Storia della Repubblica di Firenze v. 3/3 - 04

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del Maglio. Quivi erano scuole di greco e d’ebraico, di scienze sacre
e di profane, a formare uomini capaci ad un voto che gli stava nella
mente, quello di predicare il Vangelo ai Turchi. Faceva tutto questo
col ritratto dei beni venduti; comprava dal Fisco per tremila fiorini
d’oro la Biblioteca Medicea, che aggiunta all’antica di San Marco,
eredità di Niccolò Niccoli, era quivi messa a pubblico uso; ed intanto
sovveniva alle strettezze della Repubblica inabile a soddisfare i
creditori di casa Medici, tra’ quali era Filippo de Comines, per mille
fiorini dei quali il Frate si accollò il pagamento. Aprì anche una
scuola di Pittura nel Convento, prezioso pei dipinti di Fra Giovanni
Angelico, ed ora per quelli di Fra Bartolommeo, tanto devoto al
Savonarola che dopo la morte di questi lasciava per due anni da banda i
pennelli. Fra Girolamo sentiva l’arte come filosofo non di cuore arido,
ed il Bello definiva con alti concetti, semplici ed evidenti, nei quali
credo sia la sostanza di quante dottrine mai si facessero intorno
all’Arte.[29] Fu inoltre poeta e non dei volgari, la sua mente a
prodursi intera avendo bisogno d’espandersi anche per via della poetica
espressione.
Lorenzo de’ Medici lo aveva chiamato al suo letto di morte;[30] ma
non appena mancato questi, si era Fra Girolamo sentito più libero nel
predicare, dov’era tutta la forza sua. L’Avvento del 1493 in Santa
Maria del Fiore espose intera la sua dottrina intorno alla fede e alla
virtù delle opere; mostrò il Vangelo essere da tutti abbandonato;
accusò le Corti dei Principi e il mondano fasto dei grandi Prelati;
annunziò il flagello che si avvicinava. Assiduo sul pergamo, di là
svolgeva i suoi concetti sempre più alto e più incalzante nel seguente
anno 1494, mentre Carlo VIII scendeva in Italia. Questi giunse in
Asti ai 9 settembre, e ai 21 di quel mese avendo il gran Frate, che
predicava sulla Genesi, discorso più giorni dell’Arca mistica di Noè,
doveva esporre le parole intorno al Diluvio. Sotto alle vôlte del Duomo
la folla si accalcava da più ore oltre al consueto; la trepidazione
grande; e quando la voce del Savonarola si udì ad un tratto tuonare
dal pulpito queste parole: «Ecco, io manderò le acque sulla terra,»
per tutta la chiesa furono grida e pianti di terrore e di spavento:
raccontava Pico della Mirandola che un brivido gli era corso per le
ossa, e i capelli gli stavano ritti sulla fronte; confessa Fra Girolamo
ch’egli era commosso quel giorno al pari degli ascoltatori suoi.[31]
La potenza del Frate in Firenze non aveva chi la pareggiasse; e quando
si venne a riformare lo Stato, la voce di lui era la sola che dominasse
i voleri incerti o divisi, e che mettesse unità in questo popolo servo
da tanti anni e disgregato, ricomponendo, quanto allora si potesse,
quel grande fascio della comunanza, dov’era stata la forza in antico
della città di Firenze. «O popolo mio, tu sai che io non sono mai
voluto entrare in cose di Stato (predicava egli quando si venne alle
Riforme): credi tu che ci verrei al presente, se io non vedessi che
ciò è necessario alla salute delle anime? — le mie parole vengono
dal Signore — purificate il vostro animo; e se in tale disposizione
voi riformate la città vostra, tu, popolo di Firenze, incomincierai
in questo modo la riforma di tutta Italia....» Il Savonarola era di
popolo come uomo e come frate e come santo; i vizi scendevano allora
dall’alto, ed il popolo si manteneva pio e costumato al confronto
della corruttela dei suoi capi, sia laici, sia cherici: nè altro
