Storia della Repubblica di Firenze v. 3/3 - 08

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più rispetti, massime in quanto a fare giustizia, che era uno di
quelli effetti principali pel quale s’introduceva questo nuovo modo.
Vollero che l’autorità sua fosse quella medesima che solevano avere
pel passato i Gonfalonieri di Giustizia, nè accresciuta nè diminuita
in alcuna parte, eccetto che potesse, come Proposto, sedere e rendere
il partito in tutti i Magistrati della città nelle cause criminali.
Si aggiunse che avesse cinquant’anni, non potesse avere altri uffici;
i suoi figliuoli e fratelli avessero divieto nei tre maggiori; fosse
loro proibito fare traffico, perchè ne’ conti del dare e avere non
avessero a sopraffare altri; avesse, oltre alle spese di Palazzo e
quartiere per la moglie e famiglia sua, cento ducati al mese pagati
dal Camarlingo del Monte; potesse, portandosi male, esser deposto e
punito sino alla morte da’ Signori e Collegi, Dieci, Capitani di Parte
guelfa, e Otto, congregati insieme pe’ tre quarti delle fave: potesse
ognuno essere eletto sebbene fosse inabile per conto di divieto o
di specchio, e coloro anche i quali andavano per le Arti minori; il
che si fece perchè gli artefici vi concorressero più volentieri: la
Signoria continuasse ogni due mesi a farsi come per l’addietro. Questa
Provvisione portata agli Ottanta e quindi al Consiglio generale, si
vinse, ma non senza difficoltà, nei due luoghi. Quanto all’elezione poi
della persona che fosse Gonfaloniere a vita, decretarono si facesse dal
Consiglio grande, togliendo via ogni esclusione di chi era a specchio,
perchè si estendesse a maggior numero. Ma non si vincesse però alla
prima, e quelli che avessero la metà più uno dovessero andare insieme
a un secondo squittinio, nel quale chi rimanesse al modo medesimo,
andasse al terzo che fosse poi definitivo. La Provvisione fu vinta in
agosto, ed ai 22 settembre radunato il Consiglio generale, al quale
intervennero più di 2000 persone, riuscì eletto Piero Soderini, rimasto
solo già nel secondo squittinio, cosicchè il terzo fu di mera forma.
Entrò in ufficio il primo di novembre 1502.
Era figlio di Tommaso Soderini che fu come balio al Magnifico Lorenzo,
e fratello di Paolo Antonio: «ricco e senza figlioli, di casa non piena
di molti uomini nè copiosa di molti parenti. Aveva cinquant’anni, di
mezza statura, viso largo e di color giallo, gran capo, capelli neri
e radi; grave, eloquente, ingegnoso, di poco animo e d’intendimento
poco forte, e non di molte lettere; vano, parco, religioso, pietoso e
senza vizi; aveva per donna la figlia del marchese Gabbriello Malaspini
di Fosdinovo, bellissima benchè attempata e savia con modi regi.[73]»
Spesso adoprato anche da Lorenzo, si diede poi tutto al governo
popolare; e dove gli altri cittadini reputati come lui, avevano fuggite
le brighe e le commissioni, lui solo l’aveva sempre accettate e tante
volte esercitate quante era stato eletto; del che gli era grata la
moltitudine, e teneva che egli fosse più valente uomo degli altri e
più amatore della Repubblica. La sua natura lo inclinava a stare coi
più, e quando l’anno innanzi fu per due mesi Gonfaloniere, non chiamò
pratiche nè cercò il parere dei cittadini più qualificati, comunicando
le cose più volentieri ai Collegi dov’erano popolani di poco valore.
Fu eletto mentre era in Arezzo Commissario, donde poi tornò a Firenze
standosi in casa fino al giorno che fu pubblicato; entrò con molta
grazia dell’universale e molta speranza. Pochi mesi dopo, Francesco
suo fratello, vescovo di Volterra, allora ambasciatore in Francia, fu
creato Cardinale insieme con altri da papa Alessandro.
