Storia della Repubblica di Firenze v. 3/3 - 06

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fatto: intorno ad essi altri esultavano, intanto che molti e fin dei
più avversi erano compresi di terrore. Aveano lasciato che passassero
vicino al rogo, e lo circondassero, di quelli uomini che senza vergogna
o insultano al vinto o sul misero inferociscono. I tre Frati salirono
il palco: Fra Domenico sereno e come andasse a festa; Fra Girolamo,
che della croce teneva il mezzo, fu l’ultimo al quale il boia desse
la spinta fatale; poi subito in mezzo ad urla feroci fu appiccato il
fuoco, che arse i tre corpi legati da una catena perchè non cadessero:
di essi e del palco e d’ogni cosa le ceneri furono gettate in Arno
dal Ponte Vecchio; ma donne pietose travestite spingendosi nella
folla, raccolsero quante reliquie potessero, e alcune ne rimangono
tuttavia.[50]
La morte del Savonarola fu vittoria di tutto quanto era in Firenze di
più guasto; il vizio montato in superbia si gloriava di sè stesso;
e il ben vivere pareva che fosse dispregio:[51] entrava il secolo
corrottissimo del cinquecento, ed in Repubblica sempre popolare, i
costumi erano già tornati peggio che medicei. Uomini di conto, che
avevano prima notoriamente creduto al Frate, ora come lieti d’averlo
scoperto traditore, lo aggravavano gettandogli addosso le ingiurie
più odiose; lo chiamavano un diavolo, anzi una intera legione
d’inferno. Erano oltre agli Arrabbiati, gli astuti e i paurosi ed
il volgo dei prudenti, e l’altro volgo più innocente che aspettava
da lui un miracolo; e quelli che cercano mostrarsi furbi ai danni
altrui, ed i pentiti o vergognosi d’avergli creduto.[52] Cessate però
bentosto le ire e le paure, più non si leggono di tali accuse, ma in
Firenze e fuori troviamo invece uomini gravissimi averlo in onore: il
Guicciardini e il Machiavelli di lui parlano con rispetto; Filippo de
Comines, che aveva praticato seco, lo tenne per santo.[53] Le arti
nella loro maggiore eccellenza riprodussero più volte l’effigie del
Savonarola, e fin nelle stanze del Vaticano Raffaele Sanzio a lui dava
luogo tra’ grandi Teologi e tra’ Padri della Chiesa.
Quanti in Firenze rimanevano capaci di libertà, e coloro che più tardi
o la difesero o la piansero, uscivano dalla scuola del Savonarola, o ne
seguivano le traccie via via cancellate nel corso dei secoli. Il culto
del Frate durò più che il regno della Casa Medici; ed a memoria dei
padri nostri, la mattina del 23 maggio trovavano fiori sparsi in quel
punto della Piazza, sul quale era stato piantato il rogo. Il Convento
di San Marco, già essendo fondato il governo principesco, dava ombra
ai Regnanti; e i frati ne furono per qualche tempo cacciati. In molti
conventi d’uomini e donne di san Domenico il Savonarola aveva culto e
ufficio suo proprio, che fu pubblicato per le stampe ai giorni nostri.
Ma sul cadere del cinquecento un Medici arcivescovo ed un Medici
granduca si accordarono insieme a proibire l’ufficio ed il culto;
nondimeno vi ebbero Santi e vi ebbero Papi suoi lodatori, e la dottrina
di lui posta in Roma sotto ad esame rigoroso, ne usciva incolpata.[54]
Com’era da credere, i protestanti hanno preteso che il Savonarola fosse
uno dei loro; ma egli veramente in nulla precorse ai tedeschi novatori,
perchè nulla volea s’innovasse, nè mai gli cadde nemmeno in pensiero
mutare, com’essi fecero, il principio della fede. In religione non ambì
farsi capo di parte o fondatore d’una scuoia nuova, nè avrebbe saputo,
non essendo altro che un predicatore il quale si ardiva percuotere i
vizi palesi nei sommi della gerarchia; per questo fu arso. Non era la
sua di quelle nature che sieno atte a fare nel mondo le novità grandi,
perchè in tali uomini la volontà forte è necessario che sia anche
fredda e che adoperi le arti capaci ad ottenere il fine voluto: ma egli
era fidente nella sua propria ispirazione, e questa seguiva. Nessuno
dei maestri della Riforma lo pareggiava per alto sentire; avendo
incontro tale battaglia, rimase qual’era: era cattolico, era frate; e
grande anima con forte ingegno.