governo qui era possibile a impedire la tirannia d’un solo. Il Frate
in mezzo a tutti apparve temperato nei consigli, conoscitore degli
uomini e degli ordini civili. Chiamato in Palagio, approvò la nuova
forma con savie parole, mostrando che era allora assai fermare un modo
che fosse buono in universale, e che i disordini si correggerebbero
col tempo. Dopo questo volle raccogliere in Duomo i Magistrati ed il
Popolo, escludendone le donne e i fanciulli. Propose e raccomandò
un Governo popolare fondato sul timore di Dio e sulla riforma dei
costumi, non guasto dal tarlo dei fini privati, eguale per tutti, non
facendo distinzione tra gli uomini del vecchio e del nuovo Stato,
perdonando le passate colpe, di modochè fosse pace universale. In
seguito ebbe mano egli stesso nell’abolire il modo tirannico per cui si
distribuivano le gravezze, volendo che una _decima_ sulle possessioni,
dipendente dal valore dei fondi, togliesse via le personalità che
si usavano nell’imporre. Il tribunale della Mercatanzia, che aveva
perduto l’antico credito mentre sotto ai Medici era in mano dei
loro amici, fu rialzato con nuovi Statuti, i quali divennero un vero
Codice di commercio. Il Monte di Pietà, predicato più anni prima da
uomini religiosi, non si era mai potuto fondare; ma ciò venne fatto
al Savonarola, ed una Legge tutta di carità si venne a porre contro
all’usura praticata iniquamente dagli Ebrei. Raccomandava egli queste
cose dal pergamo, e prima già erano accolte dai Capi dello Stato.
Ma ciò che sopra ogni altra cosa diede carattere al nuovo governo,
fu l’abolizione del tirannico diritto che, prima concesso ad altri
magistrati, risedeva ora negli Otto di Guardia e Balía, potendo questi
con _sei_ voti condannare alla perdita della vita o della patria o
degli averi quale si fosse cittadino. Per una legge, che indi ebbe nome
di Legge delle _sei fave_, fu data l’appellazione da quelle condanne al
Consiglio Generale. Aveva il Savonarola opinato bene, che la revisione
di que’ giudizi dovesse farsi da _Ottanta_ o _Cento_ uomini principali.
Ma i partigiani d’un Governo stretto con grande calore si opponevano a
quella legge; da ultimo accettarono che l’appellazione si facesse al
Consiglio Grande, più esposto alle brighe e alle seduzioni di quello
che fosse un Consiglio stretto e scelto tra i sommi.[32] Vedremo da
questo errore prodursi gravi disordini e fatali.
Queste alienazioni dal Savonarola già si mostravano in seno ai
Consigli; tra lui e il popolo bene s’intendevano, e aveva su questo
un ascendente che nessun altri mai. Lo esercitava perchè ubbidiva
egli medesimo a un dovere; per tal conto a lui non pareva mai fare di
troppo. Firenze non era più la città del Magnifico, ma universale una
professione di costumi severi, e frequenza d’atti religiosi; nelle
chiese ufficii, ed un pregare di donne ai tabernacoli per le vie; Laudi
composte in linguaggio familiare dal Frate e da’ suoi più devoti, si
udivano invece dei sozzi Canti carnascialeschi. Tal era Firenze gli
anni 95 e 96; nei primi di questo, gli ultimi giorni del Carnevale,
tacquero le pazze feste consuete; uomini e donne e fanciulli,
comunicatisi la mattina, andarono dopo desinare in numero grandissimo a
processione per la città. Nei giorni prima erano molti fanciulli andati
a frotte con certi ordinati modi a chiedere, o piuttosto a imporre
limosina ai passanti per le vie, e per le case a farsi consegnare
quello che appellavano le _vanità_, o gli _anatemi_; erano disegni e
libri osceni, arnesi di giuoco e abiti da maschera: di questi aveano
adunata grande piramide sulla Piazza della Signoria con entro materie