Il giorno stesso in cui fu istallato il Gonfaloniere a vita, cessò
l’ufizio del Potestà, che era da principio come la figura del sovrano,
ma ora non doveva essere più altro che un giudice. Finattantochè
in Italia dominava il solo pensiero d’essere o guelfi o ghibellini,
andavano i nobili per le città della parte amica a fare ufficio di
Potestà, recando seco legisti che erano sufficienti in quel destarsi
della giurisprudenza, seguace allora della politica; era questo come un
segno d’unione e un vincolo tra le città sparse che professavano l’una
o l’altra parte. Ma ora i nobili da per tutto altro avevano da pensare;
guelfi e ghibellini valeva lo stesso, e la scienza delle leggi stava
in alto da sè. Già da molti anni le signorie cittadine, rassicurate
nella coscienza del loro diritto, aveano abbassato l’uffizio del
Potestà caduto in mano di molti bisognosi che seco menavano dei
cattivi Giudici. Una provvisione vinta nel Consiglio Generale, dove
intervennero 1180 cittadini, ordinava la formazione d’un Consiglio di
Giustizia, o Ruota di cinque dottori forestieri con salario di ducati
cinquecento per uno, i quali dovessero stare tre anni e avessero tutti
insieme a giudicare le cause civili, e che non potessero dar sentenza
se non erano quattro almeno d’accordo, e che ogni causa fosse udita
almeno una volta; dalle sentenze loro non si potessi appellare che a
loro medesimi, avendo abolito anche l’ufficio del Capitano del Popolo.
Dapprincipio volendo continuasse l’antico nome, non che per dare più
lustro a quel Magistrato, decretarono che uno dei cinque tratto a sorte
per sei mesi, avesse titolo di Potestà con accrescimento di stipendio;
da ultimo stessero al sindacato di otto cittadini, tratti dal Consiglio
Grande. La Ruota in seguito ebbe variazioni, finchè ne fu tolto il nome
del Potestà, disceso indi nei minori giusdicenti del Contado.[74]


CAPITOLO IV.
GIULIO II. — RIACQUISTO DI PISA. — GRANDE LEGA CONTRO A’ VENEZIANI. —
GUERRE IN ITALIA; RITORNO DE’ MEDICI IN FIRENZE. [AN. 1503-1512.]

Le vittorie di Consalvo rendeano perplessa la mente del Papa, il quale
venuto in somma potenza con l’aiuto dei Francesi, vedeva le sorti loro
declinare; e già sapeva che il re Luigi, temendo le armi e le ambizioni
dei Borgia, cercava opporre ad essi una Lega, nella quale entrassero
Firenze, Bologna e Siena, avendo in questa città fatto ritornare
Pandolfo Petrucci. Vedeva all’incontro che dagli Spagnoli potrebbe
avere partiti larghi; e benchè il volgersi dalla parte loro gli paresse
cosa di molto pericolo ora che un altro esercito di Francesi già era
in Italia, tenendosi pure in tanta grandezza quasi che arbitro della
scelta, era opinione sarebbe andato dove lo tirava la sete d’impero
in lui più accesa dalla fortuna. Ma in quel mentre avendo il Papa e
il Valentino dato una cena ad alcuni Cardinali in una vigna presso
al Vaticano, il Papa sorpreso da morbo improvviso moriva nel giorno
seguente, che fu il 18 di agosto 1503, e il Valentino era portato a
casa in grande pericolo della vita. Corre un’istoria, e fu creduta
generalmente, che per lo sbaglio di certi fiaschi bevessero entrambi il
veleno da essi apparecchiato a quei Cardinali per averne le ricchezze:
ma noi ricordiamo che a molti Principi riuscì fatale in quella stagione
dell’anno l’aria appestata della campagna di Roma, che poi si dissero
morti di veleno; ed all’istoria della Casa Borgia teniamo per fermo che
si aggiunga una leggenda d’infami delitti e poco credibili; gastigo dei
veri.