CAPITOLO III. GUERRA DI PISA. — I FRANCESI A MILANO, GLI SPAGNOLI A
NAPOLI — IL DUCA VALENTINO. — PIERO SODERINI GONFALONIERE A VITA. [AN.
1498-1503.]

In Francia essendo morto Carlo VIII senza figli, andò la corona in
Luigi duca d’Orléans che fu duodecimo re di quel nome; aveva in proprio
la signoria d’Asti, si teneva personalmente investito dell’eredità
dei Visconti; e ora succeduto come re nelle ragioni degli Angiovini,
vedendo i Francesi bramosi di guerra e sè in forze e in età da farla,
si diede tutto a quella impresa: già era l’Italia pei re stranieri
come una terra che aspettasse di fuora i padroni, ond’egli con nuovo
esempio pigliava titolo di Re delle Due Sicilie e Duca di Milano. Era
disciolta la Lega poderosa che aveva cacciato fuori d’Italia Carlo
VIII, rinate le grandi gelosie tra lo Sforza e i Veneziani, aggiuntasi
un’altra esca terribile all’incendio. Alessandro VI, poichè fu morto il
Savonarola ed egli conobbe non avere fondamento l’idea di un Concilio,
credette sè stesso libero ad ogni cupidità più sfrenata, intantochè a
lui s’aggiunse uno stimolo ed uno strumento capace alle opere che si
preparavano. Per la uccisione avvenuta del Duca di Gandia erano andati
tutti gli affetti e le ambizioni di Alessandro nel figlio secondo, che
fino allora aveva dovuto dispettosamente chiudersi nelle ecclesiastiche
dignità. Cesare Borgia, lasciato il manto di cardinale, non pensò ad
altro che a farsi uno stato, usando a tal fine la tenerezza del padre
e la potenza della Chiesa e gli sconvolgimenti d’Italia, ai quali
convennero di dare la mano il Papa e il Re con volontà pari; e Cesare
Borgia, andato in Francia, ebbe una moglie di sangue reale di Navarra,
che fu Isabella degli Albret, e in dote il ducato di Valenza nel
Delfinato, col promettersi le due parti aiuto scambievole alle grandi
opere di sovversione, che noi vedremo bentosto seguire.
Lodovico il Moro, tardo a riscuotersi, e fidando col tempo e con le
arti rimuovere da sè la tempesta, dopo avere condotto egli stesso a
Pisa le forze dei Veneziani; poichè gli ebbe veduti andare con molto
ardore a quella guerra, temè non trovarsi posto a discrezion loro,
quando con la possessione di Pisa gli stessero incontro dall’uno
all’altro mare. Vedeva inoltre, dopo la tanto da lui bramata ruina
del Savonarola, passato il governo della città di Firenze in mano
a quegli uomini co’ quali a lui era più facile intendersi: deliberò
quindi fin dai primi giorni dell’avvenuta mutazione mandare soccorsi
ai Fiorentini contro alle armi Veneziane che da più parti discendevano
verso a Pisa. Già fino dal maggio del 1498 aveva l’aiuto di queste
rialzato le fortune dei Pisani a Santo Regolo, dove poichè i soldati di
Firenze furono rotti, parve la colpa essere stata del Capitano: quindi
fu chiamato a governare tutta la guerra contro Pisa Paolo Vitelli,
condottiero allora di molta reputazione e di possanza per avere quella
famiglia la signoria della Città di Castello. Questi, dopo essersi
avanzato alquanto in quelle infelici terre dei Pisani tante volte
calpestate, sapendo che per la Lombardia scendevano in molto numero
altre genti dei Veneziani, fu d’accordo con i soldati del Duca di
munire i passi dell’Appennino così da impedire ad esse l’entrata nella
Toscana; che fu consiglio prudente, sebbene male gradito in Firenze
e sospettato di pravi disegni. Tentava allora la Signoria di Venezia
altre vie contro ai Fiorentini; e prima cercava di avere il passo
dai Senesi, dei quali era poco meno che signore Pandolfo Petrucci; ma
questi per concessioni avute nelle cose di Valdichiana si mantenne in
pace con la Repubblica di Firenze. Esclusi da questa banda i Veneziani,
si provarono in Romagna ad occupare Marradi; ma non poterono pei
soccorsi che vi mandò il Duca di Milano e, a sua richiesta, Caterina
Sforza signora in Forlì, ultimamente lasciata vedova da Giovanni dei
Medici mentre portava in seno un altro Giovanni che poi fu in arme
tanto famoso.
