Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, vol. I - 07

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dalla propria furberia, avevano reso inevitabile la comune sciagura. Ma
era troppo tardi. L'Italia non poteva più salvarsi dall'abisso in cui
cominciava a rovinare; Ferrante doveva morire colla coscienza torturata
dinanzi alla caduta del suo regno e della sua dinastia, già visibile
quando egli chiudeva gli occhi (25 gennaio 1494).
Tutto il lungo dramma che abbiamo esaminato, è un apparecchio alla
generale catastrofe che s'avvicina. E se dai più grossi Stati, in cui
è divisa la Penisola, ci volgessimo ai minori, troveremmo a Ferrara,
Faenza, Rimini, Urbino, dappertutto la stessa serie di delitti, la
stessa corruzione. I piccoli principi, anzi, essendo più deboli e fra
maggiori pericoli, commettevano spesso più numerose e crudeli violenze,
per salvare il minacciato potere. Non tralasciavano però neppur essi di
promuovere la cultura delle lettere, delle arti, d'ogni più squisita
gentilezza del vivere civile, rendendo sempre più evidente quel
singolare contrasto, che è uno dei caratteri propri del Rinascimento
italiano, e forma per noi una delle difficoltà principali a ben
comprenderlo.
Non pochi scrittori italiani, animati da un patriottismo che non
è sempre guida sicura nel giudicare i fatti della storia, vollero
dimostrare che la condizione politica e sociale dell'Italia nel secolo
XV era simile a quella di tutta l'Europa, e non ha perciò nulla che
possa maravigliarci. Luigi XI, si disse, fu un mostro crudele, autore
dei più fraudolenti intrighi; i veneficî di Riccardo III non sono
ignoti; Ferdinando il Cattolico si vantava di avere più di dieci
volte ingannato Luigi XII; il gran capitano Consalvo era un famoso
spergiuro, ecc.[37] Pur troppo i grandi Stati s'andavano formando in
Europa, distruggendo coll'inganno e con la violenza i governi e le
istituzioni locali. In tali condizioni di guerra i più neri delitti,
le più atroci vendette avevano luogo dappertutto; e se nella barbarie
del Medio Evo ci sembrano fatti quasi naturali, in mezzo alla cultura
rinascente per ogni dove, ci appaiono enormi ed inescusabili. Ma più
inescusabili assai appaiono in Italia, dove tanto maggiore era la
cultura, e quindi più visibile la contradizione che ci presenta questa
mescolanza di civiltà e di barbarie, riunite in un medesimo secolo.
Nè si deve dimenticare che i principi come Luigi XI e Ferdinando
il Cattolico compierono pure, nonostante i loro delitti, un'opera
nazionale, facendo della Francia e della Spagna due grandi e potenti
Stati, quando i nostri mille tiranni mantennero sempre divisa la patria
coll'unico scopo personale di restare sui loro deboli troni. E se la
iniqua politica del secolo XV riuscì triste da per tutto, essa venne
pure iniziata in Italia, che ne fu maestra alle altre nazioni; e fra
di noi il numero di coloro che vi presero parte fu anche infinitamente
maggiore che altrove. Ad ogni piè sospinto s'incontravano tiranni, capi
di parte, cospiratori, politici, diplomatici; ogni Italiano pareva anzi
un politico ed un diplomatico nato. Così la corruzione ebbe modo di
diffondersi assai più che altrove, penetrando largamente dal governo
nella società. E questa politica italiana, che mise in moto tante e
così prodigiose forze intellettuali, e produsse una sì grande varietà
di caratteri, finì poi col fabbricar solamente sull'arena.