Morto Alessandro, fu grande tumulto in Roma; già quasi era sulle porte
un esercito di Francesi avviato a Napoli, e seco il Cardinale di Roano
che si confidava per tal mezzo salire al papato. Gli Orsini correvano
al sangue del Valentino; e questi in mezzo alla infermità, raccolte
nei prati di Roma le genti sue e guadagnatisi i Colonna con rendere ad
essi le tolte castella, faceva testa e si confidava di fare eleggere
un Papa a suo modo. Ma nel Conclave la divisione essendo grandissima
tra’ Cardinali spagnoli o francesi e tra gli amici o nemici della Casa
Borgia, portò la minaccia dei pericoli vicini che si accordassero ad
eleggere in pochi dì un Papa vecchio ed infermo e di qualità buona,
ch’era Francesco Piccolomini arcivescovo di Siena, nipote di Pio II,
per la cui memoria si fece chiamare Pio III. I Francesi continuarono
la via loro; il Valentino un poco riavuto dalla infermità sua, perchè
dentro a Roma stessa gli Orsini e i Baglioni erano più forti, ottenne
ritrarsi in Castel Sant’Angelo; e intanto moriva Pio III dopo 26 giorni
di pontificato: al quale successe, con mirabile consenso, il più temuto
e ricco e potente dei Cardinali, Giuliano della Rovere, che pigliò
il nome di Giulio II; agli uni amico, agli altri largo promettitore,
e tenuto uomo di franca e veridica natura; capace fra tutti a non si
smarrire in mezzo a quella tempesta di cose. Tornavano nelle città di
Romagna gli antichi Signori, ma il Valentino teneva le fortezze, nè a
lui male affetti erano i popoli. I Veneziani che aveano piede in quelle
Provincie ed erano avidi d’ampliarsi, facendosi innanzi, investirono
Faenza, città ch’era solita di avere guardia dai Fiorentini; ma questi
sebbene temessero molto quella prossimità dei Veneziani, non furono
abili a impedire che dopo Faenza avessero anche Rimini e Pesaro, per
l’abbandono che fece di quella l’ultimo dei Malatesta, di questa
lo Sforza. Giulio II in quei principii del pontificato credendosi
forse avere bisogno del Valentino, lo raccoglieva onoratamente nel
Palagio per averne i contrassegni delle fortezze, che in altro modo
i Castellani negavano cedere; avevagli anche dato licenza di recarsi
per mare da Ostia a Napoli, ma poi nata qualche differenza, lo
ritenne; finchè il Valentino, dopo lunghe pratiche, avuto in mano un
salvocondotto di Consalvo, si fuggiva, da questi accolto e accarezzato
molto familiarmente. Nè il Borgia cessava dai vasti disegni: il nome
suo, che era terrore a molti, sapeva che avrebbe tuttora sèguito dei
più audaci; gli sparsi soldati a lui anderebbero volentieri; teneva
in deposito per conto suo dugentomila ducati nei banchi di Genova. Ed
ora pensando a far valere quell’antico titolo di signoria che aveva
sulla città di Pisa, ed accordatosi con l’Alviano, il quale voltato
a parte spagnola cercava rimettere Piero de’ Medici in Firenze; avea
di consentimento e con l’aiuto di Consalvo ordito un disegno per cui
si sarebbe gettato in Toscana. Ma lo Spagnolo aveva scritto al suo Re
aspettando quel che gli ordinasse circa il Valentino, e fu la risposta
di farlo prigione: quindi preso all’uscire dalle stanze di Consalvo,
fu con solo un paggio sopra una galera condotto nella fortezza di
Medina del Campo, ed ivi rinchiuso; due anni dopo riuscito a fuggire
per l’opera del suo cognato Re di Navarra, fece morte da soldato,
combattendo per conto di questo alcuni castelli.