Voltarono allora in Casentino la guerra, dove sulla fine d’ottobre
occuparono furtivamente Bibbiena col favore di Ser Piero Dovizi da noi
già mentovato: Piero de’ Medici e Giuliano suo minor fratello seguivano
le armi dei Veneziani governate dal Duca d’Urbino e da Bartolommeo
d’Alviano. Talchè la Signoria di Firenze richiamava di sotto Pisa in
grande fretta Paolo Vitelli; e seco le genti dello Sforza entrate
in Casentino sostentavano quivi la guerra, sebbene fosse in luoghi
aspri nel cuore del verno: i villani di quei monti, sotto la condotta
dell’abate di Camaldoli, molto infestavano i nemici. Ma Bibbiena non
si racquistava; del che il popolo in Firenze dava cagione al Vitelli
e al Duca di Milano come fossero insieme d’accordo per allungare la
guerra. Pagava lo Sforza, col non trovare chi a lui credesse, la pena
dei vecchi peccati suoi; ma veramente questa volta, di già odorando
che i Veneziani tenevano pratiche con Francia, andava sincero nel
desiderare che i Fiorentini, reintegrati di Pisa, gli fossero aiuto
valido: bramava inoltre avere a’ suoi soldi Paolo Vitelli, molto in lui
fidando. I Veneziani vedeva già stracchi di quella guerra; e poichè il
cessarla credeva sarebbe tenuto comune beneficio, confidava così meglio
unire le forze d’Italia contro all’assalto di oltremonti. Volgeasi
pertanto al Duca di Ferrara perchè praticasse, come uomo di mezzo, un
accordo sopra il fatto di Pisa: al che avendo le due parti consentito,
fu nel mese d’aprile del 1499 pronunziato un lodo in Ferrara, ma tale
che a niuno potè soddisfare, perchè ai Fiorentini concedeva in Pisa una
signoria mezzana, come se in tanti odi e in tanto invecchiata sete di
vendette potessero avervi libertà i Pisani e i Fiorentini sicurezza.
Il compromesso non fu accettato da nessuno; ma i Veneziani di cheto
ritrassero le genti loro dalla Toscana, e in quel mezzo pubblicavano
la lega stretta già prima segretamente col Papa e col Re di Francia,
che si obbligava dopo l’acquisto di Milano cedere ad essi Cremona con
la Ghiaradadda. Così era imminente il pericolo del Duca, e molto in
Firenze la città divisa, potendo in alcuni il pensiero del recente
benefizio e in altri l’antico amore per Francia; ma indugiavano a
scuoprirsi mentre pendeva tuttora dubbioso l’evento.