Certo, discendendo assai basso negli ordini sociali, si trovano sempre
saldi i vincoli della famiglia, ancora intatti i costumi antichi,
un'assai migliore atmosfera morale. E quando usciamo da quelle regioni
in cui, come a Napoli, a Roma, nelle Romagne, una serie continua di
rivoluzioni aveva disordinato e sovvertito ogni cosa, noi troviamo
in Toscana, nel Veneto, altrove, un popolo più civile, più mite,
più culto assai che nel resto d'Europa, ed un assai minor numero di
delitti comuni. Di questo gli storici, specialmente gli stranieri, non
tennero conto; e giudicando tutta la nazione dagli ordini superiori
della società, che erano i più corrotti, furono indotti in errore nel
giudicare le condizioni morali dell'Italia, la quale sarebbe caduta
assai più basso e non avrebbe potuto sopravvivere a sè stessa, se fosse
stata veramente quale essi la descrissero. Ma non si può negare che
nella Francia, nella Spagna, nella Germania, appunto perchè la vita
politica era serbata a pochi, la corruzione che ne seguiva era assai
meno diffusa; e vi erano pur sempre istituzioni e tradizioni ancora
salde, opinioni non soggette a discussione, autorità rispettate.
Questo creava naturalmente una forza ed una moralità pubblica, che
mancava fra noi, dove tutto era sottomesso alla più minuta analisi
dall'irrequieto spirito italiano, che cercava gli elementi d'un
mondo nuovo, distruggendo quello in cui si trovava. Gli ambasciatori
veneti e fiorentini, quando vanno alla corte di Carlo VIII o di Luigi
XII, sembrano ridere di tutto. Trovano il principe senza ingegno, i
diplomatici rozzi, l'amministrazione confusa, le faccende abbandonate
al caso; ma sono maravigliati ancora nel vedere l'autorità immensa
che gode il re: quando egli si muove, essi dicono, tutti lo seguono
e l'obbediscono. E questo formava la grande forza del paese. Il
Guicciardini, nei suoi dispacci dalla Spagna, dimostrava chiaro di
odiare e disprezzare quella nazione; pure non si poteva astenere
dal notare che gl'interessi personali di Ferdinando il Cattolico,
trovandosi d'accordo con l'interesse generale del paese, la politica
di quel re traeva da ciò una forza ed un valore grandissimi. I costumi
della Germania e della Svizzera sembravano al Machiavelli simili a
quelli degli antichi Romani, ch'egli tanto ammirava. Se il disordine
e la corruzione morale delle altre nazioni fossero stati in tutto
identici a quelli in cui si trovava l'Italia, come si spiegherebbero
questi giudizî d'uomini pure assai competenti? Come si spiegherebbe che
l'Italia decadeva già prima d'essere invasa dagli stranieri, quando
le altre nazioni sorgevano a nuova vita? Ma bisogna, come abbiamo
già detto, guardarsi dall'esagerare, perchè altrimenti resterebbe
inesplicabile ancora la grande vitalità che pur ebbe la nazione
italiana, e più di tutto il suo meraviglioso progresso nelle arti e
nelle lettere. Di questo passiamo ora a dare un cenno.

III.
LETTERATURA

1. — IL PETRARCA E L'ERUDIZIONE.[38]
Fra Dante Alighieri (1265-1321) e Francesco Petrarca (1304-74) non
passa una gran distanza di tempo; ma chi studia la vita e gli scritti
loro crederebbe quasi che essi appartengano a due secoli diversi.
Dante apre colle sue opere immortali un'èra novella; resta però sempre
con un piede nel Medio Evo. Egli si è fatta «parte per sè stesso,» ed
ha un supremo disdegno per la compagnia «malvagia e scempia» che lo
circonda;[39] ma è anche un partigiano fierissimo, che lotta tra le
fazioni dei Guelfi e dei Ghibellini; impugna la spada a Campaldino.
L'Impero che vagheggia ed invoca è sempre l'Impero medievale, che egli
difende con ragioni prese parte dalla scolastica, che penetra anche nel
suo divino poema, in parte però ispirate ad un senso quasi profetico
dell'avvenire. La sua anima è piena di fede religiosa e d'energia
morale; la sua immagine ci apparisce come scolpita dalla mano di
Michelangelo, in mezzo al tumulto delle passioni del secolo contro cui
combatte, ma dal quale non è ancora uscito del tutto.