Da Roma i Francesi avevano continuata la via per Napoli sotto la
condotta del Marchese di Mantova: era già cominciato l’inverno aspro e
difficile oltre il consueto, ed essi pigliarono la via più breve; ma
dove il Garigliano, alto e profondo presso alla foce, poneva ad essi
maggiore ostacolo. Avea Consalvo più scarso il numero dei soldati, ma
duri al disagio e pazienti per la fede che aveano grandissima nel gran
Capitano, laddove i Francesi malvolentieri ubbidivano al Marchese che
si dovette come straniero partire dal campo, lasciando il governo a
tre Capitani tra loro discordi. Tentarono invano il passo del fiume
dove Consalvo si tenne fermo, e tenne i suoi con mirabile costanza
cinquanta giorni. Ma quando a lui fu sopraggiunto l’Alviano recando
seco le forze di Casa Orsina, Consalvo allora spingendosi ardito di là
dal fiume, ruppe i Francesi con grande vittoria e memorabile per gli
effetti, essendo gran numero di essi perito in quelle paludi, e gli
altri dispersi e spenti in più modi per la diligenza di Consalvo: Gaeta
si arrese il primo dell’anno 1504, e da quell’ora la possessione di
Napoli, come di Sicilia, stettero per bene due secoli sicure in mano
degli Spagnoli. Piero dei Medici, che seguitava l’esercito francese,
avendo nella levata del campo cercato con altri gentiluomini condurre
pel fiume a Gaeta alcuni pezzi d’artiglieria, si annegò insieme con
essi pel troppo peso della barca e i venti contrari: più tardi il
fratello, divenuto Papa, gli fece inalzare un monumento nella chiesa
del monastero di Montecassino.[75]
Dopo la rotta al Garigliano si fece tregua e indi pace tra i due Re
che nella Italia si adagiarono; ma continuava sempre in Toscana quella
sciagurata guerra contro Pisa, la quale parve migliore consiglio
terminare lentamente col dare il guasto alle terre dei Pisani e
chiudere i passi alle vettovaglie per terra e per mare, avendo a tal
fine condotto Francesco Albertinelli fiorentino con alcune galere;
intantochè l’esercito di terra campeggiava sotto Ercole Bentivoglio,
ed era Commissario quel celebrato Antonio Giacomini, buon cittadino,
uomo risoluto e franco ed esperto nelle cose della guerra. Avevano
anche dato ascolto ad un disegno di volgere il corso dell’Arno e
mettere Pisa in secco; ma quell’opera falliva, e una fortuna di mare
ruppe le galere. Pensarono allora di lasciare libera l’uscita a quanti
Pisani volessero e ad essi restituire le terre: non credevano al fermo
animo di quel popolo, e aveano speranza di vuotare così la città; ma
pochi uscirono, bocche inutili; e i tornati nel possesso delle terre
nascostamente sovvenivano alla penuria di quei di dentro. Ne mancò
loro anche questa volta soccorso di Principi ch’aveano disegni sopra a
Pisa. Nel seguente anno 1505 credendosi generalmente che il re Luigi
XII fosse per malattia vicino a morte, il cardinale Ascanio Sforza,
che stava in Roma, formò con l’intelligenza di Consalvo, e come si
disse dei Veneziani e del Papa, un disegno per cui l’Alviano entrando
in Toscana per la via di Pisa riconducesse il Cardinale e Giuliano
dei Medici in Firenze, i quali poi dessero aiuto allo Sforza per la
recuperazione di Milano. Ma il Re tornò sano contro all’opinione di
ciascuno, e invece Ascanio venne a morte: l’Alviano, che era già in
sull’arme, non avendo come impiegare i suoi soldati e molto eccitato da
Pandolfo Petrucci, deliberava per suo conto seguire l’impresa contro
a’ Fiorentini. Da Siena pigliando la via per la Maremma di Volterra
si condusse fino alla Torre di San Vincenzio, dove incontrato a’ 17
d’agosto dalle schiere Fiorentine che lo avanzavano per il numero delle
fanterie, quel grande ma sempre infelice Capitano fu rotto, e presi
molti de’ suoi e tutti i carriaggi e le bandiere; scampato egli stesso
a mala pena con dietro la caccia dei vincitori. Questa vittoria diede
