Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, vol. I - 05

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lunghe interruzioni, e condusse poi alla signoria de' Medici, fu invece
a Venezia rapidissimo e permanente. Sin dal principio la prosperità
della laguna venne dalle lontane imprese, dai lontani commerci, che,
più o meno dappertutto in Italia, costituirono la forza del popolo
grasso. A ciò si aggiungeva da un lato, che il popolo minuto era
occupato molti mesi dell'anno in lunghe navigazioni, e dall'altro,
che il governo delle colonie dava modo ai più ambiziosi cittadini di
comandare senza mettere a repentaglio la Repubblica.
Così la costituzione veneta, cominciata con forme non molto dissimili
da quelle degli altri Comuni italiani, s'andò alterando per le
condizioni affatto diverse, in mezzo a cui si trovava. Sin dal
principio s'ebbe il Doge a vita, perchè la città, divisa in isole
che tendevano a rendersi indipendenti l'una dall'altra, sentì assai
presto il bisogno d'un accentramento maggiore che altrove. Il Doge
era circondato da nove cittadini, coi quali formava la Signoria, e
v'erano, come negli altri Comuni, due Consigli, i Pregati o Senato, ed
il Maggior Consiglio. Nei casi più solenni si faceva appello al popolo
radunato in pubblica assemblea, che chiamavasi Arrengo, come a Firenze
era detta Parlamento. Se le cose fossero restate in questi termini, la
costituzione di Venezia, salvo il Doge a vita, non sarebbe stata gran
fatto diversa da quella di Firenze. Ma la forza assai maggiore che, per
le condizioni da noi accennate, prese subito l'aristocrazia del denaro,
a poco a poco concentrò quasi tutti i poteri dello Stato nel Maggior
Consiglio, che, abolito l'Arrengo e limitata l'autorità del Doge, fu il
vero sovrano, e divenne ereditario, mercè una serie di lente riforme
(1297-1319), che portarono a quella che si chiamò la _Serrata_ del
Maggior Consiglio. Il cerchio fu così chiuso, e si ebbe il governo
d'una potente aristocrazia, che più tardi volle il suo _Libro d'oro_.
Sebbene però non s'avesse a lottare contro il feudalismo, tutte queste
riforme non seguirono senza forte resistenza delle antiche famiglie,
che, vedendosi escluse dal governo, cercarono e trovarono seguito nel
popolo minuto. La congiura di Baiamonte Tiepolo (1310) fu tale che,
per alcuni giorni, mise a grave repentaglio l'esistenza stessa della
Repubblica. Ma, dopo un ostinato combattimento nelle vie della città e
fuori, venne anch'essa soffocata nel sangue; e fu creato il terribile
Consiglio dei Dieci, tribunale, che con processi sommarî, ma sempre
assai bene determinati dalle leggi, puniva di morte qualunque tentativo
di rivolta. Allora finalmente non vi furono più pericoli pel governo
aristocratico, che acquistò una forza ogni giorno maggiore. La fermezza
delle istituzioni aiutò la prosperità del commercio, e le cresciute
ricchezze dettero animo a sempre nuove imprese in Oriente, che era il
campo dei guadagni e delle glorie veneziane.
Colà aveva la Repubblica incontrato due potenti rivali, Pisa e Genova;
ma la potenza marittima dei Pisani venne disfatta alla Meloria (1284)
dai Genovesi, che alla loro volta, dopo lunga e sanguinosa lotta,
furono irreparabilmente sconfitti dai Veneziani a Chioggia (1380).
E così, alla fine del secolo XIV, Venezia si trovò senza rivali,
signora dei mari, sicura nell'interno, prosperissima nel commercio.
Rivolse allora le sue mire anche alle conquiste di terraferma, ed
entrò in un nuovo periodo della sua storia, durante il quale si trovò
trascinata fra tutti gl'intrighi della politica italiana; perdette il
suo primo carattere di potenza esclusivamente marittima, e cominciò a
corrompersi. Di ciò le venne mossa grave accusa dai contemporanei e dai
posteri; ma Venezia era spinta nella nuova via da cause irresistibili.
