Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, vol. I - 16

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2. — VENUTA DI CARLO VIII IN ITALIA.
Carlo VIII, educato colla lettura di romanzi cavallereschi e di storie
delle Crociate, senza alcuna serietà di carattere, aveva la testa piena
di fantastici disegni, e si lasciava dominare da due ambiziosi che gli
erano sempre dintorno. Il primo di essi, Stefano di Vesc, di cameriere
fatto ciambellano e siniscalco di Beaucaire, divenuto assai ricco, era
avido di sempre nuovi guadagni. L'altro, Guglielmo Briçonnet, ricco
signore della Touraine, dopo aver perduto la moglie, era stato nel
1493 nominato vescovo di San Malò; aspirava al cappello cardinalizio,
e conduceva intanto le faccende principali dello Stato. Su questi
due uomini operava con promesse e con danari Lodovico il Moro. Egli,
dopo il matrimonio di Lucrezia Borgia col signore di Pesaro, che era
degli Sforza, sentiva crescere in Roma il proprio potere, sostenuto
dalla presenza colà di suo fratello il cardinale Ascanio. Ora trattava
contemporaneamente con tutti i potentati d'Italia, perchè il suo più
segreto pensiero era di far venire i Francesi, e formare poi una
lega per cacciarli, sperando così di restare solo arbitro d'ogni
cosa. Intanto gli esuli italiani, e specialmente i napoletani, lo
secondavano, spingendo con ogni lor possa il re Carlo a partire; ma gli
uomini di Stato e i capitani più reputati in Francia disapprovavano
altamente questa impresa. Il domani non era quindi più certo per
nessuno, e gli animi erano pieni d'una straordinaria trepidazione.
In questo stato di cose ambasciatori italiani percorrevano la Penisola
e l'Europa intera, in mille direzioni diverse. Un'operosità simile a
questa non fu mai veduta al mondo: ogni altro lavoro intellettuale
dell'Italia sembrava che dovesse sospendersi, per dar luogo ad un
nuovo, grande lavoro diplomatico; e l'infinita moltitudine di dispacci
che si scriveva adesso, divenne un monumento storico e letterario
di capitale importanza, che ci rivela mirabilmente il vero stato
della società e degli animi in quei giorni così infausti per noi. Gli
ambasciatori veneti, ora come sempre, primeggiano per senno pratico e
politica prudenza; i fiorentini invece per forza d'analisi psicologica,
studio di caratteri e di passioni, evidenza nelle descrizioni, eleganza
impareggiabile nella forma sempre disinvolta e spontanea. I medesimi
pregi si trovano più o meno in tutti gli altri: è questo il momento
in cui si forma la nuova educazione politica degl'italiani, e si crea
finalmente la moderna scienza di Stato.
Sin dal 1492 l'ambasciatore veneto Zaccaria Contarini aveva mandato
un ragguaglio minutissimo delle condizioni commerciali, politiche,
amministrative della Francia. A lui pareva impossibile che quel paese
potesse mai risolversi alla spedizione d'Italia, circondato com'era
da ogni lato di pericoli e di nemici, con un Re che, secondo lui,
valeva assai poco d'animo e di corpo.[259] Se non che, nello stesso
anno, il Re s'accordava con l'Inghilterra mediante danaro, con la
Spagna cedendo il Rossiglione ed altre terre sulla frontiera dei
Pirenei, con Massimiliano facendo un trattato che prometteva altre
cessioni importanti.[260] Lodovico il Moro s'obbligava a dare uomini e
denari, lasciando libero in Lombardia il passo all'esercito francese.