tanto animo al Gonfaloniere Soderini, che egli si credette di avere
Pisa: ma perchè Consalvo, sapendo lui essere di parte Francese, aveva
pigliato la protezione dei Pisani, gli mandò in Napoli ambasciatore
Roberto Acciaioli. Consalvo allegava una promessa che in Roma il
Cardinale Soderini aveva fatta in nome del fratello di non offendere
i Pisani; e benchè Roberto dicesse non essere la città obbligata per
le promesse del Gonfaloniere, dichiarò l’altro che in otto giorni
avrebbe mandato a Pisa delle sue genti. Al che il Gonfaloniere affrettò
l’impresa; la quale però ebbe l’effetto consueto, essendo l’assalto
dei Fiorentini ributtato, intanto che in Pisa entrava una mano di genti
Spagnole.[76]
Piero Soderini, poco arrischiato per sè medesimo, aveva natura da stare
co’ molti; il che a lui tenne luogo di forza in quella Repubblica ed
in quei tempi a mantenere il grado suo e a non eccederlo. Seguiva
il pensare comune dei Fiorentini, dando poco ascolto agli uomini
principali dai quali avrebbe avuto alle volte migliori consigli, ma gli
conosceva divisi e diversi di voglie e di fede. Pei quali modi teneva
contenta la moltitudine, cui bastava che fosse in Palagio un timone
fermo: dava a lui poi sommo favore che avendo trovato quando entrò
molto disordinata l’amministrazione, e le gravezze grandissime, e il
Monte che non rendeva le paghe; egli con la diligenza sua, ed usando
quella parsimonia che soleva anche nelle cose private, limitò le spese,
scemò le gravezze e rinnalzò il credito del Monte con molta sua lode.
Quanto alla guerra, diveniva in tutta Italia necessario opporre altri
ordini e altri modi ai grossi eserciti e alle fanterie, ch’erano ai
loro paesi una milizia cittadina e parte essenziale delle istituzioni
d’ogni Stato. L’Italia non ebbe fanterie paesane perchè nessun
principe o città voleva dare le armi in mano ai propri suoi sudditi;
ma poichè il tristo mestiere dei Condottieri veniva meno e si mostrava
insufficiente ai nuovi casi, era necessità il provvedere. Venezia
tirava senza suo pericolo soldati propri d’oltremare e aveva il Friuli
provincia belligera; nondimeno cominciò a fare, col nome di cerne,
qualche leva tra’ popoli sudditi di Terraferma: anche il Duca di
Ferrara, che teneva nello Stato radice profonda, le aveva tentate.
Firenze in quegli anni fece la prova; e benchè ne uscissero effetti
deboli, fu concetto forte di Niccolò Machiavelli che lo persuase al
Gonfaloniere Soderini, essendosi in quello poi molto adoprato. Divenne
egli Cancelliere di un ufficio di Nove creato per l’Ordinanza o Milizia
fiorentina, che negletta per due secoli, fu a quel tempo istituita con
nuovi ordini i quali abbiamo di mano sua. Doveano essere dieci mila
almeno gli uomini scritti a quella milizia nel contado e distretto,
escluse però Firenze e le città murate delle quali non si fidavano,
e perchè non fosse armare in ogni città le discordie. Le Compagnie
dovean essere di trecento almeno, sotto un capitano e una bandiera,
tutti dimoranti nello stesso Vicariato; armati di picche o altre armi
da taglio con poco numero di scoppietti. Erano esercitati nei giorni
di festa; ed un Conestabile, che aveva il comando di più compagnie,
faceva riviste molto solenni due volte all’anno, nelle quali dopo avere
udita la messa in luogo aperto, si facevano discorsi che rammemorassero
ai militi i loro doveri verso Dio e la Patria; le pene gravi per ogni
trascorso, fino alla bestemmia e al giuoco. A mantenere una forte
disciplina condussero per Capitano di Guardia del contado e distretto
don Michele Coriglia spagnolo, uomo terribile, che era stato col
Valentino; ed a lui diedero trenta balestrieri a cavallo e cinquanta
fanti perchè facesse eseguire le sentenze o condannasse i trasgressori
nelle rassegne, che ordinava nei luoghi diversi dov’erano battaglioni.