Il Petrarca invece fa parte d'un altro mondo, e quando si pensa che con
lui s'inizia un periodo affatto nuovo dello spirito e della cultura
nazionale, riesce assai difficile comprendere, come mai in sì breve
periodo di tempo, l'Italia abbia potuto tanto e così rapidamente
mutare. D'un carattere più debole, d'un genio poetico meno originale,
e, sebbene vesta l'abito ecclesiastico e goda parecchi benefizî, d'una
fede religiosa assai più fiacca, egli non è nè guelfo, nè ghibellino;
disprezza la scolastica; sente che la letteratura diviene una nuova
potenza nel mondo, che egli deve tutta la sua forza al proprio ingegno
e valore letterario; ha quasi dimenticato il Medio Evo, e si presenta
a noi come il primo uomo moderno. Singolare è però il vedere come
tutto questo s'unisca in lui ad un amore, quasi ad un fanatismo per
gli scrittori latini, che studiò ed imitò in tutta la sua vita, non
sapendo immaginare nè desiderare nulla di meglio, che far rinascere la
loro cultura, le loro idee. Spiegare come in questo sforzo costante e
continuo per tornare all'antico, si scoprisse invece un mondo nuovo, è,
noi lo abbiamo già notato, il problema che deve risolvere lo storico
della erudizione del secolo XV. Questo singolare fenomeno assai più
chiaramente che in altri si può osservare nel Petrarca, perchè in lui
trovasi come in germe tutto il secolo che segue, e i molti eruditi
che gli succedono sembrano non fare altro che prendere, ciascuno per
sè, una parte sola del molteplice lavoro che egli abbracciò nel suo
insieme, se facciamo eccezione dello studio del greco, che egli potè
solo promuovere co' suoi consigli.
Fin dai primi anni il Petrarca abbandonò la legge e la scolastica per
Cicerone e Virgilio; percorse il mondo; scrisse agli amici per avere
antichi codici, di cui formò una preziosa raccolta. Ne copiò di sua
mano; cercò autori sconosciuti o dimenticati, sopra tutto opere di
Cicerone, che era il suo idolo, e di lui scoprì due orazioni a Liegi,
le lettere familiari a Verona.[40] Questo fu un vero avvenimento
letterario, perchè la facile ed alquanto pomposa eloquenza di Cicerone
divenne il modello costante del Petrarca e degli eruditi, come le sue
epistole furono il componimento letterario più diffuso, più ammirato,
imitato tra loro, che ne scrissero un gran numero. Quelle del Petrarca
incominciano la lunga serie, formano la sua migliore biografia,
sono un monumento di grandissima importanza storica e letteraria.
Ne scrisse agli amici, ai principi, ai posteri, ai grandi scrittori
dell'antichità. In esse v'è luogo per ogni affetto, per ogni pensiero,
e l'autore si esercita, sotto la fida scorta di Cicerone, in ogni
stile letterario. Da un lato v'entrano la storia, l'archeologia, la
filosofia, e formano così come un manuale enciclopedico, adattatissimo
a raccogliere e diffondere una cultura nuova, che, incominciata appena,
non è capace ancora d'una più scientifica trattazione. Da un altro
lato l'autore può manifestare in esse tutto il proprio spirito, dare
libero corso ai suoi affetti, descrivere popoli e principi, caratteri
e paesi diversi. L'erudito e l'osservatore del mondo reale si trovano
in esse uniti; anzi noi vediamo come il secondo nasca del primo, e come
l'antichità, conducendo per mano l'uomo del Medio Evo, lo guidi dal
misticismo alla realtà, dalla Città di Dio a quella degli uomini, e gli
faccia acquistare la indipendenza del proprio spirito.