Infatti, quando si andavano formando intorno ad essa Stati più grossi
assai dei piccoli Municipî d'una volta, il dominio delle lagune non
era più sicuro, e non le bastava a tutelare il proprio commercio sulla
terraferma. Gli Scaligeri, i Visconti, i Carrara, gli Este odiavano
la fiorente repubblica, la minacciavano e cercavano d'isolarla,
nel momento appunto in cui essa aveva un bisogno sempre maggiore di
trovare nuovi sbocchi alle sue progredite industrie, al suo commercio
d'Oriente, che s'alimentava con quello d'Occidente. E quando i Turchi
s'avanzarono e cominciarono a fermarla nelle sue conquiste orientali, a
minacciare le sue colonie, quella necessità divenne per un altro verso
anche più stringente. Certo Venezia, spingendosi nella terraferma, si
trovò d'ambo i lati circondata da mille pericoli; ma erano inevitabili,
ed essa li affrontò, combattendo per mare e per terra, con un ardimento
eroico, e sulle prime con non sperata fortuna.
A promuovere questi suoi nuovi interessi non ebbe di certo molti
scrupoli: costretta più volte a combattere in Italia nemici sleali,
usò anch'essa la violenza e l'inganno. Pure non era mai il capriccio
personale d'un solo, che sottoponeva tutto al proprio volere; ma
un'aristocrazia, che aveva il sentimento della patria, e la difendeva
colle armi. Primi nel secolo XV a sentire in Italia le unghie del
Leone di San Marco furono i Carrara, signori di Padova, che finirono
strangolati (1406). Dopo di ciò fu mandato a Padova un rettore pel
civile, un capitano pel militare, lasciando intatte le antiche leggi
ed istituzioni locali. Lo stesso seguì o era già seguìto altrove,
nel Friuli, nell'Istria, a Vicenza, Verona, Treviso. Questa era una
politica assai intelligente e liberale per quel tempo; ma i nuovi
sudditi perdevano pur sempre, colla indipendenza, ogni speranza
di libertà. I paesi conquistati traevano certo grande vantaggio
dall'essere sotto un governo forte e giusto, e dal partecipare
all'immenso commercio di Venezia; ma se il benessere materiale
faceva nelle moltitudini dimenticare l'amore della libertà e della
indipendenza, nelle famiglie potenti che avevano governato o sperato di
poter governare, restava invece un odio inestinguibile contro la nuova
dominatrice, che, invidiata per l'ordine e la forza del suo governo,
era giudicata il nemico più temibile di tutti gli altri Stati italiani.