I Conestabili per la maggior parte erano presi fuori dello Stato;
gli esercizi a modo svizzero o tedesco. Il Machiavelli andava spesso
in nome dei Nove a fare le mostre; il Giacomini avea la cura delle
milizie nei luoghi che guardavano verso a Pisa. Più tardi fu aggiunta
l’Ordinanza d’una milizia a cavallo, che doveano essere cinquecento,
presi e descritti nel modo stesso.[77]
Ora cominciano le imprese di Giulio II. Raffaello d’Urbino lui
dipingeva portato in sedia nel tempio d’onde un angelo con la spada in
mano cacciava gli spogliatori. Questo voleva Giulio II, ma come uomo
a cui piaceva il fare da sè; non però al modo di Alessandro VI e non
pe’ suoi, recando egli con maggior decoro nel seggio papale pensieri
grandiosi di principe e mente d’uomo di Stato, quando però la sua
indole fiera e impaziente non lo traportasse. Nel mese di settembre
1506 uscito da Roma con l’accompagnamento di oltre a venti Cardinali,
venne a Perugia; dove occupate le fortezze e tolta a Gian Paolo
Baglioni la signoria, lo condusse co’ suoi soldati a servigi della
Chiesa per l’impresa contro a Bologna, alla quale il Papa s’accingeva
con la promessa anche di soccorso dal Re di Francia. Recavasi Giulio
quindi in Urbino, dove il nipote suo Francesco Maria della Rovere
per adozione dell’ultimo dei Montefeltro era divenuto Duca: di
là volgendosi, e per evitare Faenza che era tenuta dai Veneziani,
entrato di Romagna dentro allo Stato dei Fiorentini, e avuto da essi
cento uomini d’arme, s’appressò a Bologna, contro alla quale veniva
dall’altra parte con l’esercito Francese Chaumont Governatore di
Milano. La famiglia dei Bentivoglio cedeva lo Stato, Giovanni essendosi
dato prigione al Re di Francia con buoni patti: il Pontefice ordinava
sotto il dominio della Chiesa il governo di Bologna, che fosse quanto
alla pubblica amministrazione dato a quaranta dei principali della
città, i quali avendo a capo un Senatore presentassero forma di Stato
indipendente: questa forma durava in Bologna fino al tempo dei padri
nostri. Papa Giulio, dopo essersi ivi trattenuto poco tempo, tornava
in Roma subitamente contro all’opinione di tutti: il fine di quella
concordia tra lui e Francia, sebbene per anche non manifesto, era
contro a’ Veneziani; ma nuove cose intanto nacquero in Italia.[78]
Il re cattolico Ferdinando, che dopo la morte d’Isabella di Castiglia
sua consorte portava nome di re d’Aragona, era venuto in quel tempo
stesso a visitare l’altro suo regno di Napoli. Qui lo avea chiamato,
oltre alla voglia di abbassare la troppa grandezza di Consalvo, forse
qualche altro maggiore disegno intorno alle cose d’Italia: molti
da lui speravano l’abbassamento dei Veneziani, speravano oltreciò i
Fiorentini riavere Pisa. Ma prima di scendere in Napoli aveva il Re
saputo la morte improvvisa del giovane arciduca Filippo suo genero,
che seco divideva la monarchia di Spagna. Rimase in Napoli Ferdinando
pure quell’inverno; e poichè per la pace con Francia doveva ai Baroni
Angiovini la restituzione dei feudi che prima erano stati loro tolti,
acconciò alla meglio le cose tra essi e i Baroni Aragonesi: partiva
poi, conducendo seco il Gran Capitano ornato da lui col titolo di
Grande Conestabile di quel regno, dal quale veniva intanto rimosso.[79]
Genova in quel tempo si era ribellata contro al re Luigi, che la teneva
in protezione da quando ebbe tolto lo Stato allo Sforza, sebbene ciò
fosse con le apparenze di governo libero e serbando le antiche forme.