Se guardiamo alla forma di queste epistole del Petrarca, troviamo che
il suo latino non manca d'ineleganze, nè di errori; nessuno oserebbe
metterlo accanto a quello dei classici; è inferiore anche a quello che
usarono più tardi il Poliziano, il Fracastoro, il Sannazzaro. Bisogna
paragonarlo con quello del Medio Evo, per vedere l'immenso cammino
che ha fatto, e come esso superi di gran lunga anche il latino di
Dante. Ma il merito principale del Petrarca non sta tanto in questa
nuova eleganza classica, quanto nell'essere egli il primo che scriva
di tutto liberamente, come un uomo che parli una lingua vivente. Egli
ha gettato dietro di sè le grucce della scolastica, e dimostra come si
possa camminare speditamente, senza appoggiarsi. Inorgoglito di ciò, fa
qualche volta abuso della sua facilità, e cade in artifizî nei quali
sembra voler dar prova di agilità e di forza, o s'abbandona, osserva
giustamente il Voigt, al bisogno di chiacchierare, come un fanciullo,
il quale, avendo scoperto che può colla voce esprimere i suoi pensieri,
parla anche quando non ha nulla da dire. Qualche volta si vede in lui
apparire anche un primo germe di ciò che fu chiamato il Secentismo del
Quattrocento. Il Petrarca, in sostanza, ha spezzato la rete medievale,
in cui trovavasi allora incatenata l'intelligenza, ed ha col suo nuovo
stile trovato il modo di parlar d'ogni cosa, manifestando chiaramente,
spontaneamente tutto sè stesso.
Nel leggere le sue epistole, assai spesso ci reca maraviglia il vedere
quanto era ardente in lui un amore quasi pagano della gloria. Pare
qualche volta che esso sia il movente principale delle sue azioni, lo
scopo della vita, e che si sostituisca al vero ideale cristiano. Dante
s'era già fatto insegnare da Brunetto Latini come l'uom s'eterni; ma
se nell'_Inferno_ del suo poema i dannati si curano molto della loro
fama nel mondo, ciò segue assai meno nel _Purgatorio_, dove Oderisi da
Gubbio è condannato «per lo gran desio dell'eccellenza,» e scomparisce
affatto nel _Paradiso_, in cui la terra è quasi dimenticata. Il Medio
Evo cercava l'eternità in un altro mondo, il Rinascimento la cercava
in questo, ed il Petrarca era già entrato nel nuovo ordine d'idee.
La gloria, secondo lui, ispira l'eloquenza, le imprese magnanime,
la virtù; ed egli non si stanca mai di cercarla, non ne è mai sazio,
sebbene nessun uomo ne ottenesse in vita quanta ne ebbe lui. I Signori
della repubblica fiorentina gli scrivevano «ossequenti e riverenti,»
come ad un uomo, di cui «nè i passati videro, nè i posteri vedranno
mai l'uguale.»[41] Papi, cardinali, principi e re si tenevano
onorati d'accoglierlo in casa.[42] Un vecchio cieco, cadente, viaggiò
tutta l'Italia, appoggiato a suo figlio e ad un suo discepolo, per
abbracciare le ginocchia dell'uomo immortale, baciare la fronte che
aveva pensato cose tanto sublimi; ed il Petrarca ci racconta tutto ciò
con soddisfazione.[43] Il giorno che ricevette la corona poetica in
Campidoglio (8 aprile 1341) fu il più solenne, il più felice della sua
vita: non per me, egli dice, ma per eccitare altri alla virtù. Questo
sentimento diviene qualche volta come il demone del Rinascimento.
Cola di Rienzo, Stefano Porcari, Girolamo Olgiati e tanti altri furono
mossi, meno da un vero amore della libertà, che dal desiderio d'emulare
Bruto. Vicini al patibolo, non era più la fede in un altro mondo, ma
solo la speranza della gloria in questo, ciò che dava loro animo ad
affrontare la morte. Ed il Machiavelli esprime il pensiero del suo
secolo, quando dice che gli uomini se non possono aver la gloria con
opere lodevoli, la cercano con opere vituperevoli, pur che sopravviva
la propria fama.[44] Quanto è diverso questo stato d'animo da quello
del Medio Evo, e con quale straordinaria rapidità questo mutamento è
avvenuto!