Essa procedeva tuttavia sicura nelle sue conquiste, ed il secolo XV,
in cui l'Italia cominciava rapidamente a decadere, sembrava invece
aprire a Venezia un'êra di crescente prosperità. La sua aristocrazia,
coi grandi sacrifizî fatti per la patria, col coraggio dimostrato
nelle battaglie navali che essa comandava, aveva fatto dimenticare
la violenza della propria origine. Occupata nella politica, lasciava
liberamente partecipare il popolo al commercio ed all'industria, che,
tutelati dalla fermezza delle istituzioni e dalle armi, prosperavano
maravigliosamente. Lo stesso avanzarsi dei Turchi, che pur doveva
recare tanti danni alla Repubblica, sembrava tornarle ora quasi di
vantaggio. Infatti molte isole dell'Arcipelago, molte terre, trovandosi
in gran pericolo per l'impotenza dell'Impero greco a difenderle dal
terribile uragano che s'avanzava, invocarono la protezione di Venezia,
e si abbandonarono ad essa, che così cresceva il proprio dominio, ed
acquistava nuovi sudditi, pronti a versare il sangue combattendo il
comune nemico, che nei primi scontri subì gravissime perdite. Tutto
ciò rialzava moltissimo l'animo della Repubblica, che in quel momento
si sentiva come destinata ad essere la difesa dei Cristiani e la
dominatrice d'Italia. Nella sua condotta politica, nelle relazioni
de' suoi ambasciatori, nelle guerre continue per terra e per mare,
il sentimento della patria dominava su tutto, ed ispirava una balda
fierezza al linguaggio di quei cittadini, che erano sempre pronti a
sacrificarsi per essa. L'onore, la gloria di Venezia erano in cima dei
loro pensieri, e nella lotta col Turco che s'avanzava, dettero prove
di vero eroismo. Quando nel maggio 1416 l'armata veneta s'affrontò
col formidabile nemico presso Gallipoli, Pietro Loredano, che l'aveva
comandata, scriveva al suo governo: «Virilmente io capitano investii
nella prima galera nemica, piena di Turchi che combattevano come
draghi. Circondato da ogni lato, ferito da una freccia che mi passò
la mascella sotto l'occhio, da una che mi passò la mano, e da altre
molte, non mi restai punto, nè mi sarei restato fino alla morte: presi
la prima galera e misi la mia bandiera su quella. I Turchi che vi erano
sopra furono tagliati a pezzi, il resto della flotta sconfitto.»[27]
Di queste ardite imprese, di questo franco linguaggio, solo Venezia era
capace in Italia nel secolo XV. La piccola repubblica delle lagune era
divenuta uno dei grandi potentati d'Europa, e pareva sorgere a nuova
altezza, quando tutti gli altri Comuni decadevano. Ma i pericoli che
s'accumulavano intorno ad essa erano immensi e crescevano da ogni lato.
Il doge Tommaso Mocenigo li prevedeva, e dal suo letto di morte,
nell'aprile del 1423, pregava, scongiurava i suoi amici, perchè non
si lasciassero spingere più oltre alle guerre ed alle conquiste;
sopra tutto non eleggessero a suo successore Francesco Foscari, la
cui smodata ambizione li avrebbe trascinati in mezzo alle più audaci
e pericolose imprese. Ma questi consigli di prudenza erano vani
adesso. Filippo Maria Visconti minacciava tutta l'Italia superiore e
la centrale; il Turco s'avanzava; Francesco Foscari venne eletto, ed
egli non era certamente uomo da voler ricondurre in porto la nave già
lanciata in alto mare. E quando i Fiorentini chiesero a Venezia aiuto
contro il Visconti, egli esclamò in Senato: Se mi trovassi in capo al
mondo, e vedessi un popolo in pericolo di perdere la sua libertà, io lo
aiuterei. «Nu patiremo che Filippo tuoga la libertà ai Fiorentini? Sto
furibondo tiran scorrerà per tutta Italia, la struggerà e conquasserà
senza gastigo?»[28] Così nel 1426 incominciò quella formidabile lotta
che, interrotta e ripresa più volte, finì solo colla morte del Visconti
l'anno 1447. In questi ventun anno il Foscari dimostrò un patriottismo
ed un'energia veramente romani, combattendo contro pericoli esterni ed
interni d'ogni sorta. Coi suoi tesori il Visconti metteva ogni anno in
campo nuovi eserciti, e la Repubblica era sempre pronta ad affrontarli.
Il Carmagnola, che lo aveva disertato per servire Venezia, parve,
subito dopo le prime vittorie, divenire a questa infido, e fu perciò,
senza esitazione, con regolare processo condannato a morte. Il 5 maggio
1432, _cum una sprangha in bucha, et cum manibus ligatis de retro,
iuxta solitum_,[29] venne condotto fra le colonne della Piazzetta, e
decapitato. Nel 1430 vi fu un attentato contro la vita stessa del Doge,
e nel 1433 una congiura contro il suo governo; ma i Dieci fecero di
tutto pronta ed esemplare giustizia. Più tardi, istigato dal Visconti,
l'ultimo dei Carrara tentò di ripigliare i suoi dominî, e fece anche
ribellare Ostasio da Polenta, signore di Ravenna, che era sotto la
protezione di Venezia. E allora al Carrara fu tagliata la testa fra
le colonne della Piazzetta (1435); il Polentano finì esule in Creta, e
Ravenna fece parte del dominio veneto. Morto il Visconti, e posata da
poco la guerra di Venezia con Milano, seguì la caduta di Costantinopoli
(1453), nella quale tanti Italiani, massime Veneti, perderono la vita.