Contro a Pisa invece andavano allegri di nuova baldanza, poichè i
Pisani più non avevano chi gli soccorresse; duello di popoli fiero
e terribile sopra ogni altro. Pigliate a soldo altre milizie, le
posero tutte sotto al comando di Paolo Vitelli, che richiamato dal
Casentino, e dopo l’espugnazione di alcuni di quei castelli tante
volte perduti e ripresi, poneva il campo sotto Pisa; dove accadde che
mentre ai 10 d’agosto piantava le artiglierie, una mano di soldati suoi
trovando male difesa la rôcca forte di Stampàce, che è sopra le mura,
v’entrassero dentro: del che nei Pisani fu grande sbigottimento, e
per alcune ore la città fu detto che stesse a discrezione del Vitelli;
ma questi cauto per natura, e non avendo a ordine le milizie, temette
cacciarsi dentro vie mal note, in mezzo ad uomini disperati, e suonò
a ritratta: i Pisani rincorati fecero altri ripari.[55] Pochi dì poi
il Capitano aveva con le artiglierie gittato a terra tanta parte di
muro ch’era possibile entrarvi, ma, come diceva, con molta uccisione
dei suoi; ond’era meglio aspettare pochi giorni perchè fosse aperta
più larga entrata. Ma in questo mezzo cominciarono per la stagione a
regnare in campo certe febbri pestilenziali per cui le compagnie de’
soldati molto diradavano, e gli stessi Commissari tutti ammalarono;
talchè a due per volta quattro volte rinnovati, quattro di essi
perirono, e tra questi Paol’Antonio Soderini, ch’era sempre dei primi
nella città, ma poco amato: cadeva su’ Fiorentini l’abbandono crudele
nel quale aveano tanti anni lasciato gli scoli della provincia Pisana.
Convenne bentosto al Capitano levare il campo di sotto Pisa, dov’erano
anche entrati trecento fanti mandati dai Lucchesi. Di ciò in Firenze
fu grande lo sdegno ed alte le grida, che il Vitelli accusavano
traditore. Contro lui erano antichi sospetti: egli superbo e rozzo ed
avaro, riusciva male atto dove una moltitudine richiamata subitamente
a libertà credeva spiegare la forza sua nell’avere sempre per nemici
coloro che stavano più in alto di lei. Nè mancavano uomini ai quali
paresse rinnalzare il nome di una Repubblica popolare con l’abbattere
senza rispetti un Capitano che aveva in Italia fama di possente:
credeano agguagliarsi alla Repubblica di Venezia se tagliassero il
capo al Vitelli, come aveano fatto in simile caso i Veneziani al
Carmagnola. La forza in quei tempi, qualora sapesse un po’ di delitto,
cresceva agli Stati quel che appellavano reputazione. Fu il Vitelli da
un Commissario della Repubblica, sotto specie di conferir seco, fatto
venire a Cascina e ritenuto quivi in custodia: Vitellozzo suo minor
fratello, riuscendo a salvarsi tra’ suoi, fuggiva, serbato più tardi a
morte peggiore. Paolo Vitelli, condotto a Firenze e messo ai tormenti,
benchè non trovassero per molti esami contro a lui cosa di sostanza,
ebbe nel seguente giorno mozzata la testa: gli uomini della piazza
lodarono il fatto.[56]
In questo tempo era il re Luigi entrato in Italia. Qui niuna alleanza
fortificava lo Sforza, e quella di Massimiliano imperatore gli tornò
vana, sebbene questo principe fosse legato a lui di parentela, e
bramasse molto difendere i diritti della imperiale investitura,
chiudendo ai Francesi la via d’Italia: ma i suoi disegni cadevano a
vuoto per la leggerezza dell’animo e per l’inopia di danaro. Non avea
lo Sforza temuto chiamare contro alla Repubblica di Venezia i Turchi;
e questi gli furono migliori amici, poichè mentre assalivano la Morea,
invasero il Friuli fino alla Livenza, devastarono ogni cosa, uccisero
o trassero in schiavitù gli abitanti. Comandava l’esercito milanese
Galeazzo da Sanseverino, guerriero da mostra più che da campo, il