Continuava intanto i segreti accordi con alcuni degli Stati italiani;
prometteva sua figlia Bianca con ricca dote a Massimiliano, per aver
in cambio l'investitura di Milano.[261] Tuttavia le cose erano ancora
lontane da una conclusione definitiva. L'ambasciatore fiorentino
scriveva da Napoli: «il duca di Bari» (così, a suo grande dispetto,
soleva esser chiamato Lodovico il Moro) «ha gran piacere di tenere le
cose in travaglio, e sa fare mille disegni, che riescono per ora solo
in mente. Pure bisogna stare in guardia.»[262]
Il Casa, oratore fiorentino in Francia, nel giugno del 1493 giudicava
ancora impossibile l'impresa, perchè grandissima era la confusione, il
Re lasciavasi tirare da ogni lato, e si dimostrava tanto incapace da
vergognarsene a dirlo.[263] Ma poi, vedendolo deciso contro l'opinione
dei più autorevoli, e vedendo che gli apparecchi continuavano contro
tutti i ragionamenti, disperato quasi del suo proprio giudizio,
scriveva: «a capire le cose di qui bisognerebbe essere magico o
indovino, che prudente non basta. Questa faccenda aiuterà secondo che
la si butterà.»[264] E Gentile Becchi, altro oratore sopraggiunto
nel settembre, scriveva a Piero de' Medici, che la cosa era tanto
innanzi da non «potersi sperare di svolgere capi di bronzo come i
Francesi.[265] Questa serpe ha la sua coda in Italia. Sono gl'italiani
che spingono a più potere; Lodovico avrebbe voluto solamente sbattere
Napoli, e restar egli padrone del gioco; ma la rabbia l'ha condotto
nella trappola apparecchiata ad altri.[266] Il meglio perciò è starsene
sulle àncore fra Napoli e Milano: loro che se hanno appiccata questa
rogna, lor se la grattino.[267] Per fermare tutto occorrerebbe spendere
più danari che non ne spende Lodovico; sicchè ormai l'impresa anderà,
e se il Be vince, _actum est de omni Italia_, tutta a bordello: se
perde, si vendicherà sui mercanti italiani in Francia, massime sui
vostri.»[268] Piero de' Medici sperava sempre di poter persuadere
Lodovico, ma il Becchi che lo aveva conosciuto bambino, quasi lo
sgridava, scrivendogli: «attendete ai casi vostri, che avete briga un
mondo. Credete voi che Lodovico non sappia a che pericolo mette sè
e gli altri? Coi vostri consigli lo farete solo più ostinato.»[269]
Sopravvennero nuovi ambasciatori, fra i quali Piero Capponi, che allora
pareva amico de' Medici, e scrissero chiaro non esservi ormai altro da
fare, che apparecchiarsi alla difesa.
A Milano invece gli ambasciatori fiorentini cavavano assai poco dal
Moro. Agnolo Pandolfini, stato colà nel 1492 e 93, l'aveva trovato
occupato a mulinare disegni ed a consultare gli astrologi, cui prestava
fede grandissima: diceva di voler mettere una briglia in bocca a
Ferrante, troppo vago di novità. Nel 1494 il dado era tratto, ma
neppure allora l'ambasciatore Piero Alamanni poteva cavar nulla da lui.
«Voi mi parlate pure di questa Italia,» egli diceva, «ed io non la vidi
mai in viso. Nessuno s'è mai dato pensiero delle cose mie; ho dovuto
quindi assicurarle in qualche modo.»[270] E quando l'ambasciatore gli
faceva notare il pericolo in cui s'era messo, rispondeva, che lo vedeva
bene, ma che il peggior pericolo era d'essere «tenuto una bestia.» Poi,
quasi pigliandosi gioco di lui, aggiungeva: «Parlate pure. Che cosa
suggeriscono i Fiorentini? Non vi adirate, aiutatemi a pensare.»[271]
Nè altro v'era da cavarne.