Questo fatto, che incominciò un'epoca nuova nella storia dell'Europa,
fu un colpo mortale a Venezia. Pure essa riuscì nel 1454 a fare un
trattato, che assicurò libero commercio ai proprî sudditi, e le dètte
il tempo d'apparecchiarsi a nuove battaglie.
Ma il pericolo maggiore alla Repubblica venne dai nuovi germi di
corruzione interna, che cominciarono a minacciare di dividerla. I
nemici del Foscari, dopo avere invano cospirato contro la sua vita ed
il suo governo, si volsero ora a tormentarlo col perseguitare il figlio
Iacopo, unico superstite dei maschi, di carattere leggerissimo, ma pur
ciecamente amato dal padre. Esiliato nel 1445, per avere accettato
donativi, il che le leggi vietavano severamente al figlio del Doge,
fu, dopo ottenuta la grazia, esiliato di nuovo nel 1451 alla Canea,
perchè accusato di connivenza nell'uccisione d'uno di coloro che
erano stati suoi giudici. Richiamato di là nel 1456, venne sottoposto
a nuovo processo, per aver tenuto segreta corrispondenza col duca di
Milano, e fu condannato a più lungo esilio. Entrato nella prigione,
il vecchio Doge disse, impassibile, al figlio che cercava grazia ai
suoi piedi: «Va, obbedisci a quel che vuol la terra, e non cercar più
altro.» Ma uscito dal carcere, appoggiato al suo bastone, Francesco
Foscari tramortì.[30] Poco dopo Iacopo morì nell'esilio (12 gennaio
1457), ed il cuore paterno di colui che aveva sostenuto con una volontà
di ferro una lotta titanica in difesa della repubblica, si spezzò per
le persecuzioni patite dal figlio. Invecchiato, abbattuto, prostrato,
non aveva più la forza necessaria a condurre gli affari e a difendersi
dai nemici. Allora, invitato a dimettersi e non volendo, fu deposto.
Spezzatogli l'anello e toltogli il berretto ducale, egli discese,
franco e sereno, per la scala medesima per cui era salito all'alto
ufficio, discorrendo tranquillo con chi gli era accanto, senza volersi
appoggiare ad alcuno. Il suo successore fu eletto il 30 ottobre, ed
egli morì di crepacuore il dì 1º novembre, dopo trentaquattro anni di
dogato. Francesco Foscari è certo uno dei più grandi caratteri politici
del suo tempo.[31] Con lui Venezia giunse al colmo della sua potenza;
dopo di lui cominciò subito a decadere, ma fu una decadenza eroica.