combustibili, alle quali fu dato fuoco tra le grida e l’esultanza
del popolo ond’era gremita la Piazza. Ai tempi nostri si cominciò a
dire che erano allora state distrutte molte preziosità e capolavori
dell’Arte, fu molto gridato contro alla barbarie del Savonarola: ma
che un barbaro non fosse egli abbiamo mostrato, e oggi tutti sanno; e
che per le cose bruciate le Arti non facessero iattura grande, prova
il silenzio dei contemporanei, sebbene a lui poco amici, che non gli
fecero tale accusa. D’opere che avessero pregio dall’arte non trovo
ricordato che un tavoliere di ricco lavoro.[33]
Mentre in Firenze si facevano queste cose, quelle di Pisa divenivano
sempre più dure ai Fiorentini. Tostochè il Re fu tornato in Asti,
gli Ambasciatori della Repubblica aveano fatto seco un trattato per
cui dovesse restituire le fortezze, ed ebbe a tal fine certa somma
di danari. Di Francia venivano Ambasciatori per l’esecuzione del
Trattato; ma il fatto non seguiva, contrapponendosi o per segrete
istruzioni, o per cagioni private, o per danari avuti, l’Entraigues che
n’era castellano. Anzi una volta i Commissari della Repubblica avendo
raccozzate genti e mandatele fin dentro la città di Pisa, il Castellano
francese cominciò a trarre addosso a loro con le artiglierie, per il
che dovettono tornare indietro: e male potendosi tenere le terre in
quella provincia, che ad ogni occasione che ne avessero si ribellavano,
la guerra posava per allora. Il solo acquisto che facesse la Repubblica
fu di Livorno, restituito poco dopo secondo i patti, che in tutto
il resto erano violati: Pietrasanta venne in mano dei Lucchesi,
Sarzana dei Genovesi, e la Repubblica vedeva dissiparsi l’antico suo
Stato. Nemici i Senesi tenevano sempre Montepulciano, per il che una
volta fu da Firenze tentata un’impresa contro Siena, la quale andò
a vuoto perchè la città divisa si levò tutta, quando alle sue porte
vidde la minaccia delle armi Fiorentine.[34] Scriveva Fra Girolamo a
Carlo lettere di ammonizione in nome di Dio; gli Oratori in Francia
continuavano le lagnanze, inutili sempre:[35] allegavano i Fiorentini
che il Re avea giurato, ed essi, oltre al debito gli erano stati
fedeli; per lui si avevano nimicata l’Italia intera. Ma quando faceano
segno d’accostarsi alla confederazione contro lui, sapeva il Re che non
l’avrebbono mai fatto, offesi dall’avere il duca Lodovico e i Veneziani
pigliato la protezione di Pisa, che da questi ultimi fu occupata nel
nome della Lega. L’unione d’Italia non faceva pei Fiorentini se non
riavessero Pisa, e brutta parte era quella loro quando chiamavano essi
soli il re Carlo VIII a una nuova spedizione, della quale rimasero vane
non che le promesse anche le preparazioni che una volta ne aveva il Re
fatte.[36]
Qualunque si fossero le azioni e i consigli della Repubblica di
Firenze, mettevano capo al Savonarola: continuava questi a predicare in
Santa Reparata con maggiore udienza che mai avesse predicatore alcuno,
e apertamente cominciò a dire che egli era mandato da Dio ad annunziare
le cose future. Dal che nascevano divisioni e mali umori nella città,
dove molti non credevano naturalmente a queste cose, e dispiaceva a
molti il Governo popolare, che da lui era tenuto fondamento di ogni
cosa che fosse salute alla città e all’Italia ed alla Chiesa. Qualche
segreta macchinazione fu tosto repressa; ma la divisione cresceva,
alienandosi non pochi da lui secondo che il Frate andasse più innanzi
e i tempi divenissero più difficili. Tutti i seguaci di lui favorivano
la parte di Francia, avrebbono gli altri voluto accordarsi colla Lega;
gli uomini più autorevoli, o erano seco o si tenevano in disparte.