Da Venezia gli ambasciatori scrivevano, che quei patrizî s'erano
chiusi in un estremo riserbo, e tagliavano i discorsi quando si
parlava dei Francesi. «Credono che lo stare in pace essi, e vedere
li altri potentati d'Italia spendere e patire, non possa essere se
non a proposito loro.[272] Diffidano di tutti, e sono persuasi d'aver
tanti danari da potere in ogni momento assoldare quanti uomini d'arme
vogliono, e così essere sempre padroni di condur le cose dove parrà a
loro.»[273]
A Napoli, invece, quel Re era in preda alla più grande agitazione, e
coll'aiuto del Pontano scriveva lettere, che parevano qualche volta
profetizzare i vicini guai del Regno e dell'Italia. Il Papa non sapeva
perdonargli l'opposizione fatta alla propria elezione, nè l'avere
secondato la vendita di Cervetri e d'Anguillara all'Orsini. Sua nipote
Isabella, moglie di Galeazzo Sforza, era tenuta come prigioniera dal
Moro, che agitava l'Italia co' suoi tenebrosi disegni; sua figlia
Eleonora, moglie d'Ercole d'Este, la sola che riuscisse a moderare
l'animo del Moro, era morta nel 1493; l'altra figlia, Beatrice, era
ripudiata dal re d'Ungheria, ed il Papa favoriva lo scioglimento
del matrimonio.[274] Intanto tutti parlavano della prossima venuta
dei Francesi. Vi fu un momento di speranza, quando il Papa trattò di
sposare uno de' suoi figli con una figlia naturale del Re; ma poi si
ritirò, quasi avesse voluto canzonarlo. Ferrante scrisse allora al suo
ambasciatore in Roma, amaramente dolendosi di questa condotta del Papa,
nel momento in cui stavano «per _mestecare_ insieme il loro sangue.
Si ricordi,» egli concludeva, «che non siamo giovani, nè da lasciarci
condur per il naso da lui.»[275]
Di tutto ciò Alessandro VI si curava poco, e andava innanzi negli
accordi coi Veneziani e con Milano; onde il Re scriveva: «Da chi
si vuol difendere quando nessuno lo assale? Pare proprio destinato
che i Papi non debbano lasciare in pace nessuno, per mettere a
rovina l'Italia. Noi ora siamo forzati alle armi; ma il duca di Bari
deve pensare a quello che può seguire dal tumulto che suscita. Chi
muove questa procella non sarà in grado di fermarla a sua posta.
Consideri bene il passato, e vedrà come ogni volta che per le interne
dissensioni si sono chiamate e condotte in Italia potenze ultramontane,
esse l'hanno oppressa e tiranneggiata, che ancora se ne vedono i
vestigi.»[276]
E poco dipoi scriveva al suo ambasciatore in Spagna addirittura come un
uomo disperato: «Questo Papa vuol proprio mettere a soqquadro l'Italia.
Per far danari s'accinge a nominare tredici cardinali a un tratto,
dai quali caverà non meno di 300,000 ducati. Trovò tutto tranquillo,
e si diè subito a far leghe e cercare tumulti.» — «Fa tale vita che
da tutti è abominata, senza respecto de la sedia dove sta, nè cura de
altro che, ad dericto e reverso, fare grandi li figliuoli, e questo è
solo il suo desiderio; e li pareno mille anni intrare in guerra, che da
principio del suo papato non ha facto altro, si non ponerse in affanno,
e molestarne quando per una via e quando per un'altra.... E Roma è
tutta piena de soldati più che de preiti, e quando va per Roma, va con
le squatre de le gente d'arme avanti, con li armetti[277] in testa, e
lance a la cossa, per forma che tutti motivi soi sono ad la guerra, et
in pernitie nostra, nè mai obmictere cosa che possa machinare contra
de noi, sublevando non solamente in Francia el principe de Salerno et
alcuni altri nostri rubelli, ma per Italia omne cancello rotto, lo qual
senta essere adverso: et in tutte cose va con frode e simulatione,
come è sua natura, e per fare danari vende omne minimo officio e
beneficio.»[278]
Pure nell'agosto Virginio Orsini s'obbligava a pagare al Papa, per
aver liberi i feudi contrastati, 25,000 ducati colla garanzia di
Ferrante e di Piero dei Medici;[279] e nel medesimo giorno veniva
finalmente segnato il contratto di matrimonio fra don Giuffrè Borgia,
figlio del Papa, in età di dodici anni, e donna Sancia, figlia di
Alfonso d'Aragona. Ella era rappresentata da don Federigo[280] suo
zio, che ricevette per lei l'anello nuziale fra le risa degli astanti,
specialmente del Papa che lo abbracciò.[281] Ferrante era fuori
di sè per la gioia di questo matrimonio, che doveva restar segreto
fino a Natale. Egli allora s'abbandonò tanto alla speranza, che il 5
dicembre propose al Papa una lega italiana.[282] Ma questi, prima che
s'arrivasse a Natale, aveva già mutato parere, e s'era avvicinato al
Moro. «Noi e nostro padre,» scriveva allora il Re all'ambasciatore,
«abbiamo sempre obbedito ai Papi; eppure non ve n'è stato uno solo che
non abbia cercato farci il peggio che ha potuto. Con questo Papa poi,
che pure è della nostra patria, non c'è stato possibile avere un sol
giorno di riposo. Non sappiamo davvero perchè vuole stare in travaglio
con noi, se non sia per influenza dei cieli, e per seguire l'esempio
degli altri, che pare destino che tutti i Papi ci debbano tormentare.