Tutto spinge il Petrarca, che trascina con sè i contemporanei ed
i posteri, verso il mondo reale; egli ha un grandissimo bisogno
di viaggiare, per vedere e descrivere: _multa videndi amor ac
studium_.[45] Corre a Parigi, per riscontrare se son vere le maraviglie
che si raccontano di quella città; a Napoli si pone a visitare
minutamente gl'incantevoli dintorni della città con l'Eneide in mano,
per guida; cerca i laghi d'Averno, d'Acheronte, di Lucrino, la grotta
della Sibilla, Baia, Pozzuoli, e descrive tutto minutamente, rapito ad
un tempo dalla bellezza della natura e dalle classiche memorie.[46]
Virgilio era stato la guida di Dante nei tre regni dell'altro mondo,
Virgilio è in questo la guida del Petrarca allo studio della natura.
Una spaventosa tempesta scoppia di notte nel golfo di Napoli, ed egli
salta dal letto; percorre la città; va alla marina; guarda i naufraghi;
osserva il mare, il cielo, tutti i fenomeni: entra nelle chiese dove
si prega, e scrive poi una lettera divenuta celebre.[47] Tutto ciò non
ha più alcuna novità per noi, che siamo nati nel realismo moderno;
ma bisogna ricordarsi che il Petrarca era primo ad abbandonare il
misticismo del Medio Evo. Il singolare è che, per uscirne, si avvolgeva
nella toga romana. Dante, è ben vero, ha qualche volta con tocchi
maravigliosi descritto la natura; ma sono paragoni o sono accessorî
che servono a mettere in rilievo le sue idee, i suoi personaggi; nel
Petrarca, per la prima volta, la natura acquista un proprio valore,
come nei quadri dei Quattrocentisti. Nelle sue descrizioni di caratteri
v'è un realismo che ricorda i ritratti che fecero più tardi Masaccio,
il Lippi e Mino da Fiesole; anch'egli disegna e colorisce il vero
qual'è, solo perchè vero, senza altro scopo. Sente d'una certa Maria
di Pozzuoli, donna di straordinaria forza, che vive sempre nelle
armi, combattendo una guerra ereditaria, e fa una gita per vederla,
parlarle e descriverla.[48] Vivissima è la descrizione dell'osceno
disordine in cui era caduta la corte di Giovanna I, e del dominio
che vi esercitava il francescano Roberto d'Ungheria. «Piccolo, calvo,
rubicondo, colle gambe gonfie, marcio pei vizî, curvo sul suo bastone
per ipocrisia e non per vecchiezza, avvolto in un lurido saio, che
lascia scoperta metà della persona, per far pompa d'una mentita
povertà, percorre silenzioso la reggia in aria di comando, sprezzando
tutti, calpestando la giustizia, contaminando ogni cosa. Quasi nuovo
Tifi o Palinuro, egli regge in mezzo alla tempesta il timone di questa
nave che dovrà presto affondare.»[49] Altrove ci viene dinanzi, con una
singolare evidenza, il fiero aspetto di Stefano Colonna, dicendo che,
«sebbene la vecchiezza abbia raffreddato l'animo nel suo feroce petto,
pure, cercando la pace, egli trova sempre la guerra, perchè deciso
piuttosto a scendere nella tomba combattendo, che piegare l'indomito
suo capo.»[50] Questi profili evidenti e parlanti, si presentano
fra continue citazioni classiche; son come esseri viventi in mezzo a
rottami dell'antichità, ed acquistano pel contrasto maggiore evidenza;
ci fanno vedere, toccare con mano, come un nuovo mondo vada sorgendo
insieme al rinascimento dell'antichità.