Francesco Valori era tutto col Savonarola; Pagol’Antonio Soderini
teneva la stessa parte, ma nell’animo altro non cercava che una forma
somigliante a quella della Repubblica di Venezia, dove era egli stato
lungamente ambasciatore e s’era formato a quella scuola. Guid’Antonio
Vespucci, giureconsulto di autorità grande, molto adoperato nelle
ambascerie, aveva servito i Medici, e nulla amava fuori dei governi
stretti, benchè si sapesse molto bene destreggiare nei Consigli. Piero
Capponi per forza d’animo soprastava, ma era tenuto vario e subitaneo;
uomo di fatti più che di parole, nelle Consulte s’impazientiva, co’
popolani sviscerati male s’intendeva, e poco al Frate credeva. La vita
dei campi si confaceva alla natura sua, talchè mandato a governare
come Commissario la guerra di Pisa, riusciva meglio di quanti v’erano
prima di lui stati; ma in guerra del pari odiosa e meschina, ebbe
fine miserando. Soiana è castello delle colline Pisane dove guardano
a Volterra, o piuttosto corte rettangolare, poco vasta, ma cinta di
grosse mura. Il Commissario per abbatterlo attendeva a piantare una
bombarda, quando dalle mura la palla di un falconetto lo colse in
fronte: così moriva, toccati appena i cinquant’anni, Piero Capponi, e
benchè non da tutti amato, lasciava di sè grandissimo desiderio nella
città ed un nome anche dai posteri onorato.
La fortuna dei Pisani in quei giorni prosperava molto, avendo
efficaci aiuti dai Veneziani che aveano abbracciato con ardore quella
impresa. Del che insospettito Lodovico il Moro, si pensò accrescere la
reputazione sua chiamando in Italia l’imperatore Massimiliano che gli
era parente, ma del quale conosceva la levità dei consigli e l’inopia
di moneta, per cui non sarebbe altro che un nome da usare in suo pro.
I Veneziani dall’altra parte, che temeano allora un’altra spedizione
di Francesi e un altro voltarsi del Moro, prestarono anch’essi danari
a questo Imperatore vendereccio: pareano tornati sotto al predecessore
di Carlo V i tempi nei quali veniano in Italia i Cesari a fare parte di
mendichi. Nè Massimiliano aveva potuto raccogliere altro che trecento
soldati a cavallo e mille cinquecento a piedi; del che vergognandosi,
scansava le grandi città, e si condusse così fino a Genova. Aveva
mandato ambasciatori ai Fiorentini e questi ne aveano mandati a lui;
ai quali non volendo dare risposta, disse che l’avrebbono dal Legato
del Papa, che gli rimandò al Duca di Milano. Gli ambasciatori, ch’erano
Cosimo de’ Pazzi vescovo di Arezzo e Francesco Pepi, di ciò indignati,
presentandosi al Duca che gli aveva ricevuti con molta pompa ed
apprestava solenne discorso come grande arbitro dell’Italia, dissero
non avere altro mandato che solamente di fargli reverenza; nè in altra
materia volendo entrare, se ne andarono con grande sdegno del Duca.
Massimiliano da Genova essendo sceso innanzi Livorno, l’assediava.