quale al primo urto dei Francesi abbandonata vilmente Alessandria,
apriva ad essi la via di Milano; e i popoli erano mal disposti: al
che sbigottito il Duca, insieme col cardinale Ascanio suo fratello e
col tesoro e co’ figliuoli si fuggiva in Allemagna. Del Castello di
Milano aveva fidata la guardia a Bernardino da Corte suo allevato,
ma questi corrotto dal Re con danaro gli aperse il Castello. Così
tutto lo Stato del Duca venne in mano dei Francesi, eccetto Cremona
e la Ghiaradadda; le quali sebbene facessero istanza che il Re le
accettasse, andarono ai Veneziani secondo le convenzioni. Ciò fu nel
settembre del 1499, dopodichè il re Luigi tornò in Francia, lasciato
il Trivulzio governatore in Milano. Lodovico fuggiasco attendeva con la
sola potenza che a lui rimanesse, la moneta, a farsi un altro esercito
assoldando Svizzeri e Lanzichenecchi; e quando poi seppe rimasti in
poco numero i Francesi ed essere i popoli già infastiditi di loro,
tornava indietro nel mese di febbraio del 1500, e agevolmente rientrato
in Milano, cercava munirsi per quando i Francesi, come n’era certo,
scendessero un’altra volta giù dalle Alpi. S’era il Trivulzio rinchiuso
in Novara, dove assaltato cedè al valore degli Svizzeri di Lodovico;
ma intanto venivano con singolare prestezza in Lombardia tra le genti
del Re altri Svizzeri al soldo di questo. Lodovico di già s’apprestava
a dare battaglia; ma quei suoi Svizzeri medesimi tumultuavano per le
paghe, e poi ben tosto venuti ad intendersi con quelli del Re, insieme
convennero di abbandonare Lodovico: nè ai preghi di lui cedendo nè
alle lacrime, gli permisero solamente uscire travestito in mezzo alle
file come uno di loro; ma non gli valse, perchè riconosciuto e forse
tradito, cadeva ben tosto in mano ai Francesi. Non sia permesso ad
altra nazione levare accusa contro agli Italiani perchè mancassero
alla fede: i grandi principi e i liberi uomini del pari tradivano; i
semplici alpigiani dell’Elvezia venderono lo Sforza ad un Re. Lodovico
andò prigioniero nel castello di Loches in Turena, dove finiva la
vita.[57]
I Fiorentini godevano poco favore alla Corte e nei consigli del Re
francese per essere stati tardi a dichiararsi, e ultimamente per
l’uccisione di Paolo Vitelli ch’era stato soldato di Carlo VIII, e
perchè sempre mettendo innanzi la recuperazione di Pisa, andavano
contro ai disegni del Trivulzio al quale i Pisani aveano offerta
la signoria. Purnondimeno prima che il Re partisse da Milano aveva
firmato una carta, della quale la sostanza era pe’ Fiorentini riavere
Pisa con le armi francesi, promettendo poi d’essere insieme col Re
nell’impresa che egli disegnava contro Napoli.[58] Nè appena spedite
le cose di Lombardia, scendevano per la via di Pontremoli soldati
Guasconi e Svizzeri sotto la condotta di Ugo di Beaumont, che i
Fiorentini aveano al Re chiesto come loro bene affetto. Chiudeano i
Pisani le porte all’esercito, dichiarando che al Re si darebbero con
allegrezza, ma sotto promessa di non essere mai ceduti ai Fiorentini:
ricevevano nella città i soldati quanti venissero alla spicciolata, e
gli servivano di viveri e d’ogni cosa domandassero. Il Beaumont con
l’artiglierie batteva le mura; ma quando i Francesi ebbero aperta
una larga breccia, trovarono che i Pisani, uomini e donne, erano lì
a munire una fossa scavata in fretta dietro alle mura. Questo fu il
termine dell’impresa: le vettovaglie scarseggiavano all’esercito, e i
Commissari della Repubblica ne aveano carico, tantochè si venne a non
più intendersi; i soldati predavano i carri degli approvvigionamenti,
e in Pisa praticavano come amici. L’onore del pari e la compassione
gli muovevano; Pisa era stata a quelle miserie condotta da Francia.