Se poi nel Petrarca cerchiamo non il letterato, ma l'uomo, allora
troviamo che, per quanto egli fosse buono ed ammiratore sincero della
virtù, v'era già in lui quella fiacca mutabilità di carattere, quella
eccitabile vanità, quel dare alle parole quasi l'importanza stessa che
ai fatti ed alle azioni, che formò più tardi l'indole generale degli
eruditi nel secolo XV. Egli è uno di coloro che più hanno esaltato
l'amicizia, a tutti prodigando tesori d'affetto nelle sue epistole; ma
non sarebbe molto facile trovare nella sua vita esempî d'un'amicizia
ideale e profonda come quella, per esempio, che trasparisce dalle
parole di Dante per Guido Cavalcanti. Gran parte di quelle effusioni
s'esauriva nell'esercizio letterario cui davano luogo. Si potrebbe
dire che a ciò contradica la passione costante che il Petrarca ebbe
per madonna Laura, la quale gl'ispirò quei versi immortali che egli
disprezzò troppo, ma che pur formarono la sua gloria maggiore. Certo
nel Canzoniere si trova la più vera, la più fine analisi del cuore
umano; una lingua in cui i pensieri traspariscono come in purissimo
cristallo, libera da ogni forma antiquata, più moderna della lingua
stessa di molti scrittori del Cinquecento. Certo non può dubitarsi
d'una passione vera e sincera; ma questo canonico che annunzia il
suo amore ai quattro venti, che per ogni sospiro pubblica un sonetto,
che fa sapere a tutti come egli sia disperato se la sua Laura non lo
guarda, e intanto fa all'amore con un'altra donna, per la quale non
scrive sonetti, ma da cui ha figli, a chi farà credere che la sua
passione sia nel fatto qual'egli la descrive, eterna, purissima e sola
dominatrice del suo pensiero?[51] Ed anche qui sorge dinanzi a noi,
e risplende di nuovo la nobile immagine di Dante, che si nascondeva,
per tema che altri s'accorgesse del suo amore, e scriveva solo quando
la passione, divenuta più forte di lui, erompeva dal suo petto, sotto
forma di poesia immortale. La Beatrice di Dante è ancora avvolta in un
velo aereo di misticismo, e finisce col trasfigurarsi nella teologia,
allontanandosi da noi; la Laura del Petrarca, invece, è sempre una
donna vera e reale, di carne e d'ossa, che vediamo vicino a noi, che
affascina col suo sguardo voluttuoso il poeta, il quale, anche nel
suo maggiore esaltamento, resta sulla terra. Una terra dalla quale, il
divino dovrà fra poco essere inesorabilmente escluso.
Nella condotta politica si vede assai chiara la mutabilità, per
non dir peggio, del Petrarca. Amico dei Colonna, ai quali diceva
di dover tutto, «la fortuna, il corpo, l'anima;»[52] amato da essi
come figlio, accolto come fratello, li colmò sempre delle lodi più
esaltate, abbandonandoli poi nel momento del pericolo. Quando infatti
Cola di Rienzo cominciò in Roma lo sterminio di quella famiglia, il
Petrarca, che era pieno d'una sconfinata ammirazione letteraria pel
classico tribuno, lo incoraggiò a continuare nella distruzione dei
nobili: «Verso di essi ogni severità è pia, ogni misericordia inumana.