Una parte delle sue genti entrate in Maremma trattarono crudelmente
Bolgheri e Castagneto, terre dei Gherardesca: fu questa la sola impresa
in Italia di Massimiliano imperatore; il quale guidando pessimamente
la guerra, e le sue navi essendo malmenate dalle tempeste autunnali e
per la sopravvenienza di navi Francesi, ritrattosi dopo un mese appena
dacch’era disceso, tornò in Allemagna.[37]
La Repubblica pareva in questi tempi fortificarsi, essendo la somma
d’ogni cosa nel Consiglio Grande, che i Frateschi amavano come cosa
loro, e molti favorivano come imitazione della Repubblica di Venezia;
gli uomini stessi dello Stato vecchio temevano meno da un Governo largo
che da uno Stato più ristretto in cui dominassero i più implacabili
dei nemici loro. A questo Consiglio aveano in Palagio edificato una
grande Sala, che aprirono allora in modo solenne, e il Savonarola vi
predicava: questa Sala, più tardi ornata dai Medici per cancellarne
la prima origine, tacque più secoli; ai giorni nostri si diede in essa
un primo passo alla unità nazionale. Accade in ogni grande mutazione,
che da principio la naturale sua bontà si creda che basti a farla
procedere chiamando a tal fine gli uomini semplici e tenendo addietro
i più ambiziosi. Ma questi, che sono anche i più forti, non soffrendo
starsi inoperosi, empiono tosto il nuovo Stato dei vizi loro; perchè
gli Stati, qualunque sia la loro forma, dipendono infine dalle qualità
degli uomini, e queste per niuno rivolgimento vengono a mutarsi. Così
in Firenze, dopo avere nei primi tempi dato i magistrati a cittadini
di poco valore, dovettero infine venire ai sommi; i quali recarono
dentro ai Consigli, oltre alla scienza loro, gli astii e le cupidità e
le divisioni. Francesco Valori, che prima era stato sempre ributtato,
fu a calen di gennaio 1497 (st. com.) creato Gonfaloniere. Scrive di
lui un contemporaneo, che «fu di presenza grande, ed il volto lungo e
rosso, d’animo vastissimo, di grande gravità, di poche parole, altiero,
severo, visse parcamente, vestiva modestissimo; e delle pecunie
pubbliche nettissimo, ma cupidissimo dell’onore: in servire gli amici
ardente, ma con loro superbo.[38]» Portato dal favore dei Frateschi,
ne divenne capo: attese a crescere autorità al Consiglio purgandolo
di taluni che v’erano entrati nella confusione del primo scrutinio;
e perchè il numero rimaneva scarso, abbassò fino ai 24 anni l’età che
rendesse abile ad entrarvi. Erano i Frati di San Francesco avversi a
quelli di San Domenico per antica rivalità; il Valori ne fece cacciare
di Firenze alcuni che predicando contradicevano al Savonarola. La parte
dei Medici si risentiva, e molti preti e cortigiani Fiorentini erano
iti a stare a Roma col Cardinale: contr’essi uscirono leggi asprissime,
che gli richiamavano e proibivano di praticarli. Ma ebbero queste leggi
forte contrasto; e i nemici al Savonarola facendo causa co’ partigiani
dei Medici, trassero a Gonfaloniere dopo al Valori Bernardo del Nero,
uomo fra tutti autorevole per la pratica delle maggiori faccende che
spesso il Magnifico gli aveva fidate.
Era il Consiglio assai migliorato d’autorità e di credito, le scelte
agli uffici della città e fuori essendo generalmente ragionevoli.