Esso ci vuol tenere sempre sospesi, mentre noi»....«non avimo pilo
adosso, che mai abbia pensato di darline una minima causa.»[283]
Il Re sente adesso vicina ed inevitabile la catastrofe; sente che le
forze gli mancano, che la morte s'avanza, e che il suo regno anderà
in frantumi. L'angoscia traspare da ogni linea delle sue lettere,
nelle quali egli dice e ripete, si adira e si umilia. Il 17 gennaio
1494 scriveva quella che può dirsi la sua ultima lettera. «Il signor
Lodovico consiglia al Papa di tenerci in parole, perchè se i Francesi
non vengono, potrà sempre accomodarsi con noi, che, secondo egli dice,
non lo vorremmo, non che per parente, neppure per cappellano. Se poi
vengono, sarà liberato dalla servitù nostra, degli Orsini e degli
altri baroni, i cui beni potrà dare ai suoi figli; e così i Pontefici
potranno in avvenire dominare lo Stato loro con la bacchetta in mano.
In questo modo va mettendo l'Italia a fuoco, di che conviene egli
stesso; ma aggiunge che il Papa deve postergare i danni d'Italia,
perchè a schifare la febbre continua si deve comportare la terzana.
Ed il Papa, essendo pur acuto e timido, si lascia tutto dominare da
Ascanio e guidare da Lodovico; onde invano cerchiamo indurlo a godersi
tranquillo il papato, senza entrare in affanni e partiti da capitani
di ventura, come lo ricerca il duca di Bari. Questi asserisce che noi
facciamo solo mostra d'armare, e che in estremo caso ricorreremmo anche
all'aiuto del Turco. Ma noi siamo parati a difenderci, e saremo pronti
ad ogni partito più disperato, quando non si ha da altri rispetto nè
alla fede, nè alla patria, nè alla religione. Ci ricordiamo che lo
stesso papa Innocenzo scrisse:
_Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo.»_
Finalmente, quasi vedesse dinanzi a sè il nemico temuto, concludeva con
parole che possono dirsi profetiche: «Francesi mai vennero in Italia,
che non la ponessero in ruina, e questa venuta è de natura che quando
sia ben considerata, che porterà ruina universale, perbenchè se minacci
solo a noi.»[284]
E con l'animo lacerato da questo tormentoso pensiero, dopo una
malattia di soli tre giorni, il 25 gennaio 1494 cessava finalmente di
vivere.[285] Gli successe Alfonso che, più impetuoso, più crudele, e
d'ingegno inferiore al padre, capiva pure in che pessime condizioni
si trovava, e cercava aiuto al Papa, a Lodovico, al Turco; ma invano,
perchè la venuta dei Francesi era inevitabile, e con essa la fine degli
Aragonesi in Napoli.