Inseguili con le armi in mano, quando anche tu dovessi raggiungerli
nell'inferno.»[53] Ma ciò non gli impediva di scrivere, quasi nello
stesso tempo, pompose lettere di condoglianza al cardinale Colonna:
«Se la casa ha perduto alcune colonne, che monta? Resta sempre con te
un saldo fondamento. Giulio Cesare era solo e bastò.»[54] Più tardi
i Colonna furono per lui di nuovo Massimi e Metelli;[55] ma non cessò
tuttavia di rimproverare al tribuno la sua debolezza, per non essersi
disfatto dei nemici quando poteva.[56] È ben vero che si scusava
dicendo, che egli non mancava di riconoscenza; _sed carior Respublica,
carior Roma, carior Italia_.[57] Chi gl'impediva però di tacere? E
questo repubblicano così ardente ammiratore del terzo Bruto, «che
riunisce in sè, e supera la gloria dei due precedenti,»[58] poco dopo
invitava l'imperatore Carlo IV a venire in Italia, «la quale invoca
il suo sposo, il suo liberatore, e non vede l'ora che l'orma de' tuoi
piedi si stampi su di essa.»[59] Non molto prima aveva esaltato anche
Roberto di Napoli, dichiarando che la monarchia era l'unico mezzo per
salvare l'Italia.[60] È noto poi quanti rimproveri facesse ai Papi,
perchè avevano abbandonato Roma, che senza di essi non poteva vivere.
Eppure il nostro giudizio viene assai temperato, quando vediamo che
egli non s'accorgeva punto di queste contradizioni, perchè in sostanza
tutti questi discorsi erano più che altro un esercizio letterario, non
già l'espressione d'una vera e profonda passione politica, che volesse
manifestarsi in atto. Dato il soggetto, la penna correva rapidissima
dietro le traccie di Cicerone, seguendo l'armoniosa cadenza del
periodo. Ma, e qui ricomparisce di nuovo la grande originalità del
Petrarca, che parli di repubblica, di monarchia o d'impero, non è più
fiorentino, ma italiano. L'Italia che egli vagheggia, si confonde, è
vero, sempre col concetto dell'antica Roma, che vorrebbe ripristinare;
ma in tutto questo suo sogno erudito, egli è il primo a vedere l'unità
dello Stato e della patria. L'Italia di Dante è ancora medievale;
quella del Petrarca, quantunque s'avvolga maestosamente nella toga
degli Scipioni e dei Gracchi, è finalmente un'Italia unita e moderna.
Così qui, come da per tutto, noi vediamo che il nostro autore, anche
in ciò vero rappresentante del suo tempo, volendo tornare al passato,
s'apre una via nuova all'avvenire. Veste sempre all'antica, alla
romana, ma è sempre moderno. Non dobbiamo però mai dimenticare che la
sorgente prima della sua ispirazione è letteraria, altrimenti cadremo
in continui errori ed in giudizî fallaci.
Il Petrarca assale fieramente la giurisprudenza, la medicina, la
filosofia, tutte le scienze del suo tempo, perchè non dànno mai quel
che promettono, e tengono invece la mente inceppata tra mille sofismi.
I suoi scritti sono spesso rivolti contro la scolastica, l'alchimia,
l'astrologia, ed egli è ancora il primo che osi apertamente rivolgersi
contro l'illimitata autorità di Aristotele, l'idolo del Medio Evo.
Tutto ciò fa un grandissimo onore al buon senso, che lo sollevò al
disopra dei pregiudizî del suo secolo. Ma s'ingannerebbe a partito
chi volesse per ciò trovare in lui un ardito novatore scientifico.
Il Petrarca non combatte in nome d'un principio o d'un metodo nuovo,
ma in nome della bella forma e della vera eloquenza, che non ritrova
nei cultori di quelle discipline, come non la ritrova nell'Aristotele
mal tradotto e raffazzonato del suo tempo. La scolastica ed il suo
barbaro linguaggio s'erano immedesimati con tutto lo scibile del Medio
Evo, ed era questo barbaro linguaggio che il Petrarca combatteva in
tutto lo scibile. Il Rinascimento italiano è una rivoluzione prodotta
nello spirito umano e nella cultura dallo studio della bella forma,
ispirata dai classici antichi. Questa rivoluzione, con tutti quanti
i pericoli che doveva recare il cominciar dalla forma per arrivar poi
alla sostanza, si manifesta la prima volta chiara e ben definita nel
Petrarca erudito, che perciò fu a ragione chiamato da alcuni, non solo
il precursore, ma il profeta del secolo seguente.