Si legge che a due Francesi d’alto grado mandati ad intimare la resa,
le fanciulle pisane andate incontro abbracciassero le ginocchia, e
poi menatigli davanti a un’immagine della Vergine e cantando preci
da spezzare il core, chiedessero almeno che si unissero con loro a
invocare dal cielo pietà, se dagli uomini non l’ottenevano.[59] Il
disordine entrò nel campo, e si avvicinavano i tempi delle febbri;
era discordia tra Guasconi e Svizzeri, e tutti sgombrando, questi
condussero prigioniero il Commissario Luca degli Albizzi che pel
riscatto pagò grossa taglia.[60]
Luigi XII per le convenzioni con papa Alessandro si era obbligato
dargli aiuto alla conquista di Romagna che il Papa agognava. Già
nei Pontefici era antico desiderio finirla una volta con quel grande
numero di tirannetti e di terre libere che di nome ubbidivano alla
Chiesa, ma in fatto nè pagavano tributi, nè si astenevano dall’entrare
in guerra tra loro e con altri, e di frequente contro a Papi stessi.
Nel Borgia, che era uomo di vasti concetti, le ambizioni di pontefice
si univano alla brama di fare uno stato al figlio e spingerlo alle
grandi cose: col nome e con le armi di Francia avean essi deliberato
abbattere e distruggere i Vicari che già da più secoli tenevano la
Romagna. Contava il Re molto sull’amicizia d’Alessandro pel grado e
per la moneta, e perchè vedeva nel padre e nel figlio uomini da non
lasciare a mezzo le cose; la Lega pertanto avea saldi vincoli, perchè
utile a entrambi. Andava il Papa franco all’impresa, che nessun altri
oppugnerebbe; poichè i Veneziani avendo addosso la guerra col Turco,
e a condizione che non se gli toccasse Ravenna e Cervia, ritiravano la
protezione sotto la quale erano usi tenere i Signori della Romagna; nè
i Fiorentini poteano allora prestare a questi valido aiuto.
Cesare Borgia, chiamato generalmente il Duca Valentino, era di Francia
venuto col Re, che non appena entrato in Milano gli aveva dato trecento
lance sotto Ivo d’Allegri, e col Balì di Dijon quattromila Svizzeri da
essere mantenuti a spese del Papa. E questi intanto con la paura aveva
costretto a seguitare le armi della Chiesa gli Orsini, i Vitelli, i
Baglioni di Perugia e gli altri Signori i quali erano più vicini a Roma
e che di solito faceano vita di condottieri. Altre forze erano già in
pronto, e il Valentino espugnata Imola, condusse la guerra contro a
Forlì dove risedeva quella valorosa Caterina Sforza, la quale mandati
i figli a Firenze con tutto il mobile, perchè non poteva difendere la
città, si chiuse nella cittadella; e a questa essendo dalle artiglierie
aperta una breccia, poi nella rôcca, dove animosamente si difendeva;
ma quivi pure entrati con molto sangue i nemici, andò essa in Roma
prigioniera. Allora essendo Lodovico Sforza tornato in Milano ed
i Francesi richiamati in Lombardia, fu costretto il Valentino per
qualche mese interrompere la conquista; ma sul finire dell’anno 1500
reintegrata la guerra, ed avendo già il Malatesti abbandonata Rimini,
e Giovanni Sforza lasciatogli Pesaro senza contrasto, poneva il campo
sotto a Faenza. Qui era signore il giovinetto Astorre Manfredi, che
aveva appena diciotto anni e poca guardia di soldati; ma i Faentini
avvezzi a quella domestica signoria, e per lo spavento che metteva
il nome del Borgia, chiusero le porte, sostennero un primo assalto
e quindi un altro ed un altro. Correva l’inverno rigidissimo, ed
ai soldati era impossibile alloggiare a cielo scoperto, sempre
infestati ferocemente da quei di dentro: il Valentino si rodeva, ma
gli convenne fino a primavera distribuire le sue genti nei luoghi
all’intorno. Tornato a battere la città, ne fu respinto un’altra volta
con grave perdita; ma i Faentini allora vedendosi essere all’estremo
si arresero, salvi gli averi e le persone, e con che Astorre andasse
libero conservando le sue possessioni. Il Valentino, grande maestro
d’una politica scellerata, ai Faentini mantenne i patti; ma perchè
l’arte di spegnere le persone valeva qualcosa in tempi nei quali
pareva la forza degli Stati e delle parti essere tutta in certi uomini
ed in certi nomi, aveva già in sè deliberato la distruzione di tutte
intere le famiglie dei Signori da lui spossessati: amava condire col
tradimento la crudeltà; e più che vi fosse infamia, più gli piaceva.