Piero de' Medici non si curava di nulla a Firenze, inclinava
verso gli Aragonesi, e si divertiva nella giostra, che allora
s'apparecchiava;[286] i Veneziani stavano a vedere; Ferrara
si dichiarava amica di Francia; Bologna s'alleava col Moro; il
Papa, sempre uguale a sè stesso, spaventato dalla minaccia di un
conciliabolo, che Carlo VIII diceva di voler radunare, dichiarava che
lo avrebbe ricevuto in Roma da amico,[287] e nel medesimo tempo mandava
in Napoli un suo nipote ad incoronare il re Alfonso. La confusione
era al colmo, e gli esuli italiani spingevano più che mai i Francesi a
partire, sperando ognuno di poter così fare le proprie vendette contro
i governi esistenti.
Ai primi di marzo Carlo VIII faceva il suo solenne ingresso a Lione,
per assumere il comando dell'impresa; un'avanguardia sotto lo scozzese
d'Aubigny s'avanzava già verso la frontiera napoletana, e il duca
d'Orléans era a Genova. I Napoletani dall'altro lato mandavano il
principe d'Altamura con trenta galere verso Genova, nel tempo stesso
in cui il duca di Calabria, giovinetto inesperto, sotto la guida
di provetti generali, tra cui era G. G. Trivulzio, valoroso esule
milanese, entrava nello Stato pontificio. Il Papa sembrava aver
perduta la testa, e non sapeva più a qual partito appigliarsi. Pure,
profittando del momento, chiedeva al Sultano l'anticipazione dei 40,000
ducati dovutigli ogni anno per tenere in custodia Gemme. A mettergli
poi spavento, aggiungeva che i Francesi venivano a liberare il
prigioniero, volendo col suo aiuto portar guerra in Oriente. E i danari
sarebbero arrivati, se a Sinigaglia l'ambasciatore che li recava, non
fosse stato nel settembre preso e svaligiato dal prefetto Giovanni
della Rovere, fratello del cardinale di San Piero in Vincoli.[288]
Ai primi di settembre Carlo VIII, passato il Monginevra, entrava in
Asti. E presto gli arrivava la notizia, che don Federico, col naviglio
napoletano, era stato respinto da Porto Venere con gravi perdite, e il
duca d'Orléans, entrato cogli Svizzeri a Rapallo, aveva saccheggiato
il paese, mettendo gli abitanti a fil di spada, anche i malati
nell'ospedale, con universale spavento di tutti gl'Italiani, non usi
allora a questo genere di guerra. Arrivato a Piacenza, il Re seppe
che Gio. Galeazzo, poco prima da lui veduto a Pavia, era colà morto
avvelenato, almeno così dicevasi universalmente, dal Moro, il quale,
fatte celebrare le esequie in Milano, entrava subito in Sant'Ambrogio,
all'ora indicatagli dall'astrologo, per consacrare l'investitura già
prima concessagli da Massimiliano re dei Romani. Tutto questo metteva
sospetto e quasi terrore nell'animo dei Francesi, che comprendevano
ora quale era la fede del più stretto alleato del Re in Italia. Il
Moro infatti da un lato raccoglieva uomini e danari per aiutarli,
dall'altro lavorava a stender le fila d'una lega, per poterli a suo
tempo cacciare. Perrone de' Baschi, di origine italiana, era venuto
nel 1493 a visitare le Corti della Penisola, e ne aveva, come scriveva
Piero de' Medici, «riportato vento;»[289] ed ora Filippo di Commines,
uomo di grande accortezza ed ingegno, ma di pessima fede, che conosceva
bene l'Italia, dove già era stato altre volte, non trovava in nessuna
delle Corti speranza d'amicizia sicura, e meno ancora d'aiuti efficaci,
sebbene molti desiderassero l'arrivo degli stranieri, per secondare i
proprî disegni. Egli che nelle sue Memorie scrisse intorno agli uomini
del suo tempo: «Nous sommes affoiblis de toute foy et loyaulté, les uns
envers les aultres, et ne sçauroye dire par quel lien on se pouisse
asseurer les uns des aultres,»[290] sperimentava ora in Italia la
verità della sua osservazione, e s'accorgeva d'essere in mezzo a gente
anche più accorta e più furba di lui.[291]
Ma la fortuna di Francia camminava nonostante a gran passi. Il duca
di Calabria, giunto in Romagna, si ritirava nel Napoletano al solo
apparire del d'Aubigny, ed il grosso dell'esercito francese, col Re
alla testa, s'avanzava per la Lunigiana senza incontrare ostacoli
di sorta. Dopo aver preso e saccheggiato Fivizzano, ponendo a fil di
spada i cento soldati che v'erano a guardia, e parte degli abitanti,
i Francesi si spinsero verso Sarzana, sopra un terreno sterile, fra
i monti ed il mare, dove ogni lieve resistenza avrebbe potuto riuscir
loro funesta. Ma invece i piccoli castelli, che erano posti a guardia
di quei luoghi, cedettero l'un dopo l'altro, senza neppur tentare la
difesa, e non era appena l'assedio di Sarzana cominciato, che Piero dei
Medici arrivò tutto spaventato, e si arrese a discrezione, promettendo
anche di pagare 200,000 ducati.