Ora i popolani teneano lo Stato, avendo cacciato l’ordine dei nobili
devoto al Re; il quale disceso in Italia nel mese d’aprile 1507 con
forte esercito di Francesi, nè senza battaglia entrato in Genova,
rimetteva gli ordini antichi ma più stretti, aggravando su quella città
il peso della soggezione.
Dopo ciò ebbero i due Re in Savona un molto segreto e molto
familiare abboccamento, essendo stati insieme tre giorni a conferire
personalmente comuni disegni; e la sostanza fu di assalire lo Stato
dei Veneziani appena che a loro ne venisse il destro. Ma entrambi
convennero che fosse ogni cosa da differire per gli apparecchi i quali
vedevano farsi dall’imperatore Massimiliano, che aveva in Costanza
chiamato una Dieta, ed annunziava scendere in Italia con le armi
dell’Impero a pigliare la corona ed a rivendicarne gli antichi diritti.
A fine pertanto di togliere ogni sospetto delle intenzioni loro,
Ferdinando tornava in Ispagna, e Luigi XII ritirava d’Italia gran parte
dell’esercito.[80] I Fiorentini stavano in due, come erano consueti,
non bene sapendo da quale delle contrarie parti avrebbono avuto con
minore sborso di danaro partiti migliori. Il Soderini era per conto
proprio e del fratello Cardinale che aveva in Francia grandi benefizi,
tutto francese, come per uso antico era il popolo di Firenze. Fu nelle
Pratiche disputato molto; gli Ottimati volendo che a Cesare andasse
un’ambasceria solenne; ma il Gonfaloniere gli mandò invece Francesco
Vettori, senza facoltà di trattare; nè di lui troppo fidandosi, poco
tempo dopo gli pose accanto il Machiavelli ch’era tutto cosa del
Gonfaloniere.[81] In questo tempo Massimiliano, perchè l’aiuto dei
Tedeschi gli mancava sotto, leggiero com’era di consigli e di moneta,
per fare qualcosa, mosse ai Veneziani un poco di guerra; nella quale
ributtato dai villani delle Alpi affezionati al nome veneziano, soffrì
gravi perdite dal lato del Friuli; dove la bandiera di San Marco fu
condotta da Bartolommeo d’Alviano fino a Trieste e Gorizia e Fiume,
venendo a chiudere sotto il suo dominio tutto l’Adriatico. Ma qui ebbe
termine l’ingrandirsi di quella Repubblica: a dieci dicembre 1508 il
Cardinale d’Amboise e Margherita, figlia di Massimiliano e governatrice
della Fiandra, conchiusero essi due soli in Cambray un segreto accordo,
pel quale lo Stato dei Veneziani doveva dividersi tra l’Impero e
Francia e Spagna e il Papa, se Giulio accettasse quella convenzione.
Il che egli non fece senza qualche repugnanza, ma vinse lo sdegno
contro alla Repubblica; e peggio era forse rimanere solo, quando i tre
maggiori sovrani d’Europa tra loro partivano a brani l’Italia: così fu
conchiusa la Lega celebre di Cambray.