Abbandonata da tutti gl'Italiani, si trovò sola di fronte al Turco,
che s'avanzava con forze formidabili. Il sopracomito Girolamo Longo
scriveva nel 1468, che la flotta turca con cui doveva affrontarsi, era
di 400 vele, le quali occupavano sei miglia di lunghezza. «Il mare
pareva un bosco: questa a sentirla dire pare cosa incredibile, ma a
vederla è cosa stupenda...; or vedete se sia possibile con astuzia
aver vantaggio. Ci vogliono forze e non parole.»[32] Sembrano quasi un
linguaggio di paura accanto a quello da noi riportato più sopra del
Loredano. Infatti i tempi erano mutati: la Repubblica armava sempre
altre navi, che combattevano con eroismo; organizzava la resistenza
di tutte le popolazioni cristiane, che versavano generosamente il
proprio sangue; mandava armi e danari ai Persiani, perchè anch'essi
attaccassero Maometto II, che s'avanzava minaccioso; ma tutto ciò era
inutile. Negroponte, Caffa, Scutari, altre città e terre cadevano l'una
dopo l'altra, sebbene si difendessero con gran valore. E finalmente
Venezia, stanca di trovarsi sempre sola a combattere il nemico della
Cristianità, venne nel gennaio 1479 ad una pace che le assicurava il
proprio commercio, e che nelle tristi condizioni a cui era ridotta,
poteva dirsi onorevole. Allora tutti gl'Italiani, che nulla avevano
fatto per aiutarla, furono pronti a gridare unanimi contro di essa,
specialmente nel 1480, quando il loro spavento giunse al colmo, per
avere i Turchi preso la città di Otranto. Ma questi poco dopo si
ritirarono per la morte di Maometto II, e per le discordie seguite nel
suo impero: allora gl'Italiani non pensaroro più ad altro.
Da questo momento l'orizzonte della Repubblica si va restringendo
sempre di più. Occupata solo de' suoi interessi materiali, avviluppata
negl'intrighi della politica italiana, essa non pretese più d'essere la
guardiana della Penisola e della Cristianità contro gl'infedeli. Tutto
allora sembrava seguire a suo danno nella storia del mondo. La scoperta
d'America e quella del Capo di Buona Speranza la posero fuori delle
principali vie del commercio. Ristretta da ogni lato, perdette a poco
a poco con i grandi guadagni la sua storica importanza, che le veniva
dall'essere stata l'anello di congiunzione fra l'Oriente e l'Occidente.
Ora tutto si ridusse a strappar qualche terra ai vicini; imporre ad
essi il proprio commercio, sempre grande e potente. Avanzatasi fino
all'Adda da un lato, occupava dall'altro Ravenna, Cervia, Rimini,
Faenza, Cesena ed Imola nelle Romagne; nel Trentino teneva Roveredo
e le sue dipendenze; aveva anche portate le sue armi sulla costa
adriatica del Napoletano, dove si era impadronita di alcune terre. Ma
l'aver tolto a tutti qualche cosa, faceva sì che tutti la temessero e
l'odiassero.
Da un altro lato questo Stato così vasto era dominato tutto da una sola
città, nella quale comandava per diritto ereditario una piccola parte
dei cittadini. Neppure in Venezia era quindi possibile aspettarsi il
grande ed organico svolgimento dello Stato moderno; essa anzi rimase
esempio vivente dell'antica forma repubblicana, sopravvissuta quasi
a sè stessa, destinata ad esaurirsi come per mancanza d'alimento.
Ma intanto essa era sempre il governo più forte, più morale che vi
fosse in Italia. A misura però che si restringeva la cerchia della
sua attività, cessavano le magnanime virtù e gli eroici caratteri,
sorti fra i grandi pericoli, contro cui avevano dovuto combattere, e
i continui sacrifizî che erano stati chiamati a fare. Crebbero invece
l'egoismo, l'amore del lusso e del danaro negli ordini dominanti dei
cittadini. Le mogli dei patrizî veneti, coperte di gioie, vestite di
stoffe preziose, abitavano nel secolo XV quartieri di tanta ricchezza,
che non si trovavano neppure nei palazzi dei principi italiani. Gli
uomini però, dice il milanese Pietro da Casola, erano sempre assai
più modesti e severi che altrove; «parevano a vederli tanti dottori
di legge, e chi trattava con essi doveva tener bene aperti gli occhi
e le orecchie.»[33] Tuttavia la loro politica, se non era quella
dell'egoismo personale, che dominava nel resto d'Italia; se ebbe ancora
giorni di grandi sacrifizî e d'eroismo, era anch'essa guidata da un
ristretto patriottismo locale e quasi di casta. Guardavano con piacere
alla rovina d'Italia, perchè speravano così di riuscire più facilmente
a dominarla. E quando gli stranieri s'avvicinarono alle Alpi, li
lasciarono passare, credendo di poterli poi cacciare per succedere ad
essi. Invece, questo egoismo che non giovava a nessuno e minacciava
tutti, portò alla Lega di Cambray, in cui l'Europa s'alleò ai danni
della piccola Repubblica, la quale potè qualche tempo ancora resistere
con valore, ma non già salvarsi, come aveva presunto, in mezzo alla
rovina generale della patria comune.