Ritenne appresso di sè il bello e misero giovinetto, poi di notte
tempo lo mandò a Roma, dove in modo oscuro fu messo a morte insieme a
un fratello suo naturale. Dopo di che il Valentino ebbe dal Papa e dal
Concistoro titolo e investitura di Duca di Romagna.[61]
Voleva andare contro a Bologna, ma perchè Giovanni Bentivoglio
era in protezione del Re di Francia, s’accordò con lui che intanto
insanguinava Bologna con la uccisione della famiglia e della parte
dei Marescotti a lui nemica. Ferrara fu salva perchè Alfonso d’Este
consentì a farsi quarto marito di Lucrezia Borgia; lo costrinse la
paura e lo attirò il molto danaro e l’inestimabile ricchezza d’arredi
e di gioie che la sposa portò seco da Roma a quelle ducali nozze, che
i Fiorentini molto onorarono con presenti.[62] Il Valentino, cui non
bastava la Romagna, prese la via di Toscana; dimandò il passo alla
Repubblica di Firenze, dicendo ch’era per andare a Roma; poi non appena
ebbe valicati gli Appennini e investito Firenzuola, scese difilato
giù per la via di Mugello presso alla città fino a Campi, dove giunse
nei primi del maggio 1501. Firenze a quel tempo era in molto basse
condizioni: la guerra di Pisa l’avea logorata, le città vicine la
nimicavano; poca guardia di soldati, perchè i cittadini erano stracchi
dall’averne pagati tanti con tanto mal frutto; debole il Governo e
dalle moltitudini sospettato. Il che s’era veduto in Pistoia: qui
da oltre due secoli si mantenevano le parti dei Cancellieri e dei
Panciatichi, fomentate anche dalla Repubblica di Firenze, dove era
antica regola tenere Pisa con le fortezze e Pistoia con le parti.
Le due famiglie che davano il nome a quella discordia potevano meno,
perchè essendo ambedue dei Grandi, erano escluse da ogni partecipazione
nello Stato; ma i loro aderenti, che aveano gli uffici, in quelli si
urtavano. Erano i Panciatichi fautori de’ Medici e parenti dei Vitelli:
Giovanni Bentivoglio favoriva i Cancellieri: questi un giorno, e sotto
agli occhi degli Ufficiali e dei Commissari di Firenze, levatisi in
arme, cacciarono i Panciatichi di Pistoia e arsero le case dei capi
di quella parte. La guerra s’accese per il contado e per la montagna;
nè la Repubblica vi poteva nulla, divise le voglie e le opinioni dei
governanti. Un contadino di parte Panciatica, giovane di grande animo
e di senno, mostratosi prode nella difesa di casa sua e fatto capo dei
suoi, gli guidava contro ai Cancellieri; dei quali molti, mutate le
sorti erano uccisi e arse e devastate le possessioni: durò quella peste
continua più mesi. Così in Italia si viveva quando gli stranieri vi
furono entrati.[63]
Intanto per opera del Valentino Piero de’ Medici era venuto fino
a Loiano; Giuliano era andato in Francia, sperando favore dal Re;
Vitellozzo, mandato in Pisa con le sue genti, faceva ogni danno ai
Fiorentini; e una segreta convenzione tra il Duca e i Pisani, a questo
dava la signoria, con che dovesse recuperare tutto l’antico stato di
Pisa, escludendone tutti e per sempre i Fiorentini. A questi il Borgia
si protestava sempre amico: domandava però il ritorno dei Medici,
o almeno la formazione d’un Governo stretto con altre condizioni;
quindi soprastette un poco, sperando che nella città divisa ed agitata