Se non che, tornato a Firenze il dì 8 novembre, trovò che la
Città s'era ribellata, e aveva mandato per suo conto ambasciatori
al Re, con incarico di riceverlo onorevolmente; ma nello stesso
tempo s'apparecchiava a difendersi, occorrendo. Lo sdegno era così
universale, che Piero se ne fuggì a Venezia, dove il suo ambasciatore
Soderini a mala pena lo guardò, essendosi già dichiarato per il governo
repubblicano,[292] in questo mezzo proclamato a Firenze, dove tutto era
rapidamente mutato. Il giardino dei Medici a San Marco, e le loro case
erano andati a sacco; gli esuli erano stati richiamati ed assoluti;
una taglia era stata messa su Piero e sul suo fratello cardinale. Nel
medesimo tempo però Pisa s'era ribellata sotto gli occhi stessi di re
Carlo, gettando in Arno il Marzocco;[293] Arezzo e Montepulciano ne
avevano imitato l'esempio. L'opera dei Medici, con tante cure e in sì
lungo tempo condotta a termine, andava ora quasi istantaneamente in
fumo.
Il 17 novembre Carlo VIII, alla testa del suo formidabile esercito,
entrava in Firenze colla lancia in resta, credendosi per questo atto
padrone della Città. Ma i Fiorentini s'erano armati, avevano raccolto
seimila uomini dalla campagna, e sapevano bene che dalle torri e dalle
case potevano mettere a grave pericolo un esercito diviso nelle strade.
Respinsero quindi le eccessive domande del Re, e quando egli minacciò
di far sonare le trombe, Piero Capponi, stracciando i capitoli che
venivano insolentemente proposti, rispose che i Fiorentini avrebbero
sonato le loro campane. Così si venne a patti più equi. Là Repubblica
pagherebbe in tre rate 120,000 fiorini; le fortezze però le sarebbero
state rese in breve. Il 28 novembre i Francesi lasciavano la Città, non
senza aver prima rubato quella parte ancora rimasta intatta del tesoro
di antichità, raccolte nel palazzo dei Medici. Fecero a chi più poteva,
dice lo stesso Commines, e gli alti uffiziali rubarono più degli
altri. Pure i cittadini erano contenti d'essere finalmente liberi dagli
antichi tiranni e dai nuovi stranieri.
Arrivato a Roma Carlo VIII, per farla finita col Papa,[294] che ora si
mostrava deciso a resistere, puntò i cannoni contro Castel Sant'Angelo,
e così tutto fu subito aggiustato. Il 16 gennaio 1495 il Briçonnet
venne nominato cardinale di San Malò, ed il Re assistette il giorno
20 ad una messa solenne, celebrata dal Santo Padre, il quale, o per
distrazione o per preoccupazione, commise, nei riti e nelle forme
prescritte, molti errori, che il Burcardo, maestro delle cerimonie, in
parte osservò troppo tardi, in parte lasciò correre per non richiamare
su di essi l'attenzione degli altri.[295]
Secondo l'accordo firmato a Roma, Carlo VIII, s'avanzò verso Napoli,
accompagnato dal cardinal di Valenza come ostaggio, insieme con
Gemme. Arrivati però a Velletri, il Cardinale scomparve: le sue
argenterie s'erano già fermate a mezza via; i bauli che, caricati sopra
diciassette muli, contenevano gli abiti e le masserizie, furono trovati
vuoti; Gemme s'era ammalato così gravemente, che giunto a Napoli morì.