4. — ROMA.
Fra l'infinita varietà di caratteri e d'istituzioni che ci presenta
l'Italia nel secolo XV, la storia di Roma forma quasi un mondo a
parte. Centro principale degli interessi di tutti i paesi cristiani,
la Città Eterna risentiva, più d'ogni altra, le grandi trasformazioni
che seguivano in Europa. La costituzione di Stati grandi e indipendenti
aveva spezzata e resa impossibile per sempre quella universale unità,
che il Medio Evo in parte aveva conseguita, in parte sognata. L'Impero
s'andava sempre più restringendo nei confini della Germania, e
l'Imperatore cercava rendersi forte con un dominio più sicuro e diretto
ne' suoi Stati proprî e personali. Così i Papi, dovendo omai rinunziare
ad ogni pretensione di universale dominio civile nel mondo, sentivano
più urgente la necessità di costituire davvero un loro regno temporale.
Se non che il trasferimento della sede in Avignone, ed il lungo scisma
avevano gettato nel disordine e fatto cadere nell'anarchia lo Stato
della Chiesa. Roma era dicerto un Comune libero, con una costituzione
simile a quella delle altre città italiane; ma, trovandosi in mezzo
ad una campagna deserta, il commercio e l'industria non vi erano mai
progrediti, ed il suo organismo politico non s'era mai potuto svolgere
con vigore, a cagione anche della eccezionale supremazia esercitata dal
Papa, dall'Imperatore, e dalla strapotenza dei nobili, che, favoriti
dai Papi, mettevano tutto a soqquadro. Gli Orsini, i Colonna, i
Prefetti di Vico erano veri e propri principi nei loro immensi dominî,
nei quali tenevano armi ed armati, nominavano giudici e notai, qualche
volta coniavano anche moneta. Il territorio di Roma era abbastanza
vasto, perchè andava dal Garigliano ai confini della Toscana; ma molte
delle città che ne facevano parte erano o cercavano continuamente di
rendersi indipendenti.
A che cosa fosse poi ridotto allora il dominio dei Papi in città
come Bologna, Urbino, Faenza, Ancona, le quali facevano parte dello
Stato della Chiesa, ma erano costituite in repubbliche o signorie
affatto indipendenti, può immaginarselo ognuno. Per fondare il dominio
temporale, bisognava quindi fare una vera e propria conquista.
Innocenzo VI (1352-62) aveva iniziato l'opera, mandando in Italia
il cardinale d'Albornoz, che col ferro e col fuoco sottomise una
gran parte dello Stato della Chiesa. Ma questa vantata sottomissione
si ridusse, in fondo, a costruire nelle principali città, fortezze
tenute in nome del Papa; a trasformare i tiranni in vicarî del Papa,
e far prestare dalle repubbliche atto d'obbedienza, riconoscendo
però i loro Statuti. Così gli Este, i Montefeltro, i Malatesta,
gli Alidosi, i Manfredi, gli Ordelaffi furono legittimi signori di
Ferrara, Urbino, Imola, Rimini, Faenza, Forlì. Invece Bologna, Fermo,
Ascoli ed altre città restarono repubbliche, sebbene riconoscessero
anch'esse la supremazia del Papa. La costituzione politica del Comune
di Roma cominciò allora ad essere trasformata. I Papi da lungo tempo
cercavano mutare in amministrative le sue magistrature politiche, e
per questa medesima via continuarono sempre fino a che non riuscirono a
distruggere del tutto le libertà comunali della Città Eterna. Un tale
lavoro, già molto avanzato, fu alla fine del secolo XIV interrotto
dallo scisma che lacerò lungamente la Chiesa, gettò di nuovo ogni cosa
nell'anarchia, e impedì la formazione d'ogni forte governo, d'ogni
ferma autorità.