Nondimeno perchè il favore stava pe’ Frateschi, gli altri s’adopravano
indefessamente a screditare il Consiglio per via d’astuzie, allargando
il numero dei voti perchè s’empisse d’inetti e malvagi; ed essi poi
o astenendosi dall’intervenire, o a tutti dando le fave bianche,
s’ingegnavano perchè il Consiglio disordinandosi venisse a noia agli
uomini dabbene. Le proposizioni per gli uffici, che prima giravano tra
pochi, abolirono, sostituendovi le tratte, in modo però che i sortiti
fossero poi squittinati da tutto il Consiglio: il che riuscì contro
alla volontà dei cospiranti, perchè il Consiglio tutto intero avendo
finalmente in mano le scelte agli uffici, ne acquistò grazia e autorità
nell’universale.[39]
Cotesti maneggi avevano a capo lo stesso Gonfaloniere, Bernardo del
Nero, del quale però non era intenzione richiamare Piero dei Medici
in Firenze, ma formare uno Stato stretto, mettendo innanzi Lorenzo
e Giovanni di Pier Francesco, i quali si erano, come vedemmo, fatti
chiamare Popolani, ed aspettavano da quelle bassezze ottenere il
principato. Favoriva queste loro pratiche il Duca di Milano, che odiava
forte quei governi larghi coi quali è impossibile tenere segreti e non
si ha di nulla sicurezza.[40] Giovanni, bello della persona, si era
fatta moglie la bella vedova Caterina Sforza che reggeva pei figli
lo Stato di Forlì. Ma intanto che andava questa congiura, altri che
bramavano il ritorno di Piero, animati dallo sparlare che si faceva
pubblicamente nella città, cominciarono a tenere pratica seco. Ed
egli a disporre meglio la materia, mandò in Firenze maestro Mariano da
Ghinazzano generale dell’Ordine di Sant’Agostino, che aveva qui avuto
grande fama di predicatore al tempo di Lorenzo, ed era appresso a lui
stato in grande favore. Il quale dal pulpito apertamente dichiarandosi
contrario a Fra Girolamo, promuoveva destramente l’accordarsi della
città colla Lega. Le quali cose perchè non aveano punizione alcuna,
Piero ingagliardito e confidandosi al modo che i fuorusciti sogliono,
che al solo mostrarsi, i cittadini stanchi, affamati e malcontenti,
gli aprirebbero le porte; negli ultimi giorni del mese d’aprile, quando
Bernardo del Nero era al termine dell’ufficio, venne a Siena con molti
soldati condotti da Bartolommeo d’Alviano, per opera dei Veneziani
che si credevano, rimettendo Piero in Firenze, assicurarsi l’acquisto
di Pisa: a questa impresa era naturale che Lodovico Sforza non desse
favore. Ma Piero venuto il primo giorno a Tavarnelle, s’accostò il
secondo fin presso alle mura della città; dove chiamato in fretta
Pagolo Vitelli che a lui s’opponesse, fecero Signoria nuova di amici
allo Stato, e sostennero in Palagio circa dugento cittadini dei più
sospetti. Piero, essendo stato più ore alla porta, veduto non farsi
nella città rumore alcuno, se ne tornò a Siena.[41]
Rimasero nella città i sospetti grandi, a molti parendo che Piero
dovesse avere intelligenze dentro, sulla cui fede si fosse egli mosso.
Questi ed altri mali umori bollivano, quando tre mesi dopo al fatto una
improvvisa rivelazione fece divampare quei sospetti in fiere passioni
e in atti che furono, come vedremo, perniciosissimi. Un Dell’Antella,
malvagio uomo ch’era in bando a Roma, cercando il ritorno e non so
quale guadagno, scrisse avere cose di grande momento da denunziare
quando gli dessero salvocondotto. Venuto in Firenze, accusava cinque
primarii cittadini di pratiche in vario modo tenute a favore di Casa
Medici. Erano questi Lorenzo Tornabuoni cugino di Piero, Niccolò
Ridolfi suocero a una figlia di Lorenzo, Giannozzo Pucci di quella
Casa che aveva innalzato il vecchio Cosimo, e un Giovanni Cambi;
primo fra tutti d’autorità e di grado Bernardo del Nero, vecchio di
settantacinque anni, convinto non esser egli autore, ma consapevole
di quei fatti. A giudicare i cinque rei fu eletta una Pratica, nella
quale oltre alla Signoria ed ai Collegi sederono molti principali
cittadini: doveano essere dugento, ma intervennero soli centotrentasei.