Quella concordia tra’ due Re gli rendeva arbitri dei minori Stati,
e innanzi di porsi ad un maggiore cimento bramavano entrambi avere
fermate le cose in Toscana. Luigi XII, trattando in nome anche del Re
di Spagna, mandava in Firenze un Ambasciatore il quale facesse mostra
di vietare ai Fiorentini la recuperazione di Pisa, per essere quella
città in protezione di Francia e di Spagna, mandando pure a quella
volta uomini d’arme; e levò dai soldi della Repubblica un corsaro
genovese il quale chiudeva con le sue navi le bocche dell’Arno. Ma
erano lustre, e in quanto a Pisa null’altro cercavano che venderne a
caro prezzo l’abbandono, bisognosi com’erano entrambi di danaro per
la grande guerra che allora imprendevano. Infine convennero di non
difendere i Pisani e d’impedire che i Genovesi gli soccorressero, la
Repubblica obbligandosi di pagare centomila ducati a Francia e farsi
debitrice di cinquanta mila al Re di Spagna. Rimanevano i Lucchesi,
dai quali andavano soccorsi a Pisa d’ogni maniera: prima i Fiorentini
cercarono di costringerli facendo una mossa contro Viareggio, ma poi
vennero agli accordi, i Lucchesi promettendo, quando non fossero
molestati nella possessione di Pietrasanta, non lasciare entrare
nella città assediata soldati nè viveri. A Firenze voleano finirla con
Pisa, la quale sapevano essere agli estremi. Aveano cessato di tentare
assalti, che ogni volta erano riusciti a male per la disperata virtù
dei Pisani, persino le donne facendo la parte che in guerra potevano.
Ma ogni anno si dava il guasto alle terre che i Pisani avessero
seminate, riuscendo utilissime alla crudele opera le milizie di nuovo
formate, per essere meglio disciplinate e più obbedienti e più atte
a spargersi in piccole compagnie. Formavano questi nuovi battaglioni
le due terze parti dell’oste dei Fiorentini divisa in tre campi, che
uno a San Piero in Grado, l’altro a Ripafratta e l’ultimo nella Valle
sotto Calci; dei quali erano Commissari Alamanno Salviati, Antonio da
Filicaia e Niccolò figlio di Piero Capponi; comunicavano i tre campi
tra loro per via di ponti allora edificati sull’Arno e sul fiume morto.
Dentro la città si viveva a questo modo: la governavano quelli stessi
che avevano in mano le armi, e vi potevano molto i contadini, fieri per
natura in quei luoghi bassi, e che avendo perduta ogni cosa, tuttavia
sostenevano la città col farvi entrare un poco di viveri dai luoghi
vicini: costoro essendosi vedute ogni anno guastare le terre, più
inclinavano alla resa. Aveano sèguito nella più affamata plebe della
città, dentro alla quale molti si erano rifugiati; e capi autorevoli ai
quali era necessità soddisfare sino a fare entrare alcuni di loro nelle
ambasciate o commissioni che si mandavano fuori. Quelli del Governo
erano accusati di farsi ricchi nella penuria pubblica e di rompere ogni
accordo per non essere costretti a rendere le robe tolte ai Fiorentini,
le quali erano nelle mani loro. Nutrivano sempre qualche speranza
di fuori, aspettando che la Lega di Cambray venisse a sciogliersi;
e in quello Stato incerto d’Italia piovevano in Pisa emissari d’ogni
sorta con nuovi disegni. Oltreciò i popoli all’intorno gli aiutavano
quanto più potessero segretamente; a quei di Lucca bastava di notte
scavalcare il monte Pisano; Genova mandava soccorsi e incentivi contro
alla potenza di Francia, che aveva per sè i Fiorentini. Intanto alcuni
Signori in Toscana si adoperavano per l’accordo; quello di Piombino
faceva istanze perchè da Firenze mandassero un uomo loro a sentire quel
che dicessero alcuni venuti da Pisa a quello effetto; la Repubblica vi
mandava il Machiavelli che era in campo: ma perchè i Pisani facevano
strane proposte, e dicevano di essere senza mandato a conchiudere, il
che mostrava d’avere voluto solamente guadagnar tempo; il Machiavelli
si licenziava con parole crude, e quella pratica andò a vuoto.[82]
Ma nel mese di maggio essendo la città stretta con tale rigore che i
Commissari facevano morire chiunque si provasse a mettervi dentro cose
da mangiare; un contadino con seguito di molti uomini entrato per forza
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