L'anno 1417 finalmente il Concilio di Costanza fece cessare lo scisma,
deponendo tre Papi, ed eleggendo Ottone Colonna, che prese il nome di
Martino V. Così incominciò nella storia del Papato un nuovo periodo,
che durò sino al principio del secolo seguente, ed in esso i successori
di San Pietro sembrarono deporre ogni pensiero della religione, per
occuparsi solo di costituire il loro regno temporale. Divenuti simili
affatto agli altri tiranni italiani, adoperarono le stesse arti di
governo. Se non che la grande diversità della loro condizione nel
mondo, e l'indole propria dello Stato che dovevano governare, dava alle
loro azioni un carattere affatto speciale. Eletti generalmente in età
avanzata, i Papi si trovavano ad un tratto, in mezzo ad una nobiltà
riottosa e potente, alla testa d'uno Stato disordinato, scomposto,
in una città tumultuosa, nella quale erano spesso senza parenti o
amici, qualche volta stranieri affatto. Quindi, per cercar forza,
chiamavano e si davano a proteggere i fratelli, i nipoti che spesso
invece erano figli; e così ebbe origine quello scandalo nella Chiesa,
che fu noto col nome di nepotismo, e che è proprio più specialmente di
questo secolo. Entrati una volta nel turbinoso vortice della politica
italiana, i Papi si trovarono costretti a promuovere nel medesimo
tempo due interessi, che non di rado erano in collisione fra loro,
il politico cioè ed il religioso. Assai spesso la religione divenne
il mezzo di cui si valsero per conseguire i loro fini politici, e
quindi, sebbene sovrani di uno Stato piccolo e disordinato, poterono,
con l'autorità della Chiesa, mettere l'intera Italia a soqquadro;
e quantunque non riuscissero mai a dominarla tutta, la tennero
divisa, debole e sempre più facile preda degli stranieri, che essi
continuamente chiamarono. Da un altro lato cercavano valersi della loro
autorità politica, per tener viva quella forza religiosa che s'andava
spegnendo negli animi. Uno stato di cose tanto anormale sembrò turbare
stranamente la coscienza stessa di coloro che avrebbero dovuti essere
i rappresentanti di Dio sulla terra, e che, a poco a poco, perduto
ogni pudore, caddero in tali oscenità e delitti, che il Vaticano parve
qualche volta essere divenuto un'orgia di avvelenamenti, di congiure
e di stupri. Si correva così il rischio di estirpare ogni sentimento
religioso dal cuore dell'uomo, di scalzare per sempre le basi stesse
della morale.
I primi germi di questa funesta corruzione pur troppo nascevano
fatalmente dalle condizioni in cui si trovava allora il Papato, e
quindi cominciarono a portare i loro frutti anche sotto Martino V,
che fu forse il migliore dei Papi in quel secolo. Egli s'avanzò da
Costanza, secondo l'espressione d'un moderno, come un signore senza
terra, sì che a Firenze i fanciulli gli cantavano dietro canzoni di
scherno. Quando entrò in Roma il 28 settembre 1420, cogli aiuti della
regina Giovanna di Napoli, il popolo romano, perdute ormai le libere
istituzioni, si presentava a lui come una folla di poveri. La peste,
la fame, la guerra avevano per molti anni desolata la Città Eterna;
i monumenti, le chiese e le case erano in rovina; le strade piene
di macerie e di pantani; i ladri assalivano di giorno e di notte.