Le passioni erano furibonde, e la sentenza riusciva dubbia, se nuove
lettere venute allora, e messe fuori, non aggravavano gli accusati
mostrando imminente il pericolo della Repubblica. La Signoria ed i
Collegi che intervenivano nelle Pratiche e avevano ciascuno (come
allora si diceva) la loro pancata, pronunziarono l’assoluzione: ma
vinse la morte pel maggior numero degli aggiunti, che dietro agli
altri sedevano. Allora messer Guid’Antonio Vespucci levatosi, chiese
pei condannati l’appello al Gran Consiglio, secondo la legge. La
Pratica fu rimessa ad un altro giorno, e il disordine dalla Sala passò
grandissimo nella Piazza. Era costume che nelle Pratiche dicessero in
nome della loro pancata quelli che in testa sedevano, senza però che
agli altri fosse vietato parlare. In questa seconda consulta vollero
che ciascuno desse il suo voto personalmente: ma tali erano le grida
per tutta la Sala, che non si sarebbe venuto a capo della risoluzione
(il che era cercato dai difensori degli accusati), se Francesco Valori
non avesse imposta una sentenza di morte immediata, destando negli
altri con le minaccie una paura che meglio avrebbe egli per sè stesso
dovuta sentire. In questo modo rimaneva escluso l’appello al Consiglio
Generale, ultimo scampo ai cinque miseri, ai quali in mezzo ad un
tumulto feroce fu quella notte stessa mozzo il capo: pochi altri ebbero
il confine, altri si assentarono.[42]
Di quelle morti furono autori gli amici del Savonarola, ed egli si
tacque: nell’esame di lui che abbiamo a stampa si legge avere egli
detto che di quel giudizio non s’era impacciato, ma che Lorenzo
Tornabuoni aveva raccomandato al Valori. Inoltre non era egli arbitro
di quelle vite, nè allora padrone per modo alcuno della Repubblica;
questa era già in mano d’uomini politici, e la legge che ai rei
concedeva l’appello al popolo uscì diversa da quella che aveva Fra
Girolamo consigliata. Poteva ben egli con verità dichiarare, che in
cose di Stato non gli era piaciuto d’ingerirsi mai, e che nel fondare
il Governo popolare non ebbe altro fine che il bene delle anime e la
riforma dei costumi. Predicatore d’una idea, non fu egli mai ordinatore
di un disegno: il guardare gli uomini dall’alto gli aveva educato il
senso pratico delle cose; grande si mostrava nell’ordinare lo Stato
di Firenze, ma di condurlo non si brigava; era il profeta di quello
Stato, ma non avrebbe voluto esserne il ministro; di queste ambizioni
non ebbe egli mai, sebbene avesse in sè le passioni dell’uomo di parte
e a quelle servisse. Vietò da principio si perseguitassero gli amici
di Casa Medici; ma l’adoprarsi a ricondurne la dominazione era col
promuovere una tirannide contrastare alla grande opera che stava in
cima di ogni suo pensiero, e alla quale si sentiva egli chiamato da
Dio; era delitto cui non poteva essere indulgente. Quando sul pulpito
veniva a dire dei provvedimenti che via via occorrevano per lo Stato,
ciò a lui era farsi banditore del Vangelo in tutta quanta l’ampiezza
sua, nè al predicatore credeva bastasse ripetere sempre come a stampo
certi temi della vita spirituale; ma le sue prediche volea pigliassero
tutto l’uomo direttamente, svelatamente, l’uomo in famiglia, l’uomo
nella vita civile, secondo che i tempi e i costumi volessero certe più
specificate riprensioni e più immediate, o certi consigli che a cose
pubbliche riguardassero.
Intanto però benchè il Savonarola propriamente non fosse capo di quella
Parte, ne aveva in sè l’anima e la forza pei tanti che a lui erano
devoti con cieca credenza. In lui certamente la sicurezza ch’egli
ponea nell’affermare le cose future derivava dalla fede che Dio non
potesse a lungo restarsi permettitore del male; e chiunque ignori
quel che sia fede e non la creda capace a muovere di per sè sola le
azioni umane, non potrà intendere il Savonarola. Ma quando agli uomini
manifestava e persuadeva con tanta efficacia quel ch’egli sentiva
dentro dell’anima esaltata, era impossibile non si credesse dotato fra
tutti di un superiore conoscimento, e quindi in lui non si destasse di
quella superbia che suole isterilire i nostri più alti pensieri. Bene
credo fosse inconsapevole di sè stessa, poichè si mesceva alla umiltà
religiosa; ma era in lui nutrita dalla potenza di una parola capace a
trarre dietro sè le moltitudini, che spesso inebria chi la possiede
e quasi fa l’uomo seduttore di sè stesso; vedeva il Frate dalle sue
labbra pendere il popolo allora più colto che fosse nel mondo.