2. — GLI ERUDITI IN FIRENZE.[61]
L'opera iniziata dal Petrarca trovò subito in Firenze un grandissimo
numero di seguaci, e di qui si diffuse rapidamente in tutta Italia. A
Firenze, però, essa era il portato naturale delle condizioni politiche
e sociali di quel popolo, in mezzo a cui anche i dotti d'altre
provincie venivano ad istruirsi, a perfezionarsi, e v'acquistavano come
una seconda cittadinanza. Nelle nostre antiche storie letterarie, che
spesso si occupano troppo di aneddoti biografici e di fatti esteriori,
si presentano alla rinfusa i nomi di questi eruditi, che sembrano
essere tutti uomini sommi, avere la stessa fisonomia ed il medesimo
merito, mirare a un identico scopo. Ma a noi importa conoscere solo
quelli, cui si può attribuire una vera originalità in mezzo al lavoro
febbrile che migliaia di altri, i quali già sono caduti o meritano di
cadere in oblio, ripetevano meccanicamente. Il nostro scopo non è di
dare un catalogo esatto dei dotti e dei loro scritti, ma di studiare
la trasformazione letteraria ed intellettuale, che per opera loro si
compiè in Italia.
I primi eruditi che si presentano sono amici, discepoli o copisti del
Petrarca. Il Boccaccio fu dei più operosi nel secondarlo, raccolse
molti codici, ammirò i classici latini e li imitò, promosse lo studio
del greco, che fu dei primi a conoscere. Con tutto ciò l'opera sua,
come erudito, manca di una vera originalità. I suoi scritti latini
sulla Genealogia degli Dei; sulle Donne illustri; sui Nomi dei Monti,
delle Selve, dei Laghi, ecc., sono più che altro, una vasta raccolta
di antichi frammenti, senza grande valore filologico o filosofico.
Ma lo spirito dell'antichità è penetrato in lui per modo, che si
manifesta in tutte le sue opere, anche nelle italiane. La sua prosa
volgare, infatti, se ne risente per la soverchia imitazione del periodo
ciceroniano, e sembra annunziare anch'essa che il trionfo del latino
sarà fra poco universale.
Dopo che due uomini come il Petrarca ed il Boccaccio s'erano messi per
questa via, Firenze sembrò subito divenire come una grande officina
d'eruditi. Discussioni e riunioni di dotti si facevano dappertutto,
nei palazzi, nei conventi, nelle ville,[62] fra i ricchi, fra i
mercanti, fra gli uomini di Stato: si scriveva; si viaggiava; si
mandavano messi per cercare, comprare o copiare codici antichi.
Tutto ciò non costituiva ancora un lavoro originale; ma pure si
raccoglievano grandi materiali, e s'apparecchiavano i mezzi necessarî
ad una vera rivoluzione nel campo delle lettere. L'importanza di questa
attività non stava finora nei risultati immediati che si ottenevano;
ma nell'energia e nelle forze che s'adoperavano e svolgevano per
ottenerli. La città delle associazioni d'arti e mestieri era divenuta
la città delle associazioni di letterati.
La prima di queste riunioni si formò nel convento di Santo Spirito,
intorno a Luigi Marsigli o Marsili, agostiniano e dottore in teologia,
che visse nella seconda metà del secolo XIV. Stato già amico del
Petrarca, egli era uomo di mediocre ingegno; ma univa ad una grande
ammirazione per gli antichi, una straordinaria memoria, il che lo
rendeva adattissimo al conversare erudito: per lungo tempo i dotti
fiorentini ricordarono nelle loro lettere il profitto cavato da quelle
discussioni. Il Comento fatto dal Marsigli sulla canzone del Petrarca
all'Italia, dimostra che egli non s'era ancora separato affatto dalla
letteratura del Trecento.[63] I due più noti frequentatori della sua
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