Pontifice Maximo,
tuaeque Caesareae Maiestati coniunctissimos fecit. Receptus est
etiam in tutelam et amicitiam tuam Franciscus Sforzia Insubrum Dux
magna cum spe et populorum illorum letitia quod essent in pace
et ocio rebus suis aliquando facituri. Reliqui erant Florentini
apud quos pauci factiosi et scelerati parricidae aliquorum
animos fictis vaticiniis superstitionibusque imbuerant quasi
popularis status in ea Civitate superis gratissimus esset, alios
opifices ac mechanicos artifices fecem impiam plebis Florentinae
collatis Magistratibus ipsisque insolitis honoribus illexerant,
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- Storia della Repubblica di Firenze v. 3/3 - 34
- Storia della Repubblica di Firenze v. 3/3 - 35
- Storia della Repubblica di Firenze v. 3/3 - 36
- Storia della Repubblica di Firenze v. 3/3 - 37
- Storia della Repubblica di Firenze v. 3/3 - 38