La dottrina del Savonarola si era formata in profezia pigliando
certezza dalla sua propria rettitudine e dalle promesse d’un forte
animo ed appassionato. Usava dialogizzare nelle prediche con gli
uditori a questo modo: «Oh Padre, ma se tutto il mondo ti venisse
contro, che faresti tu? — Io starei saldo, perchè la mia dottrina è la
dottrina del ben vivere, e quindi viene da Dio.» La parte che aveva
in ciò la superbia era di continuo fomentata dal grande numero dei
seguaci e dalla fede ardente dei semplici, in faccia ai quali a lui
pareva essere da meno, se una qualche volta l’intelletto dubitasse.
Si aggiunga poi l’urto delle fazioni che si raccendono l’una l’altra,
pigliando credenza in cose impossibili; ed in quel caso, l’essere tutta
la purità dalla parte sua contro ad uomini sacrileghi, malvagi e rotti
ad ogni vizio. Gli eventi più volte aveano data ragione a lui: quando
i saggi del mondo temevano, il Frate affermava che nulla sarebbe; e
in modi affatto inopinati erano i pericoli più volte svaniti. Il Frate
diceva: «la Chiesa di Dio ha bisogno di riforma e di rinnovazione; sarà
flagellata, e dopo i flagelli riformata e rinnovata: gli infedeli si
convertiranno a Cristo ed alla sua fede. Sarà flagellata e rinnovata
Firenze, e verrà quindi a prospero Stato: avverranno queste cose ai
giorni nostri.» In tutto ciò nulla era che sapesse d’eresia, o che in
sè avesse rivolta o scisma. Nel Trionfo della Croce, ch’è la maggiore
delle sue opere, affermava con parole amplissime l’unità della Chiesa
e la supremazia del Pontefice Romano. Ma Roma batteva di continuo pei
molti suoi vizi, le profane sommità del Clero metteva nel fango, a
preti nè a frati non faceva grazia; e perchè incontro a tutti questi
poneva sè stesso, veniva a farsi senza volerlo autore e capo d’una
Riforma. La quale a promuovere e ad effettuare nulla aveva in pronto,
nulla preparava; sincero del pari come imprudente, non aveva compagni
nè gli cercava, per nulla pensava ad usare mezzi i quali andassero a
quel fine. Dentro era la fede e fuori usciva la parola; Iddio farebbe
il resto da sè. In chiesa dal pulpito s’acquistava egli i partigiani,
e quindi tornato in cella scriveva postille sui libri della Bibbia, e
trattati filosofici o ascetici, quando non lo venivano a cercare. Ma
erano troppi quei suoi partigiani, troppo lo innalzavano agli occhi
suoi stessi, e come fanatici nutrivano quella sua fede altiera; intanto
che rimanendo in sè disgregati, nè a lui nè all’opera sua portavano
aiuto bastante, e molti tra essi erano facili a voltare. Così nel fatto
egli come solo si tirava addosso la forte compagine dell’ecclesiastica
Gerarchia e Roma e i grandi Prelati e tanta potenza e ricchezza,
e tutto può dirsi il Clero e tutti gli altri ordini religiosi, e i
potentati d’Italia e gli uomini politici, e quelli che scuoteano il
capo increduli in faccia a un Profeta disarmato.
Ma intanto queste cose destavano gli animi a nuovi pensieri, per tutta
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