potesse nascere qualche movimento. Qui era tumulto ed in alcuni volontà
incauta di uscire popolarmente e assalire il campo nemico: prevalse il
consiglio degli uomini più autorevoli benchè sospetti, ed il Vescovo
d’Arezzo con altri oratori fu mandato a trattare con Valentino. Questi
dal canto suo vedeva intanto che mutare lo stato in Firenze non sarebbe
facile opera nè sollecita, ed a lui tardava fare cammino per gli avvisi
ricevuti di Roma e di Francia. Prima lentamente di luogo in luogo
si condusse infino ad Empoli, e per via conchiuse con la città un
trattato pel quale, mettendo da parte ogni altra pretensione, veniva
egli nominato Capitano generale della Repubblica per tre anni, con
certo numero d’uomini d’arme, e con condotta di trentaseimila fiorini
l’anno; trattato che dava a lui grandezza di nome piuttosto che forza
effettiva: ma nè questo, nè l’altro che aveva fatto in contrario
co’ Pisani, ebbero mai sorta alcuna d’esecuzione. Da Empoli il Duca
accompagnato dai Commissari della Repubblica, ma non senza fare alle
campagne grandissimi danni, lasciata da banda Volterra e occupata con
qualche difficoltà Ripomarance, scese in Maremma e pose il campo sotto
a Piombino. Iacopo d’Appiano qui era signore; il quale veduta la mala
parata, si condusse per mare in Genova; ma i Capitani suoi continuavano
la difesa, nè Piombino cadde sotto all’obbedienza di Cesare Borgia se
non quando questi era già in Napoli co’ Francesi.[64]
Abbiamo alla fine del primo Capitolo di questo Libro, lasciato il
giovane Ferdinando aragonese padrone del regno che egli si aveva
recuperato con le armi. Ma nelle gioie della vittoria e d’un matrimonio
troppo da lui desiderato, quel nobile giovane moriva nel settembre
del 1496; onde la corona andò in Federigo suo zio, di mite animo ed
immune dalle colpe del fratello Alfonso e del padre. Il nuovo Re,
scorato al primo avanzarsi dei Francesi, offrì a Luigi XII di rimanere
in Napoli come suo vassallo; partito invero nè da proporre nè da
accettare, perchè ad entrambi era impossibile mantenerlo. Ma iniquo
fu quello che accettò Luigi. Il regno di Napoli conquistato dal primo
Alfonso, era stato da lui trasmesso a Ferdinando suo figlio naturale;
il che pareva essere contro alle ragioni della famiglia d’Aragona,
sebbene con astuzia e pazienza spagnuola (scrive il Guicciardini) non
mai le avessero messe innanzi, e invece prestassero a quei di Napoli
buono ufficio di parenti sempre, e da ultimo al re Federigo. Ma parve
essere buona l’occasione al re Cattolico ora che il Francese consentì
seco venire a patti per la divisione del reame. Bene potè Ferdinando
vantarsi d’avere un’altra volta ingannato suo fratello Luigi, il quale
veniva con quel trattato a porsi a fronte un re possente e di lui più
accorto, che aveva piede in Sicilia e sempre aperte le vie del mare.
Tale convenzione rimase più mesi segretissima, e si svelò quando già
essendo i Francesi venuti innanzi, papa Alessandro improvvisamente
concedeva l’investitura a quei due Re, ciascuno per la parte che gli
spettava. Del che Federigo essendo ignaro, sollecitava Consalvo di
Cordova, che di Sicilia era venuto in Calabria come a soccorrerlo, si
affrettasse, non potendo ancora credere all’inganno, che lo spagnuolo
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