Nella Campagna era scomparsa l'agricoltura, e immense estensioni di
terre erano divenute deserti; le città del territorio combattevano
fra loro, e i nobili, chiusi nei loro castelli, che parevano nidi di
ladri, sprezzanti d'ogni autorità, intolleranti d'ogni freno e d'ogni
legge, facevano una vita da briganti. Martino V si pose all'opera con
fermezza, e prima di tutto compiè la distruzione del libero reggimento
di Roma, mutandolo addirittura in un municipio amministrativo. Molte
terre ribelli furono poi sottomesse, molti capi di bande armate furono
presi ed impiccati: cominciò così a ristabilirsi l'ordine, e ad aversi
finalmente una forma di regolare governo. Questo fu però ottenuto coi
mezzi che abbiamo qui sopra accennati. Il Papa, per trovare fautori
ed amici, si gettò addirittura in braccio ai Colonna, suoi parenti,
e fece loro concludere ricchi matrimonî, concesse loro nello Stato
della Chiesa o fece concedere nel regno di Napoli vasti feudi. Così
di potenti li rese strapotenti, ed iniziò il nepotismo. Per mantenere
la supremazia pretesa sempre dai Papi nel reame, e per cavarne in
ogni modo vantaggio ai suoi, sostenne prima Giovanna II, che lo aveva
aiutato ad entrare in Roma; poi Luigi d'Angiò, che la combatteva; poi
Alfonso d'Aragona, che trionfò di tutti. E questa funesta politica,
continuata anche da' suoi successori, fu precipua cagione della totale
rovina del Napoletano, ed in parte anche della rimanente Italia.
Pure in Roma si vedeva finalmente un'apparenza almeno di ordine e
di regolare governo. Le vie, le case, i monumenti si cominciavano a
restaurare; per la città e per molte miglia nella campagna si poteva,
dopo tanti anni, camminare senza tema d'esser rubati o assassinati. E
però, dopo la morte di Martino V (20 febbraio 1431), fu scritto sulla
sua tomba: _Temporum suorum felicitas_. Nè la iscrizione può dirsi del
tutto immeritata, tanto più che le sue colpe vennero ben presto fatte
dimenticare da quelle assai maggiori de' successori, ai quali mancarono
le sue virtù.
Eugenio IV che s'appoggiò agli Orsini, ed ebbe quindi fieramente
avversi i Colonna, venne subito cacciato da una rivoluzione, ed
inseguíto a colpi di pietre, quando se ne fuggiva pel Tevere, a
mala pena riuscendo a ripararsi in una barca (giugno 1434). Giunto a
Firenze, egli dovette rifarsi da capo, e mandò a Roma il patriarca
Vitelleschi, più tardi cardinale, che alla testa di bande armate,
cominciò col ferro e col fuoco un vero sterminio. La famiglia dei
Prefetti di Vico s'estinse in Giovanni, cui fu mozzato il capo; quella
dei Colonna fu in parte distrutta dal fiero prelato; la medesima
sorte subirono i Savelli. Molti castelli vennero spianati, molte
città distrutte, e gli abitanti correvano la Campagna affamati,
cercando qualche volta di vendersi come schiavi. Quando finalmente
il Vitelleschi, alla testa d'un piccolo esercito, entrava come un
trionfatore nella Città Eterna, che tremava ai suoi piedi, il Papa
insospettito gli mandò per successore lo Scarampo, altro prelato della
stessa tempra; ed il Vitelleschi, che voleva allora resistere, fu
subito circondato, ferito, preso e messo in Castel Sant'Angelo, dove
morì. Eugenio IV potè finalmente tornare tranquillo e sicuro in Roma; e
dopo tre anni anch'egli morì (1447).
Il destino di questo Papa, che sottomise definitivamente la Città
Eterna, fu singolare. Quando il Vitelleschi e lo Scarampo facevano
correre il sangue a fiumi, egli se ne stava a Firenze tra le feste
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