Tutti dissero che era stato veleno dei Borgia; ma i Veneziani, sempre
benissimo informati dai loro ambasciatori, affermavano invece che era
stata morte naturale.[296] Pure il Re fu molto sdegnato della fuga,
ed esclamò: «Malvas Lombard, e lo primiero lo Santo Padre.»[297] Ogni
ricerca fu però vana. Egli continuò con l'esercito il suo cammino,
senza quasi incontrare ostacoli di sorta fino a Napoli. Alfonso
d'Aragona rinunziò al trono, e fuggì in Sicilia; Ferdinando II o, come
dicevano, Ferrandino, dopo aver cercato invano aiuto da tutti, anche
dal Turco, fece una resistenza inutile a Monte San Giovanni, che fu
preso e distrutto: gli abitanti andarono a fil di spada.[298] Gian
Giacomo Trivulzio disertò gli Aragonesi, e passò al nemico; Virginio
Orsini s'apparecchiava a far lo stesso; Napoli tumultuò in favore
dei Francesi, che vi entrarono il 22 febbraio. Il giorno seguente
Ferrandino fuggì ad Ischia, poi a Messina. E subito arrivarono gli
ambasciatori degli altri Stati italiani a congratularsi col vincitore.
Ma adesso finalmente i Veneziani s'erano svegliati, ed avendo mandato
i loro ambasciatori a Milano, per sapere se il Moro era disposto
ad armarsi per cacciare i Francesi, lo avevano trovato non solo
prontissimo, ma ancora pieno di sdegno. «Il Re non ha testa,» aveva
egli detto; «è in mano di gente che pensa solo a guadagnar danaro,
e tutti insieme non farìano mezz'uomo savio.» Ricordava l'alterigia
con cui era stato trattato da essi, e si dichiarava deciso ad entrare
in ogni lega per cacciarli. Consigliava di mandar danari alla Spagna
ed a Massimiliano, perchè assalissero la Francia; ma aggiungeva, che
bisognava guardarsi bene dal chiamarli in Italia: «chè dove ora abbiamo
una febbre, allora ne avremmo due.»[299]
La lega fu infatti conclusa tra i Veneziani, il Moro, il Papa, la
Spagna e Massimiliano. E l'ambasciatore Filippo di Commines, che ora
si trovava a Venezia, dove alla notizia dell'entrata del suo Re in
Napoli aveva visto i Senatori abbattuti per modo che i Romani, dopo
la disfatta di Canne, non potevano essere «plus esbahis, ne plus
espouvantés,»[300] adesso li trovava invece colla testa alta e pieni
di fierezza. I Napoletani già stanchi della mala signoria, s'erano
sollevati, e Carlo VIII, dopo soli cinquanta giorni di dimora fra di
loro, partiva più che in fretta, per non trovar tagliata ogni ritirata;
lasciava nel Regno poco più di 6000 uomini, menando seco un esercito
numeroso, nel quale però si trovavano solo 10,000 veri e proprî
combattenti. Il 6 di luglio si venne a giornata, a Fornuovo presso il
Taro. Gli alleati avevano messo insieme circa 30,000 uomini, tre quarti
dei quali erano dei Veneziani, il resto del Moro, con alcuni Tedeschi
mandati da Massimiliano. Nel momento dell'assalto avevano pronti a
combattere un numero d'uomini doppio dei Francesi; ma una metà di
essi restò inoperosa per errore di Rodolfo Gonzaga, ed i nemici invece
furono tutti al loro posto, con l'avanguardia sotto gli ordini di G.
G. Trivulzio, il quale era adesso coi Francesi, e sebbene combattesse
contro la patria sua, dimostrò pure grandissimo valore e capacità
militare. La battaglia fu sanguinosa, e si disputò molto di chi fosse
veramente la vittoria; ma se gl'Italiani non furono respinti, anzi
restarono padroni del campo, i Francesi volevano passare e passarono;
ottennero quindi essi lo scopo cui miravano.
Ad Asti il Re si fermò alquanto, e ricevette gli ambasciatori
fiorentini, ai quali promise nuovamente di render loro così le fortezze
occupate dai suoi, come la città di Pisa, e ne ebbe 30,000 ducati
a saldo dei 120,000 promessi in Firenze, dando però in pegno gioie
d'egual valore, da restituirsi appena rese le fortezze. Oltre di ciò i
Fiorentini promisero 250 uomini d'armi per aiutare il Re a Napoli, ed
un prestito di 70,000 ducati, che poi non dettero, perchè non riebbero
le fortezze.[301] Il Moro, profittando dell'occasione, venne subito
ad accordo coi Francesi, senza occuparsi dei Veneziani, credendo così
d'essersi liberato dagli uni e dagli altri, mentre invece s'esponeva
all'odio d'ambedue, come dovette ben presto accorgersene.
La fortuna dei Francesi continuava ora a decadere rapidamente in
Italia, e contribuiva a renderla peggiore non solamente la loro mala
signoria nel Reame, ma la pessima condotta che tenevano verso i pochi
amici restati loro fedeli nella Penisola. Il capitano d'Entrangues,
infatti, violando tutte le promesse del Re, cedeva ai Pisani, per
danaro, la fortezza della loro città, ed essi v'entrarono a gran
dispetto dei Fiorentini, il primo di gennaio 1496. Più tardi cedeva,
per altra somma, Pietrasanta ai Lucchesi; altri capitani, imitando
l'esempio, cedettero Sarzana e Sarzanello.[302] Ferdinando II intanto,
coll'aiuto degli Spagnuoli comandati da Consalvo di Cordova, s'avanzava
vittorioso nelle Calabrie, ed entrava in Napoli il 7 luglio 1496. In
breve tutte le fortezze napoletane capitolarono, ed i Francesi che
le guardavano, tornarono in patria più che decimati ed in pessime
condizioni. Il 6 di ottobre Ferdinando II moriva esausto dalle
agitazioni e fatiche della guerra, e gli succedeva lo zio don Federico,
che in tre anni fu il quinto re di Napoli,[303] e venne incoronato dal
cardinal di Valenza.
L'Italia poteva dirsi ora nuovamente libera dagli stranieri. Vi fu,
è vero, in quell'anno stesso, una breve corsa di Massimiliano che,
istigato dal Moro, venne ad aiutare Pisa, per non farla cadere in mano
dei Fiorentini, nè dei Veneziani; ma egli, arrivato con poche genti
e non trovando nessun aiuto, partì senza aver nulla concluso. Napoli
era in realtà venuta sotto l'assoluto predominio degli Spagnuoli, i
quali già maturavano sul Reame tenebrosi disegni; ma questi vennero
in luce solo più tardi. Carlo VIII diceva d'essere pentito, di voler
mutar vita, di voler punire il Papa, e tornare all'impresa d'Italia;
ma intanto se ne restava in Francia, abbandonato ai piaceri. Così,
in apparenza almeno, tutto era tranquillo. Se non che il giorno 7
aprile 1498, il Re moriva d'apoplessia, estinguendosi con lui il ramo
primogenito dei Valois, e gli succedeva il duca d'Orléans col nome di
Luigi XII. Questi, pei suoi legami di sangue coi Visconti, aveva sempre
preteso d'avere diritti sul Ducato di Milano. Ponendosi ora in capo
la corona di Francia, aggiungeva a ciò la presunzione di altri diritti
sull'Italia, e la forza per farli valere. Con lui infatti ricominciano
e continuano lungamente nuove invasioni e calamità nella Penisola.

3. — I BORGIA.
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